Con il nuovo singolo “Il primo uomo”, i Lande proseguono il loro percorso all’insegna della ricerca sonora e simbolica, mescolando fragilità e potenza, silenzi e vibrazioni lo-fi. Il brano nasce come una creatura autonoma, in continua trasformazione, che si lascia guidare da emozioni viscerali e concetti profondi come la nascita, il dolore e la trasformazione. Niente è lasciato al caso, ma tutto è anche frutto di un ascolto istintivo e libero.
A rafforzare l’impatto del singolo è il videoclip ambientato all’Isolde Art Bureau, luogo reale e simbolico che diventa scenario di un viaggio onirico e liberatorio. L’elemento visivo non si limita a illustrare il brano, ma lo espande, lo deforma, lo rende ancora più evocativo.
In questa intervista per Indie Life approfondiamo con i Lande la genesi del brano, il lavoro sulla produzione, la cura dell’immaginario visivo e l’urgenza di lasciare un “segno” nella musica che sappia parlare anche al silenzio.
“Il primo uomo” è una canzone che sembra vivere di vita propria, evolvendosi in modo autonomo anche durante la produzione. Quanto conta per voi lasciare che la musica si sviluppi organicamente, e cosa comporta questo approccio in termini creativi e produttivi?
Per noi è fondamentale. Quando iniziamo a lavorare a un pezzo, cerchiamo sempre di non incastrarlo in una forma troppo rigida. A volte è come se la canzone avesse già una sua direzione e il nostro compito fosse solo seguirla. Questo approccio ti porta a essere molto più aperto, ad accettare anche i cambiamenti in corsa — che magari all’inizio sembrano errori, ma poi diventano la parte più autentica del brano. Creativamente è stimolante, ma anche impegnativo: significa non avere mai un percorso sicuro.
Avete parlato di un legame tra nascita, trasformazione e dolore. In che modo questi concetti si intrecciano nella vostra visione artistica e come li avete tradotti in suono e parola in questo brano?
Crediamo che ogni forma di nascita porti con sé una certa dose di smarrimento e fatica. “Il primo uomo” è nato proprio da questa riflessione: ogni cambiamento importante, che sia personale o collettivo, passa da una frattura e implica una perdita. Abbiamo cercato di tradurre tutto questo in musica senza spiegare troppo, ma evocando sensazioni, immagini. I suoni un po’ grezzi, certi silenzi, certi vuoti… fanno parte di questo processo. Anche nel testo ci sono più domande che risposte.
Il vostro sound fonde lo-fi e pop in un equilibrio che riesce a mantenere profondità e accessibilità. Come avete lavorato sulla costruzione sonora de “Il primo uomo” per esprimere le sfumature emotive del testo senza comprometterne la forza comunicativa?
Abbiamo cercato di lavorare per sottrazione, di lasciare spazio tra i suoni. Non volevamo riempire tutto, ma lasciare dei margini, dei respiri. La parte lo-fi serve proprio a tenere le cose un po’ sporche, reali, mentre certe melodie più aperte aiutano a rendere il tutto più leggibile, più “vicino”. È stato un lavoro di equilibrio: trovare la giusta dose di dettaglio emotivo senza mai cadere nell’eccesso. Ogni elemento sonoro doveva avere un ruolo preciso, anche il silenzio.
Il videoclip è un’esperienza simbolica e visionaria, dove il protagonista affronta un percorso di liberazione involontaria. Quanto è importante per voi l’immaginario visivo nel completare il messaggio di una canzone e in che modo avete collaborato con il regista per dare forma a questo “viaggio onirico”?
Il lato visivo per noi è parte integrante della musica. Quando abbiamo immaginato il videoclip, volevamo che fosse qualcosa che amplificasse le emozioni del brano, senza illustrarle in modo didascalico. Abbiamo lavorato a stretto contatto con il regista, condividendo suggestioni, immagini, sensazioni. Il percorso del protagonista è una sorta di rito di passaggio, e tutto, dalle luci ai costumi, è pensato per sostenere questa atmosfera sospesa, quasi fuori dal tempo. Non volevamo spiegare, ma evocare.
Nel sogno raccontato dal video, la realtà lascia un segno indelebile sul protagonista, una sorta di marchio esistenziale. Qual è il vostro rapporto con l’idea di “segno” nella musica? Una canzone può davvero lasciare un’impronta, un cambiamento irreversibile?
Sì, assolutamente. A volte una canzone ti arriva in un momento preciso della vita e da lì in poi non riesci più ad ascoltarla senza ricollegarla a quella sensazione, a quel ricordo. Per noi il “segno” è proprio questo: non qualcosa di eclatante, ma una traccia che resta, magari anche solo dentro chi ascolta. Se una nostra canzone riesce a lasciare qualcosa — una domanda, un’immagine, anche solo un’emozione sfuggente — allora ha già fatto il suo percorso.
Avete scelto di ambientare il videoclip in uno spazio artistico come l’Isolde Art Bureau. In che modo i luoghi, fisici o interiori, influenzano la vostra musica e la vostra narrazione? Cosa cercate nei contesti che accompagnano il vostro racconto sonoro e visivo?
I luoghi sono fondamentali, sia quelli esterni che quelli che ci portiamo dentro. Quando scriviamo o registriamo, cerchiamo sempre di farci influenzare anche dall’ambiente in cui ci troviamo. L’Isolde Art Bureau per noi è casa e anche se abbiamo inquadrato solo una piccola parte del muro grezzo che avvolge il locale, questo si sposava perfettamente con il tema del video. Ci piace lavorare in spazi che abbiano già una loro identità, e quale posto migliore di qualcosa che possiamo definire “casa”?!