Confessione a Blumosso

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Blumosso non è per me un artista qualunque; conosco Simone ormai da qualche tempo, e nel corso dei mesi (anche se ormai, potremmo dire anni: che strane, queste modalità social che, per quanto vituperate, creano meravigliose sinergie a distanza, impensabili amicizie “di lungo corso”) ho visto trasformarsi il suo percorso artistico, prendendo vie che risultano percorribili solo a chi, dopo tutti questi anni, ancora crede che l’urgenza valga più di “ciò che conviene”, che la sincerità paghi più delle pose plastificate.

Dopotutto, quello di Blumosso è un “foruncolo” artistico (sì, mi piace chiamarlo così: riabilitiamo il fisiologico, che fa parte di noi più di ogni altra maschera che usiamo per celarci allo sguardo più pudico) che l’artista pugliese non smette di torturare, esacerbando un qualcosa che proviene da profondità sconosciute e – per fortuna nostra, di tutti noi curiosi ascoltatori – ancora per lo più insondate; Blumosso ha sperimentato ogni tipo di palliativo utile a calmare la pressione di questa escrescenza, che urge per uscire fuori e lo fa attraverso canali diversi, dalla musica alla performance (quando potrete, correte a sentirlo dal vivo: bastano poche cose per emozionarsi, e un pianoforte elettrico e Blumosso rientrano fra queste) passando per la sua attività di scrittore.

Insomma, come direbbe Guccini, Simone è un baccelliere di parole che, con lo sguardo dell’artista, maneggia la materia con la sicurezza ruvida dell’artigiano; non gli importa di celare i colpi dello scalpello sulla pietra, o raggiungere la perfezione dell’accademia. A Blumosso piacciono le domande e la bellezza della possibilità, e se si trova a non aver risposte con una scrollata di spalle potrebbe rivolgerti laconicamente un semplice “Vabeh” – che, ovviamente, è anche il titolo del suo nuovo singolo per Luppolo Dischi, da oggi online su tutte le piattaforme d’ascolto digitale.

“Vabeh” è la seconda tappa di “Di questo e d’altri amori“, inusuale trittico in uscita prevista per l’estate che già aveva consegnato ai posteri la prima delle sue tracce con “Nordest”, qualche mese fa. Il filo rosso, nemmeno a dirlo, rimane l’amore; prendete il Battisti più sperimentale, inoculategli un’iniezione (se mai ne avesse avuto bisogno; non credo, quindi) di contemporaneità mainstream e otterrete più o meno l’ossatura portante di un brano interlocutorio (come si evince dal titolo), utile a prendere con leggerezza il marasma di domande che accompagna lo scervellarsi amoroso. Un tratto deciso con pennarelli sgargianti e glitterati, su una tela d’impianto tradizionale capace di mescolare tra loro confluenze diverse, utili a far da volano ad un testo, come sempre, pregevole.

Ho esordito dicendo, ad inizio recensione, del mio debole per Simone. Credo che, da queste parole, si evinca che il mio innamoramento è cosa seria ma attenzione; ho imparato, a forza di delusioni e di malriposte promesse, a proteggermi da pericolose idealizzazioni, spesso con un atteggiamento apertamente caustico – se non ostile – nei confronti di chi gioca con il mio cuore di ascoltatore. Di Simone, però, ho una considerazione diversa; forse perché in lui, ma soprattutto nella sua musica, non ho mai avvertito volontà di compiacimento né esigenza di, appunto, convincere alcuno (figurarsi il sottoscritto).

E’ questo, forse, il motivo per il quale voglio bene alla musica di Simone, e a ciò che essa rappresenta per me: un modo diverso di sottrarsi a certe logiche maligne e ottundenti del mercato, utili solo ad anestetizzare la nostra percezione di autenticità e a costruire idoli dalla scadenza limitata nel tempo. Una resistenza fatta a colpi di poesia alla quale mi sento tanto vicino, e che come ascoltatore (prima ancora che come perturbabilissimo critico) non posso che sposare e difendere nei suoi intenti.

La strada è lunga, ma in fondo al cuore, ogni tanto, si accende la speranza; e come direbbe ancora Guccini, è già in questi “giorni di malato sole” che “la primavera danza”.

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