Biagio è un folle, uno di quelli veri però, mica un quaquaraqqua: nell’era della “follia” come “moda” un po’ borderline, nell’epoca dell’eccesso eccessivo a tutti i costi (quello che insomma non viene da un surplus naturale, ma da una patologica ricerca dell’appariscenza), nel secolo della demenza più che della demenzialità, il cantautore napoletano rappresenta un buon viatico al futuro, una salubre medicina capace di condensare, in un’alchimia riuscita di sonorità e immagini al limite del paranormale, follia, eccesso e demenziale con sincerità autentica in una fusione che prende, oggi, il nome del suo disco d’esordio, “Come farsi appendere con sette semplici canzoni”.
Piccolo bignami di napoletano: il verbo “appendere”, qui, significa “farsi lasciare”, disinteressare qualcuno che, alla fine, dopo tanto amore, corteggiamento e ricerca di baci e carezze, finisce con il “lasciarci appesi”. Ecco, Biagio – a sentir lui – nella vita è stato “appeso” da una sequela infinita di fatti e fattacci, che alla fine lo hanno messo nella condizione esplosiva di dover catarticamente esorcizzare la cosa attraverso la scrittura; il compagno fidato del viaggio a vista di Biagio è diventato Stefanelli, che è un altro pazzo vero, e il risultato del tutto è su Spotify, che talvolta sa regalare ancora gemme preziose che meriterebbero di brillare di più (insomma, anche qui il colosso svedese di meriti ne ha ben pochi – anzi, non ne ha proprio).
Potevo perdere l’occasione di farmi due chiacchiere con il mattacchione? Ovviamente no. A maggior ragione, perché credo che dalle chiacchiere di due folli possa spesso venir fuori qualcosa di più sensato di ciò che capita talvolta di sentir dire nei salotti borghesi. Quanto meno, fra matti ci si diverte di più.
Benvenuto sulle nostre colonne, Biagio, è un piacere averti qui! A maggior ragione perché il tuo disco d’esordio, “Come farsi appendere con sette semplici canzoni”, ci ha fatto molto sorridere, oltre ad averci fatto scoprire la tua musica. Ecco, partiamo dal titolo, e magari spieghiamo ai nostri lettori cosa significhi “farsi appendere”…
Dicesi “appendere” l’azione del dare buca. Posso appendere un appuntamento, una situazione che non mi sta a genio ma anche una persona. Il titolo nasce dall’autoironia inflittami per non prendermi troppo sul serio ed affrontare tutto col sorriso, anche un’appesa.
Nella vita, hai fatto tante cose e ora, nello specifico, pratichi il lavoro per il quale hai studiato. La musica, tuttavia, pare essere sempre stata una costante nel corso del tuo crescere: ecco, qual’è il rapporto che ti ha, nel tempo, legato alle sette note? Come si è evoluto, e come lo vivi ora…
Sono Ingegnere e non pratico il lavoro per il quale ho studiato. Per chi mi hai preso?!?
D’altro canto la musica è sempre stata presente nella mia vita. Sono figlio di un musicista ed ho studiato pianoforte fin da tenera età per poi imparare a suonare la chitarra da autodidatta.
Oggi, posso dire, con estrema lucidità, che la musica, per me, rappresenta meramente un costosissimo hobby.
Tra l’altro, il disco racconta diversi momenti autobiografici. Anzi, pare che tutto il tuo primo disco sia in fondo una raccolta di “momenti salienti” della tua vita: ma c’è un qualche motivo, qualche preciso aneddoto, che ti ha spinto a scegliere proprio questo, come titolo del tuo esordio?
Vedo che ti sei fissato, allora te lo racconto. Primo lockdown, non si batteva chiodo, il disco incominciava a prendere forma.
Per passare il tempo cercavo in Internet vari tutorial stupidi, rigorosamente non funzionanti, come ad esempio “come piacere alle ragazze in 5 semplici mosse”. E da qui iniziai a giocare col titolo per renderlo somigliante ad uno di questi fantomatici tutorial, da qui la genesi di CFACSSC.
Andiamo ai pezzi. Certo che cominciare il disco con un brano come “le vibrazioni” è mettere da subito le cose in chiaro! Che rapporto hai con le, chiamiamole così, “vibrazioni” dell’amore e… cosa c’era dentro quella bottiglietta?
Ho un ottimo rapporto con le vibrazioni dell’amore, anzi sono il sale di una relazione duratura. La cosa che mi affascina è che possono essere positive o negative ma non mi annoiano mai. Ecco, in quella bottiglietta c’era un vero è proprio distillato d’amore.
Viva l’amore!
Tra i brani, “Non lasciarmi” è forse quello dal quale traspare una tristezza più profonda, un senso di abbandono generato dalla distanza… l’ “Erasmus al Nord” è un “simbolo” ironico quanto potente per riflettere sul concetto di distanza: ti fa paura, in amore, la distanza?
Ah sì certo che mi fa paura la distanza, ma la cosa che mi fa più paura è l’abbandono. Il fare progetti con una persona e rimanere deluso, non potendo nemmeno prendersela con nessuno perchè che vuoi? E’ la vita.
Sia “Geeno” che “Celovuoi” si accompagnano a videoclip divertenti e dissacranti… ne prevedi altri, magari ad accompagnare qualche brano del disco?
Essendo un artista autoprodotto devo controllare quanti soldi mi sono rimasti sul conto e verificare qualche disponibilità. Devo insomma controllare quanti piaceri mi sono rimasti da chiedere a chi mi conosce.
Nel tuo disco, hai un modo molto ironico di approcciare a questioni “cantautorali”, serie… Quali sono le principali influenze che hanno connotato la tua scrittura?
Penso che la formazione alla scrittura, come all’ascolto e qualsiasi altro ambito della vita avvenga in fase adolescenziale. In quel periodo ascoltavo molto Lucio Battisti, tra i cantautori. Dunque ti dico Mogol e Battisti.