Io per Beatrice ho una “cotta” artistica non da poco, e non nego che attendevo il giorno del suo esordio forse più di quanto non lo attendesse lei stessa; ovviamente, ho cercato in tutti i modi di non farglielo sapere, non avevo alcuna intenzione di caricare di ancor più aspettativa un debutto che, al primo ascolto consapevole (la nostra è una storia di lunghe rincorse…) che ne feci ormai l’anno scorso, mi parve qualcosa di pre-destinato a lasciare un segno. Insomma, come potete capire, le mie (di aspettative) sono sempre state altissime.
“Figli” è il primo singolo estratto dall’EP d’esordio di Beatrice Pucci, cantautrice classe ’98 che, voi direte, dove si è nascosta finora? Beh, in un posto che a quanto pare l’ha preservata dalle barbarie del nostro tempo, dall’imbruttimento di una leva artistica che sembra essere quanto più mai decisa a seguire il carrozzone piuttosto che a trovare una propria strada e no, non è un discorso boomer (anche perché dopotutto la differenza anagrafica fra loro e me non è poi così abissale) ma l’amara confessione anche un po’ a mo di sfogo di un ascoltatore qualunque, stufo della noia in cui riversa il nostro panorama creativo (e di conseguenza, le nostre orecchie: ma qualche responsabilità la abbiamo anche noi…) da almeno un lustro a questa parte.
Beatrice, invece, proviene da una scuola diversa: quella che non antepone alcun autostop, alcun mezzo di fortuna, alcun aiuto altrui alla tortuosa e perigliosa strada che porta all’identità; ogni singolo respiro di “Le colline dell’argento” (EP che ascolterete fra circa un mese, e se non lo farete beh, peggio per voi) è una virgola che Beatrice sembra disegnare con la punta dell’indice sullo sfondo appannato di un vetro, lanciata a tutta velocità nella moltiplicazione caleidoscopica di immagini e significati spiata dagli specchietti di una macchina in corsa verso il futuro.
Se la macchina brontola, è Beatrice a riassettare i feedback e le risonanze del motore per non far collassare il viaggio, se l’ammortizzatore non regge il dosso alla curva successiva è Beatrice a rallentare il respiro, permettendo alle ruote di riassestarsi al terreno; Beatrice non solo conosce la strada (o meglio, non la conosce affatto: è qui che si dimostra la tempra dell’intuito, e il coraggio di chi sa tuffarsi solo nel vuoto), ma ha progetto anche l’intera macchina su cui viaggia.
No, della canzone non vi ho detto nulla e le metafore le sa usare e fabbricare molto meglio lei. Ho preferito non aprire il forziere, ma lasciarlo contemplare a chi ha la voglia di lasciarsi “scassinare” dalla musica: di compenso, ho posto qualche domanda a Beatrice Pucci più per levarmi lo sfizio personale di essere uno dei primi (di una lunga sfilza di più o meno credibili recensori) a farlo che per darvi una guida all’ascolto. “Accontentatevi” delle vostre orecchie: credo che quelle, atrofiche o meno che siano diventate (come le mie) possano bastare eccome.
Bentrovata sulle nostre colonne, Beatrice. Allora, il tuo è un esordio che tuttavia sembra possedere già la consapevolezza di una gavetta di tutto rispetto. Di te sappiamo poco: ti va di raccontarci qual’è il percorso che ti ha portato fin qui, e dove affondano le radici del tuo progetto musicale?
Ciao, le radici del mio progetto partono dall’adolescenza, periodo in cui ho scoperto la mia passione per la musica, riguardando indietro lo vedo davvero come il momento che ha dato inizio all’abitudine di fare musica e cercare qualcosa nella musica, poi mi sono detta che questa ricerca poteva significare qualcosa anche per qualcun altro al di fuori di me. E’ complicato sintetizzare quale sia stato il percorso che mi ha portata fin qui, in linea massima la pura curiosità di vedere se le cose si possono fare davvero qui e ora, senza rimandare perché si crede di non avere i mezzi giusti per fare quello che si vuole.
Ricordi la prima canzone che hai scritto? Qual’è stato il tuo primo approccio con la musica?
Certo, me la ricordo. Avevo quattordici anni e da qualche mese avevo iniziato a suonare la chitarra, mi trovavo in quella fase in cui non si riesce bene a cantare e suonare contemporaneamente. Il mio primo approccio con la musica invece risale a quando, a undici anni, chiesi ai miei genitori di prendere lezione di clarinetto, non ricordo il motivo esatto ma ricordo che suonare uno strumento mi sembrava una cosa molto cool.
“Figli” è un titolo piuttosto iconico, e racconta in qualche modo quello che è il rapporto con le tue canzoni, con l’atto della scrittura. Sembra quasi che nel brano emerga una visione poetica della “musica” come strumento utile a “non scomparire”, a restare in piedi in mezzo alla tormenta. Viene quindi spontaneo chiederti se in qualche modo ci abbiamo visto giusto, e sarebbe bello se ti andasse di approfondire insieme a noi questo aspetto “taumaturgico” che la musica sembra per te possedere. In generale, anche la tematica dell’abbandono sembra essere molto presente nel tuo singolo d’esordio. Quali sono, per te, le cose che rimangono? Di cosa è fatta quella “musica che ti consola” di cui parli?
Banalmente ti dirò che quello che resta, alla fine del giorno, sono i ricordi carichi di emozioni e “la musica che mi consola” è proprio quella che nella mente ci ricollega a un ricordo significativo. E sì, senz’altro tutto questo possiede anche un aspetto “curativo” per me, perché mi aiuta ad archiviare e tenere al sicuro ricordi.
La tua scrittura risente di influenze diverse: si avverte l’impronta autorale che però finisce con il mescolarsi con sonorità che appaiono derivate da un approccio quasi post-rock. Quali sono i principali riferimenti di Beatrice?
In quanto a riferimenti musicali mi piace spaziare ovunque: dai Radiohead che amo per la scelta degli accordi, a Angel Olsen per il suo modo viscerale di dire le cose, fino a Calvin Harris con la sua musica elettronica che mi ricorda l’estate.
Abbiamo appena scoperto la tua musica, ma dalle tue note stampa leggiamo che presto hai intenzione di pubblicare il tuo album d’esordio. Oggi, i tempi sembrano essersi assai dilatati e tutti preferiscono pubblicare singoli, forse perché meno “impegnativi” dal punto di vista poetico, narrativo ed economico. Perché tu hai deciso, invece, di procedere speditamente alla pubblicazione del tuo EP?
Non so per quale motivo ma ho sempre ascoltato musica identificandola all’interno di album e per me, come anche per altre persone, ogni album rappresenta un’era specifica e un mood specifico che difficilmente si riesce a creare in singoli sparsi.
A questo, punto non rimane che darci appuntamento a breve. Ci lasciamo con una delle nostre tipiche domande un po’ giocose: saluta i nostri lettori con un proverbio delle tue parti, che in qualche modo racconti anche un po’ chi sei e qual’è il tuo approccio alla vita.
Okay, allora vi saluto a modo mio dicendo che “si è fatta una certa” e che devo andare a “fare cose”, senza specificare quali cose. Ciao!