Matthew: la vulnerabilità come atto di forza in “Hai lasciato qui ogni cosa”

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C’è una sincerità disarmante in “Hai lasciato qui ogni cosa”, il nuovo singolo di Matthew, un brano che nasce da una ferita e si trasforma in atto di catarsi. Voce e chitarra si fondono in un pop-folk intriso di fragilità e resistenza, dove il dolore non viene nascosto, ma accolto e trasformato in suono.

Con questo pezzo, Matthew apre le porte di un universo interiore fatto di silenzi, confessioni e luci che cambiano lentamente, come nel videoclip che accompagna la canzone: un racconto visivo essenziale, quasi ascetico, che lascia emergere l’autenticità del gesto e dello sguardo.

Dedicato a suo padre, “Hai lasciato qui ogni cosa” è un omaggio alla resilienza, alla forza di restare in piedi quando tutto crolla, e alla bellezza imperfetta che nasce dalle cicatrici. È il ritratto di un artista che non ha paura di mostrarsi vulnerabile e che, proprio in quella vulnerabilità, trova la propria verità.

“Hai lasciato qui ogni cosa” nasce da una ferita profonda. Quando hai sentito che era arrivato il momento giusto per trasformare quel dolore in musica?

Quando ho capito che continuare a scappare non serviva più. Ho passato mesi a cercare di tenere tutto dentro, poi una sera ho preso la chitarra e ho iniziato a suonare. Era come se il dolore volesse uscire da solo. Non ho pensato a scrivere una canzone, ho solo smesso di oppormi a quello che provavo.

Nel brano si percepisce una tensione costante tra resa e resistenza. Quanto conta per te trovare bellezza anche dentro la sconfitta?

Conta tutto. È lì che si capisce chi sei davvero. Quando ti crolla addosso tutto e invece di fuggire resti in piedi, anche solo un attimo, lì c’è la bellezza. Non quella perfetta, ma quella che ti sporca le mani e ti fa crescere.

Il videoclip gioca su elementi minimi — una sedia, la luce, il movimento circolare della camera — ma restituisce un grande impatto emotivo. In che modo questo linguaggio visivo dialoga con la tua idea di introspezione?

Volevo che fosse nudo. Niente distrazioni, niente scenografia a coprire. Solo io, una stanza e la luce che cambia come cambia dentro di me mentre canto. È una specie di confessione visiva, un momento dove non puoi più fingere.

Hai dedicato la canzone a tuo padre. Quanto ha influenzato il tuo percorso umano e artistico?

Mio padre continua a insegnarmi ogni giorno cosa significa reagire. Nella vita ha subito tanto, ma non l’ho mai visto crollare. È una delle persone più forti che conosco e da lui ho imparato che la dignità non si misura con quello che ottieni ma con come resti in piedi quando perdi. Questa canzone nasce anche da lì.

Il tuo pop-folk-rock ha un’impronta intima e profonda, ma anche una ricerca di autenticità quasi spirituale. In che direzione senti che stia evolvendo il tuo linguaggio musicale dopo questo brano?

Sto andando verso qualcosa di ancora più vero, più diretto. Non mi interessa più suonare perfetto, mi interessa dire la verità. Voglio che la mia musica suoni come una cicatrice, magari non è bella, ma è reale e racconta una storia.

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