Case Popolari di La Preghiera Di Jonah, una recensione

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La Preghiera di Jonah è una bella speranza per il mercato contemporaneo: piglio giusto da scuola rock post-grunge per una band solida, che ha fatto delle direzioni ostinate e contrarie il moto continuo di una scrittura audace, a tratti quasi sfrontata nel suo essere profondamente radicata in un disagio generazionale.

I primi due singoli mi avevano già convinto sulla bontà del progetto; le parole erano tutte al posto giusto, l’immaginario dei ragazzi (LPDJ sono fortissimi anche dal punto di vista del visual: guardatevi le copertine dei loro lavori, e capirete cosa intendo) si faceva prova di una ricerca estetica consapevole e poi, vabbé, la collaborazione con Edda (che è un buongustaio, oltre che un monumento dell’indipendenza) aveva messo il marchio DOP sull’intera produzione della compagine campana agli occhi di uno che, come me, a queste sfumature (evidenti) fa caso.

Però “Case Popolari” ha un piglio diverso, rispetto al passato: il mantra quasi logorroico recitato da una produzione ossessivamente elettronica fa da volano alla preghiera di una canzone disperata, perché dedicata ai dispersi; nell’era dei movimento centrifughi e dello strappo delle radici, LPDJ sforna un malinconico e quasi rassegnato peana per il senso d’appartenenza alla propria terra, così amata ed odiata.

Insomma, un urlo di sincerità nella notte fonda della menzogna discografica per un progetto che sembra avere la consapevolezza giusta, ora, per elevarsi verso vette nuove. E magari, verso la pubblicazione di un primo, atteso, album.

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