Lo avevamo detto: non passerà inosservato. Dargen D’Amico, al secolo Jacopo, non si è di certo presentato a Sanremo in punta di piedi. Il rapper/poeta/scrittore, però, potrebbe aver deluso più di un fan con la sua canzone.
Perché se per anni ci ha abituato a un viaggio all’interno dei massimi sistemi – morte, vita, sogno, mancanza – qui il cantautore milanese è partito fin da subito con un intento chiaro: “Dove si balla”.
E ha avuto la premura, per neofiti e non, di dissipare tutti i dubbi. Sbandierare ai quattro venti quello che voleva raccontare con la sua musica: una storia. Superficiale?
Noi non crediamo.
Ma andiamo con ordine.
“Dove si balla”, analisi (semi)seria
I lavori di Dargen sono un rebus. Da sempre e per sempre. Ci sono tante parole dietro a ogni parola, tante letture dietro a ogni verso.
Vi riportiamo i più significativi che ci ha cantato dal palco di Sanremo, sperando che non si vada troppo lontani da quella verità che da anni Dargen nasconde dietro ai suoi occhiali a specchio.
“Ultimamente dormo sempre anche se non sogno
Senza live – con il pile sul divano
Se dormi troppo poi ti svegli morto.
(Sono d’accordo).
Quindi dove andiamo?”
Il sogno. La morte. Proprio lui ormai qualche anno fa (perdonate la vecchiaia che avanza) scriveva “La morte è la vita vera, il sogno ne è un assaggio”.
Dormire senza sognare. L’idea totalizzante di un mondo piatto, perché se il sogno è libertà d’espressione, dormire senza sognare è arrendersi.
Bello vedere il contrasto della musica dance, da ballare, con Dargen steso sul divano, avvolto nel suo sudario di pile (immaginiamo sempre con i suoi occhiali da sole), mentre aspetta di svegliarsi.
Il Requiem più allegro del mondo.
E quindi davvero crediamo che questa sia una canzonetta? O sta provando a vedere che succede a mescolare la sua idea di vita, di morte, di arrendevolezza, di speranza, con una base che fa molto Eiffel 65 degli anni migliori?
Proprio lui, che nel suo penultimo cd ha collaborato con Isabella Turso, pianista di fama internazionale, ha deciso di presentarsi sul palco più importante d’Italia, quello di Sanremo, con una lavoretto tirato via?
Ecco la sua prima firma, quindi, che ci ricorda quanto fugace sia la vita, che scappa via al ritmo di una pennichella su un divano, mentre lui se ne rimane avvolto nel suo pile – senza live. Magari con Alexa che ci mette su una playlist di musica dance. Ecco un punto in cui i fan di JD possono ritrovarsi e dire: ‘Eccoci. Ci sta raccontando qualcosa. Non sappiamo cosa, ma lo scopriremo. Ci volesse una vita.’
Ci sta raccontando la superficialità di un mondo in cui solo l’apparenza conta, conta solo la musica dance e un bel vestito (ha specificato che sul divano sta con il pile, che sia una coperta o un maglione), la barba fatta da poco, i capelli pettinati.
E dove stiamo andando?
Ce lo dice Dargen, con la sua voce scanzonata, con la sua ironia che gronda ad ogni parola: stiamo andando
“Dove si balla
Fottitene e balla
Tra i rottami
Balla per restare a galla.”
Perché non possiamo affondare. Dobbiamo rimanere sul pelo dell’acqua con foto di Instagram belle, con la luce giusta, con il bicchiere pieno fino all’orlo e qualche fiore sullo sfondo, col paesaggio bello e il tramonto sulla veranda di casa.
Fottitene di quello che senti, balla tra i rottami dei social, tra le rovine degli stati su Facebook contro il calciatore di turno, tu balla.
E rimani lì, ad annaspare. A non sognare.
Da anni lui invece continua a ballare s.l.m. (sotto il livello del mare) e se ne fotte. Ci racconta la morte con una canzone di 18 minuti, Nostalgia Istantanea, e ci racconta la sua passione per le donne prosperose con Bocciofili. Indistintamente.
Mentre noi annaspiamo lui affonda. Ed è libero di muoversi come vuole.
“Balla per restare a galla
Negli incubi mediterranei
Che brutta fine fermi al confine
La nostra storia che va a farsi benedire
Ma va a capire perché si vive se non si balla.”
Eccoci qui. Prima della rappata finale. Che brutta fine fermi al confine tra libertà e il rimanere a galla, negli incubi mediterranei di un mare in cui siamo prigionieri.
E le nostre storie che se ne vanno, scappano via, sempre al ritmo di musica dance, con l’allegria di ripartire senza stare a pensare, senza soffrire, perché soffrire è brutto, la persona triste è brutta e cattiva.
D’altronde, “a essere belli e bravi siamo bravi tutti.”
Vai a capire perché si vive se non si balla.
Vai a capire perché ballare è diventata una malattia: ci è venuta subito in mente una storia strana, di quelle che sicuramente piacciono a Dargen D’Amico. La storia di una piaga bizzarra, un caso singolare di “isteria del ballo”, verificatosi nel 1518 tra gli abitanti di Strasburgo, dove l’intera popolazione ha ballato fino alla morte, fino a farsi sanguinare i piedi, fino a spezzarsi le ossa.
Che dietro a quelle lenti, mentre affonda, Dargen stia vedendo quella piaga che ritorna? Stiamo veramente ballando fino allo sfinimento mentre tutto intorno la musica non c’è (semicit. a Coez), come in quelle fredde giornate tedesche di 500 anni fa?
Forse la musica dance ce la stiamo immaginando, cercando una cornice colorata per foto vuote?
Perché anche Dargen, in fondo:
“Ogni tanto, in lontananza sento ancora musica
Che fa
Pa para-rà, pararà, pa-pà.”
Ci siamo. Chiudiamo canzone e pezzo. E che il messaggio consegnato a Sanremo sia questo o no (ci rimane da sapere) sappiamo che non ce lo scorderemo presto. E che continueremo a ballarlo ancora per un bel po’. Sperando che, piano piano, andremo un po’ a fondo.
Perché davvero rimanere a galla è così importante?