Beatrice Pucci è un nome che ancora non conoscete, forse, ma che presto farete fatica a dimenticare.
Lo so, e sapete perché? Perché è successo così anche a me, la prima volta che ho ascoltato “Le colline dell’argento”, il suo bellissimo disco d’esordio (che esordio, per consapevolezza di mezzi e maturità poetica, sembra non essere affatto) che da oggi potete ascoltare anche voi, e del quale ho atteso la pubblicazione scalpitando come una vera groupie sin dal primo ascolto che ne feci.
No, forse ora sto mentendo: non mi è bastato un ascolto per entrare nel mondo argentato e specchiante di Beatrice, perché quella che porta alle colline della Pucci è una via aspra, ardita e dotata di un’intrinseca tragicità alla quale dovete lasciare il tempo e lo spazio di possedervi; non si lascia consumare, il disco di Beatrice, perché fatto di quella materia dura e infrangibile che Pasolini chiamerebbe poesia, che io chiamo – per mantenere i toni pasoliniani – disperata vitalità, marchio speciale di speciale disperazione che finisce con il conquistare solo dopo averti intimidito un po’. Come fanno, dopotutto, le cose speciali per davvero.
I sei brani di “Le colline dell’argento” diventano così una sorta di via crucis destinata a condurre, in qualche modo, ad una forma speciale di liberazione, quella cioè che deriva alla consapevolezza che l’inferno non è qualcosa che sarà, come direbbe il buon Calvino, ma qualcosa che già ci circonda e insomma, prima accettiamo di convivere con le fiamme e con le temperature bestiali di una vita bestiale, meglio è: è così che si snoda il percorso di catarsi che l’ascoltatore intraprende partendo da “Figli”, apripista (e unico singolo estratto) utile a fare da manifesto di un modo tutto personale di intendere la musica, le canzoni, quello che resta; l’abuso della comodità, la carezza delle facili certezze e il rifiuto, progressivo, di ogni forma di risposta immediata diventano gli aghi della bussola di un peregrinare esitante, ma deciso a non fermarsi mai: seguono così “L’aria di settembre” e “Città Sospesa”, prima di arrivare a “Mangiafuoco”, al concretizzarsi del tema della morte e della rinascita, della resurrezione che passa dalle fiamme.
“Tutto” è il collante che lega il percorso alla sua fase finale, che trova lo sbocco a mare in “Angoli”: non poteva in effetti che concludersi così, il viaggio spigoloso di una penna che pare aver compreso che la risposta all’inferno dei viventi non sia altro che cercare e trovare quella «parte di inferno che inferno non è, e dargli spazio, farla durare».