Sentendo Scatolette mi sono sentita con le spalle al muro, con I Ministri che mi puntavano addosso un fucile che spara solo verità. Perché non importa che la critica non fosse rivolta personalmente a me. Il punto è che la critica mi riguarda.
Sì, perché Scatolette ti costringe a guardare in faccia una realtà che non ride, anche se non vuoi, anche se volentieri «facciamo finta di avere altro da fare».
«Dentro al pezzo c’è un po’ di resa e un po’ di speranza, una speranza che forse è rappresentata più che altro dal fatto di continuare a fare canzoni, che saranno anche solo piccoli drammi per sentirsi meglio, ma riescono spesso a dare un senso a periodi che altrimenti non avrebbero né capo né coda». Questo è il commento della rock band.
Resa. Speranza. Resa. Speranza. Le parole mi martellano in testa perché suonano come opposti, ma si somigliano e si fanno l’occhiolino quando non li guardo. Combattenti ostili sul ring, si baciano con la lingua negli spogliatoi. La frase sa di pendolo leopardiano, come sancisse il nostro destino: resa, speranza, resa, speranza.
La musica per I Ministri: Scatolette, “tutto quello che non bisogna fare”
Poi ho capito. Non è un pendolo, non si alterna. È un drink da bere liscio, di quelli che bruciano la gola, fatto di due soli ingredienti mischiati insieme.
Gli ultimi anni sono stati devastanti da mille punti di vista e, che mi volti indietro o avanti, vedo comunque problemi. Prima della Russia, prima della pandemia.
La plastica, i telefoni, il consumismo, l’11 settembre, il cambiamento climatico, la religione, i social network, le bombe atomiche, il marketing, la società di massa, le paghe, le tasse, l’Afghanistan, il lusso, il petrolio, la destra e la sinistra. La corruzione, la violenza, Israele, il buonismo, il razzismo, le leggi, la storia. L’Italia, la mafia, Hong Kong, l’immigrazione, l’omofobia. L’America, la Corea, la dittatura, il mondo che muore. Il mondo. Dio che è morto.
Dio che forse mi piace pensare morto perché mi fa più paura pensarlo vivo.
E qualche volta, noi, con i cartelli, con le parole, con le mani, la musica, nelle nostre piccole case, coi nostri piccoli lavori, sui nostri piccoli palchi, facciamo cose apparentemente insignificanti perché qualcosa cambi.
Se mi volto indietro non posso modificare nulla di ciò che è stato, per quanto mi piacerebbe farlo. Se guardo in avanti io, piccola, minuscola davanti a un mondo che sembra andare sempre al contrario, non posso, comunque, non avere speranza.
Fa sorridere e commuovere che spostare un granello di sabbia diventi un gran gesto.
E in questo contesto, l’arma di chi fa musica per vivere non può che essere la musica.
In una società che impone tutto ciò che sarebbe bene fare ed essere, la musica sfugge. Nonostante i concerti seduti, tutti i “quando ti trovi un lavoro vero?”, un settore dimenticato, le porte sbarrate di migliaia di posti in cui abbiamo cantato e ballato nella notte, posti che ci hanno salvati, strumenti, cantanti, canzoni che ci hanno salvati, la musica ancora sorprende e, oggi più che mai, porta un messaggio.
Perché è una di quelle poche cose, come l’amore, che, fosse anche solo per un attimo, ti fa scordare la faccia brutta del mondo. Che è bella da fare male.
Conclusioni
Non tutte le canzoni devono parlare d’amore. Alcune devono portare messaggi, urlare a squarcia gola, svegliare, rimproverare, ferire.
Alcune canzoni hanno la – utopica, improbabile, stupida, meravigliosa – speranza di cambiare non le cose, ma qualcosa.
Ogni piccolo dramma personale diventa importante non solo per chi ha il coraggio di alzarsi sulla sedia e urlarlo al mondo, ma per chiunque sappia prestare orecchio a chi fa «tutto quello che non bisogna fare».
E io con le spalle al muro non posso che farmi sparare, perché I Ministri mi hanno reso partecipe di quello che volevano dirmi.
Perché hanno spostato il mio piccolo – ma davvero così piccolo? – granello di sabbia.