Con “Mantra”, i Lande proseguono la loro esplorazione tra suono e introspezione, costruendo un brano che riflette sul bisogno – e sulla fragilità – delle convenzioni quotidiane. Nella loro musica convivono ricerca e smarrimento, controllo e abbandono: un dualismo che diventa la cifra stessa del progetto. Il singolo si muove tra campionamenti claudicanti, sitar intergalattici e ritmiche irregolari, creando un paesaggio sonoro che sembra interrogarsi sul confine tra coscienza e caos creativo.
Il duo, in questa intervista per Indie Life, racconta il proprio rapporto con la scrittura come un esercizio di inconsapevolezza consapevole, un continuo oscillare tra introspezione personale e osservazione del mondo. “Mantra” diventa così non solo una canzone, ma un piccolo rituale musicale, un tentativo di dare forma al disordine e di accettarlo come parte inevitabile del processo artistico.
“Mantra” suona come una ricerca di pace interiore che non arriva mai del tutto: è anche una metafora del vostro percorso artistico?
Decisamente sì. Il processo creativo di una canzone prevede ogni volta, in forme diverse, l’incontro con il disastro.
Vi capita di usare la musica come terapia o come esercizio di consapevolezza?
In un certo senso, ci sembra di usarla più come un esercizio di inconsapevolezza. Le facciamo venire i muscoli, all’inconsapevolezza. C’è ben poco di consapevole nel processo creativo, a parte la volontà, quando c’è, di mettersi a lavoro. Un momento prima un’idea non c’è, un momento dopo c’è. Stabilirne in modo chiaro e definito la paternità è tutt’altro che banale. Non neghiamo che ci sia un processo di lavoro nella creatività, c’è eccome e, almeno per noi, si spalma su tempi estremamente dilatati. Ma tale processo, breve o lungo, avviene in una modalità prevalentemente inconscia. Possiamo però essere consapevoli di questo, e della nostra gigante insignificanza e irrilevanza, anche rispetto alla musica che noi stessi produciamo.
Quanto c’è di personale e quanto di osservazione del mondo nel vostro modo di scrivere?
I due piani si intrecciano, anche nella misura in cui ciò che siamo in grado di osservare del mondo è plasmato da ciò che accade dentro di noi. E viceversa. Poter abitare una sola di queste dimensioni nel fare canzoni ci suona un po’ illusorio. Riflettendoci, forse è un po’ per questo che, come accade in Mantra, nei testi ci ritroviamo tendenzialmente ad evitare l’uso della prima persona
In che modo la collaborazione tra voi due ha cambiato la vostra idea di equilibrio?
Domanda interessante! Veniamo entrambi da esperienze con band aventi più elementi, in cui le dinamiche erano ovviamente molto distribuite tra i soggetti che ne facevano parte. Trovarsi in “duo” ci spinge a percepirsi continuamente in prima linea di fronte alle vette e ai baratri che si incontrano nell’esperienza creativa del fare canzoni. Forse ci si trova a sperimentare più disequilibrio, con qualche protezione in meno.
Se doveste riassumere “Mantra” in un’emozione precisa, quale sarebbe?
Un potere interessante della musica è la polisemanticità. È proprio una caratteristica bella, che trascende quindi la definizione e distinzione categoriale delle emozioni. Se una canzone può essere riassunta da un’emozione forse vuol dire che è un po’ povera; ondevitare il rischio di riconoscere platealmente la povertà di una nostra canzone, ci conviene quindi non rispondere alla domanda…

