Faccio un discorso boomer? Ok, faccio un discorso boomer: ho visto i Manila crescere, e sono tanto felice di aver potuto assistere a qualcosa che, negli ultimi mesi, ha portato alle mie orecchie (e alle orecchie, quantomeno, di chi ha saputo fidarsi dei miei consigli di sottobanco) una sensazione di verità, di fresca autenticità che serve un po’ a risvegliare il torpore atarattico in cui spesso cade il corpo di chi, come me, fa questo lavoro assurdo di scrivere di musica, rimanendo aggiornato su tutto quello che il mercato propone e spesso, più correttamente, propina.
I Manila, naturalmente, non fanno parte di quei lustrini d’artisti che sfavillano (solo se) sotto le luci della ribalta, esposti a bombardamenti incensanti di addetti al settore e giornaletti online più o meno credibili (non come il nostro, che invece è un magazine-bibbia e chi dice il contrario non sa leggere); non fanno nemmeno parte di quella schiera di fenomeni passeggeri che le vostre playlist preferite vi consiglieranno un po’ sfruttano l’algoritmica dei vostri gusti, un po’ utilizzando come volano i pollici versi di qualche più o meno onesto selezionatore editoriale; i Manila esistono senza la pretesa di dover raggiungere a tutti i costi un successo che diventa, per loro, al più successivo alla restituzione di un’idea, di un manifesto che attraverso “Partenze“, il loro primo EP prodotto da quel bel mattacchione di Leo Caleo, si fa corpo, voce e sintetizzatore.
Corpo, perché la cinquina di brani che costituisce il corpus di “Partenze” è qualcosa, appunto, di estremamente organico, materico, potente nella sua capacità di farsi verbo e di proliferare come una piccola erba infestante nel cuore di chi sa ascoltare, e cerca da sempre un luogo utile a rifugiare le proprie membra lasse da una rincorsa su sé stessi che la mia generazione, quella degli entranti nel club dei 27 (acciderbolina, ancora pochi mesi per strappare alla morte una goccia di splendore) o comunque dei nati tra i ’90 e il terzo millennio, sente gravare sulle spalle appesantite da questa vincolante, estrema libertà.
Voce, perché il timbro dei Manila diventa l’amalgama di un lavoro che parte dalla scrittura, e si sente: c’è una ricerca autorale dietro la stesura di un disco che vuole parlare ad un’intera generazione, e che lo fa proprio mettendo “voce” a parole ben scelte, ben calibrate, ben posizionate; con semplicità, senza retorica, ma piuttosto con una spontanea e naturale ricerca espressiva che passa, appunto, attraverso una produzione curata con attenzione, senza troppi voli pindarici e con una forte attenzione ad un’essenzialità che passa dalla densità di muri di sintetizzatori e sonorità elettroniche.
Beh, che a Caleo i sintetizzatori piacessero lo sapevo già, ma qui si è proprio sbizzarrita la sua vena Ottanta: il producer carrarino ha infatti scelto un vestito adatto a restituire alla matrice autorale dei Manila una dimensione musicale adatta a valorizzare anche la composizione della band, lasciando ben intendere che i live del gruppo saranno tutti da scoprire.
Insomma, quello dei Manila è un ottimo debutto che merita certamente l’attenzione di chi ha voglia di non fermarsi, e di ridare fiato a speranze e (ri)”Partenze”; c’è qualcosa che continua a muoversi, nei “sotterranei” del nuovo pop: basta non stancarsi di sondarne le profondità.