Quando qualche giorno fa mi è giunto per la prima volta all’orecchio il nome di Gloria Turrini e Mecco Guidi – mea culpa – ammetto di essere caduto un po’ dalle nuvole.
Non ho mai avuto una passione sfrenata per certe operazioni di recupero (spesso forzato) di sonorità che la liquidità moderna ama definire, scialacquandole in una parola, “superate”; il blues è di certo il contenitore più frequentato dai musicisti di tutte le età, al punto tale che, tra i fumi di club e balere più o meno dignitose, diventa spesso difficile distinguere l’amatore dal professionista. Anzi, il distacco talvolta diventa a tal punto labile da gravare sulla dignità storica di qualcosa che non può né deve ridursi soltanto alle serate rock dei pub di provincia, ma che merita di essere ricontestualizzato, riscoperto e risarcito di tutti questi anni di “violenze musicali” a base di pentatoniche raffazzonate e discutibili look alla Blues Brothers.
Ecco perché cadere dalle nuvole, come dicevo in apertura di articolo, si è rivelato per me trauma e shock necessario a liberarmi dal peso di un certo tipo di pregiudizio, di un’ormai irrigidita visione delle cose; serve la bellezza, a volte, per farci ricordare cosa sia necessario ricercare nella rivalutazione del presente, passando attraverso una consapevolezza di ciò che è stato che non sappia cedere all’abuso del cliché – da parte di chi suona, come da parte di chi ne scrive con penna (spesso fin troppo) aguzza.
Indubbiamente, il duo romagnolo Turrini/Guidi ha tutte le carte in regola per mettere a frutto la propria pluriennale esperienza in un’operazione sensata di valorizzazione delle proprie radici, attraverso un ritorno alle origini che possa farsi riscoperta di ciò che resiste all’usura del tempo e dei facili giudizi: al netto delle proprie numerose ed importanti collaborazioni con artisti di livello (da Gazzé a Cremonini passando per Biondi e Gualazzi), i due sono riusciti a tirar fuori dal cilindro una raccolta densa ed efficace di undici pezzi capaci di raccontare la contemporaneità attraverso il linguaggio ancestrale del blues, senza mai sedersi su pose emulative o – peggio ancora – su comodità di sorta.
Il disco scorre leggero nonostante il coefficiente qualitativo alto di esecuzione e scrittura: la vocalità intensa (quasi a tratti “spiritual” nel significato diretto del termine) e ricca di sfumature di Gloria (che in questo nuovo lavoro troviamo anche alla batteria, ad ulteriore comprova della versatilità musicale dei singoli elementi del duo) fa da guida, attraverso le trame del piano di Mecco (che pasta timbrica che ha, lo strumento scelto, da vera bettola di New Orleans), in un viaggio ascetico che dai ruggenti Venti porta dritto dritto all’immediata contemporaneità, restituendo al linguaggio scelto la dignità necessaria a levargli di dosso le tre dita di polvere che un certo tipo di atteggiamento “di nicchia” ha saputo, negli ultimi anni, accumulare sul blues e sul jazz.
Non mancano le collaborazioni, una di queste – quella con il trombettista Andrea Guerrini, vero jolly della formazione romagnola – decisiva e funzionale alla resa del tutto attraverso un sapiente utilizzo del suono e delle scelte di arrangiamento; sul celebre brano di Dinah Washington, “A rockin’ good way”, accorrono ad arricchire il tutto anche i Lovesick Duo, richiamando a quel concetto di “comune umana” che in qualche modo sta alla base dell’esperienza blues (nel senso originario del termine) e che Turrini e Guidi si sono dimostrati capaci di riproporre nel percorso di “G and the Doctor“.
Un disco riuscito, ben pensato e ben suonato, capace di far salire anche ad uno scettico come il sottoscritto la voglia di mettermi addosso un completo nero e un paio di Ray Ban scuri, saltellando come ossesso perché “in missione per conto di Dio”. Ah, se bastasse questo ad essere bravi come loro!