Fuori dalla provincia, un indiano su “Moby”: a tu per tu con Luciano Torri

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Luciano, posso dirlo, l’ho visto crescere. In realtà, è sempre stato più o meno già “cresciuto” così, sia fisicamente che musicalmente: Spezia (senza La), come tutte le città di provincia, è una piccola via in cui uno come Lucio (che ha tutto l’aspetto di un evaso dalle riserve pellerossa, un ibrido fra un Toro Seduto altissimo e un personaggio di Peter Pan) non può passare inosservato; non lo faceva a quindici anni, quando aveva già la voce di trombone e le dita lunghe e veloci – come ogni indiano che si rispetti – figurarsi ora, che ha passato in rassegna tutti i localini/localetti/localoni della città diventando – qui, nella provincia ligure – un nome piuttosto conosciuto, oltre che un volto inevitabilmente noto.

Questo fa la provincia: ti lancia, ti incensa, ti ama, s’abitua, invecchia e ti lascia. Lo so, perché sono un provinciale anche io, con tutti i pro (pochi) e i contro della mia condizione; lasciare la città, ad un certo punto, diventa vitale per non rimanere incastrati in luoghi che non ci contengono più, e che rischiano di ridimensionarci. Per questo, la presente prefazione all’intervista a Luciano su “Moby”, il suo terzo singolo da totale indipendente, vuole essere un appello più che un cappello introduttivo: esistono talenti che meritano di essere coltivati, incoraggiati e fiduciati (si può dire? Io lo dico), e che ora più che mai necessitano di reti di persone, di idee e di salvatori della scena che siete voi, che state leggendo, che sono i vostri amici e gli amici dei vostri amici ai quali il tam tam della periferia potrebbe arrivare.

Non tanto per conquistare l’Impero, sia chiaro: piuttosto, per far di tutto il mondo paese e viceversa, collegando fra loro province lontane, ma mai così vicine nel meraviglioso disagio di essere tali; perché alla fine siamo tutti provinciali, in cerca di specchi, canzoni, parole che ci facciano riconoscere, e sentire meno soli. Incoraggiamo la musica bella che nasce in condizioni di difficoltà, perché – come direbbe Truppi – potrebbe rivelarsi un’inaspettata occasione di bellezza.

Domande bum bum per iniziare: quanto ti senti cambiato dal tuo esordio discografico, avvenuto ormai un anno fa e in piena pandemia. 

Ciao ragazzi! Beh, sicuramente i capelli più lunghi qualche chilo di più ma ci sto lavorando.

Tralasciando le mie battutine che non hanno il senso di essere formulate… Questa domanda arriva nel periodo giusto. E’ più semplice goderti quello che raccogli quando non sei occupato a cercare il terreno giusto o preoccuparti se tu stia seminando il frutto perfetto. Ho passato momenti piuttosto difficili ma son felice di aver reagito ogni singolo momento e questo mi stupisce. Sono una persona relativamente pigra su molti aspetti, ma grazie a questa minaccia sono stato spalle al muro e costretto ad imparare la volontà, la pazienza e la calma, strumenti che non ho mai imparato a suonare veramente se non durante questi due anni.

Oggi si parla tanto degli effetti del Covid19 sull’intera filiera discografica; un intero settore è ormai in ginocchio a cercare di rialzarsi da una situazione drammatica a livello lavorativo, prima ancora che creativo. Tu, invece, proprio in tempi di pandemia hai deciso di esordire. Come mai?

Ne avevo bisogno. Siamo stati investiti da notizie, situazioni, stress, paure, bisogni insoddisfatti. Giocare rappresentava in toto ciò che volevo. Parole semplici per arrivare più facilmente possibile sia a me stesso per rassicurarmi, sia alle persone col fine di creare connessione. Mi sentivo fuori dal mondo. Dopo l’uscita di Giocare sono cambiate un po’ di cose.

Il tuo percorso, in realtà, è ben più variegato di quello che può emergere dai tre singoli fin qui rilasciati. Ti va di farci una panoramica del tuo percorso musicale?

C’è tanto da parlare purtroppo e per fortuna. Nasco come chitarrista classico alle scuole medie e sto attualmente concludendo al conservatorio Puccini di La Spezia. Ho iniziato andando a suonare alla messa.. che ricordi! Poi, iscritto al Liceo Musicale Cardarelli, ho studiato percussioni per due anni per poi concludere con i restanti di canto lirico. Il tutto è condito dal mio senso di rivalsa nei confronti dei recinti canonici esercitato attraverso una chitarra molto meno classica e molto più Les Paul! Ero diventato un fissato della sei corde aggressiva. Cominciai ad esibirmi con il progetto Prog Rock “OVERTURNED”.

Dopo molto vagare cominciai a buttare giù le mie prime note ascoltando Bruce Springsteen e dopo aver cercato di viaggiare il più possibile son finito qui con “Moby”…

“Giocare”, “Mood” e “Moby”. Titoli brevi e coincisi nascondo brani ben costruiti e dotati di una propria precipua e complessa identità. Se dovessi individuare il “quid” centrale della tua produzione, ciò che insomma la identifica davvero, quale sarebbe? 

Senz’altro la valenza terapeutica che hanno per me personalmente! Ma se voglio essere meno egoista, direi la biodiversità delle creature. E’ solo l’inizio del mio percorso quindi mi prendo la libertà di cambiare aspetto dei miei lavori il più possibile. Tutti i brani che sto scrivendo per l’album sono però accomunati da questa prorompente volontà di stupirmi e stupire dal punto di vista musicale. Per quanto riguarda i testi sono ancora troppo giovane per permettermi una scrittura equilibrata ed armoniosa. Ci lavorerò, promesso!

“Moby” è un quadretto ben fatto di vita amicale, una descrizione riuscita di un’emozione vera di libertà e liberazione. “Moby” tra l’altro è (anche) il nome di un’imbarcazione che svolge un ruolo determinante (anche se “invisibile”) nella vicenda raccontata. Ti va di parlarcene un po’?

Esattamente! “Moby” è il traghetto che ci ha riportati a casa dalla Sardegna. Il titolo è nato con la canzone nel viaggio di ritorno. Non è una scelta razionale, cerco di capire il mood che mi suscita la canzone e di conseguenza nasce il suo nome.

Per quanto riguarda Moby in se si tratta di un inno spensierato ma rumoroso di libertà incontaminata.

Rappresenta l’importanza che do al sano disimpegno riportata in musica con una scelta armonica e ritmica piuttosto elementare a sorreggere parole d’entusiasmo in un vortice dinamico di situazioni mondane. 

Come nasce un brano di Luciano Torri? Che tipo di rapporto hai con la scrittura?

E’ una relazione complicata… Essendo nato come musicista ho sempre dato molta importanza al linguaggio musicale e a come viene applicato a servizio del testo.

Le parole poi vengon fuori da un susseguirsi di scontri-incontri fra quello che è la nuova potenziale melodia e il tema con cui si sposa in maniera più coerente. Da fuori potrebbe sembrare un sistema forse troppo meccanico, ma sto imparando ad affidarmi sempre di più all’intuizione, e Moby ne è l’esempio.

Senti, ti va di consigliarci un paio di artisti emergenti che probabilmente non conosciamo ma dovremmo conoscere a tutti i costi?

Allora sicuramente Leo Caleo ma immagino lo conosciate già.

Un mio caro amico pazzo furioso il cui progetto prende il nome di Andrea E La Sua Band Polimorfa.

Vi ringrazio molto per le domande e un abbraccione!! Spero di risentirci presto.

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