CASA DI CARTA, FONDAMENTA DI CARTA

Articolo precedente
Articolo successivo
Music Factory
La prima piattaforma di Project Management Musicale ti aspetta! Scopri di più

Ai posteri l’ardua sentenza

Ho scelto di chiedere in prestito le parole del poeta per questo articolo poiché la mia intenzione non è affatto dare un giudizio sulla “La casa di carta”, che anche se velato va inteso come assolutamente personale e non professionale dunque facilmente non condivisibile, solo mi interesserebbe stimolare qualche riflessione in merito a questa serie dal successo planetario.

Premesse

Premettendo che seguo le avventure del Professore e la sua banda fin dalla prima serie, devo ammettere che la quarta, attesissima stagione, è stata la coronazione di un presentimento che ha avuto inizio già durante la terza stagione: il fuoco si è spento, Dalì si è annoiato di dipingere.

Andiamo però con ordine, quale è stata la scintilla che questo fuoco ha fatto accendere? Come nasce il successo di una serie che parla fondamentalmente di rapinatori estremamente umani e al col tempo idealizzati? In questo senso credo che le prime due stagioni siano state il frutto di un lungo percorso, sopratutto immaginativo, che sia poi sfociato in Netflix. La trama è ricca, i personaggi interessanti, ognuno a suo modo, e le loro vicende accattivanti.

Nello svolgere della narrazione si susseguono colpi di scena e suspance, ogni puntata scorre tenendoti con il fiato sospeso, suscitando simpatia ed empatia verso quel gruppo di banditi così simili a ognuno di noi per paure, passioni, amori e debolezze. Senza disdegnare comunque qualche piacevole ammiccamento idealistico (Partito politico a parte sfido chiunque a non aver cantato Bella Ciao durante l’immolazione di Berlino).

La seconda stagione finisce dunque in trionfo, lasciando quel giusto retrogusto amaro che non guasta. Un bel fuoco con discreto calore, e abbastanza luce, molto più delle aspettative essendo fatto di carta, appunto. Evidentemente però non è bastato.

Dalì butta via il pennello

La terza stagione è partita con delle prospettive abbastanza interessanti: un nuovo colpo per salvare Rio, il compagno ostaggio della parte più oscura della giustizia spagnola. Un ambizioso piano di Berlino, che rivive in vari flashback e in qualche modo nel personaggio di Palermo. E non meno importante la banda che si riunisce dopo qualche tempo ambendo ancora più in alto; rubare l’oro della Banca di Spagna. Peccato che le prospettive sia rimaste tali, diventando di fatto il perno su cui ruotano tre stagioni (la quinta infatti è già stata annunciata).

Riproporre lo stesso identico modello, in maniera statica e francamente poco rifinita, delle prime due stagioni, non si è rivelata una buona idea. Ne è uscita una serie ibrida tra una copia di Tomb Rider e una telenovelas di secondo genere. I personaggi sono rimasti pressoché identici, nei loro ruoli e nel loro modo di essere. Tranne il professore innamorato, a cui sono stati sottratti fascino e intelligenza che lo contraddistinguevano. Una scelta discutibile. In quarantacinque minuti scarsi oscilliamo tra una sparatoria evitabile a una sviolinata dopo l’altra, più qualche flashback per tenere buoni i nostalgici. Ci si aspettavamo molto di più.

Ciò che però più mi ha deluso è stata la volontà di stupire e appassionare non con la trama come era stata nelle prime due stagioni, bensì con il budget. Elicotteri che volano quasi senza senso, location tra le più disparate, effetti speciali proposti e riproposti fino alla nausea. Tutto questo i personaggi appaiono più interessati a risolvere i loro problemi amorosi che il resto.

E’ inutile cercare di nascondere che dietro una serie di così grande successo c’è un flusso economico importante, e che il Professore e banda possono essere spremuti come galline dalle uova d’oro, ma che fine ha fatto Bella Ciao? Perché inquadrare Marsiglia e Professore oltrepassare i mulini a vento della Mancia? Non mi infervoro esigendo rispetto, ma consiglio almeno, se mi è concesso, un po’ di pudore.

Detto questo ribadisco che consiglio a tutti, se interessati, di guardarlo e farsi la propria opinione, a prescindere da un articolo magari troppo pretenzioso e idealista. Mi sia consentito un’ultimo, azzardato, parallelismo con il colosso della poesia inglese Alfred Tennyson che scrisse ” meglio amare e aver sofferto, che non aver mai amato”. Ecco allo stesso modo mi sento di dire, meglio due serie buone e il resto da buttare, che tutto da buttare.

Iscriviti alla nostra newsletter

Iscriviti per rimanere aggiornato su tutte le nuove uscite e per non perderti nemmeno un articolo dei nostri autori! Basta solo la tua mail!

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Music Factory
La prima piattaforma di Project Management Musicale ti aspetta! Scopri di più