Quel tranquillo pomeriggio di inizio settembre, un martedì se non ricordo male, avevo circa tredici anni e stavo guardando la televisione. Avevo appena finito i compiti, o almeno era così che avevo detto a mia madre che era in cucina intenta a preparare un dolce.
Avevamo solo due televisori, uno in salone ed un altro in camera dei miei genitori, più piccolo. Seduto sul divano e con in mano un pallone da calcio, guardavo i cartoni animati. Ogni tanto buttavo uno sguardo fuori, attraverso la grande finestra che si apriva sul nostro balcone. Volevo verificare che il tempo rimanesse bello.
Non c’era questo pericolo, nell’aria si respirava ancora il sapore d’estate e il sole regalava a noi bambini gli ultimi pomeriggi di giochi.
La scuola sarebbe ricominciata una settimana più tardi.
Come ogni giorno, quasi a rispettare un programma che nessuno di noi aveva mai scritto ma che tutti rispettavano minuziosamente, le bambine erano già al parco a giocare tra di loro.
Noi maschietti invece aspettavamo la fine del cartone animato che parlava di ragazzi come noi con la passione per il calcio.
Ricordo che ci immergevamo letteralmente in quel cartone giapponese tanto che appena finito ci precipitavamo nel piccolo campo da calcio vicino al parco e cercavamo di rifare quello che avevamo appena visto.
All’epoca abitavamo in un piccolo paese vicino Roma, circa mezz’ora di macchina dalla Capitale.
Era primo pomeriggio, mancavano circa una quindicina di minuti alle tre e il nostro cartone preferito era iniziato da cinque.
Il protagonista avanzava spedito verso la porta avversaria con il pallone attaccato ai piedi in questo campo che diventata sempre più lungo ad ogni puntata, quando improvvisamente interrompono il cartone animato ed inizia una puntata speciale del telegiornale.
Io mi arrabbio a tal punto che mi scappa una parolaccia ad alta voce.
<< Davide!!!! Cosa sono queste parole ? Chi te l’ha insegnate?>>
Mia mamma, donna molto religiosa e fissata con l’educazione, viene di corsa in salone pronta a sgridarmi per quello che ho detto ma si ferma di colpo guardando le prime immagini che vengono trasmesse dall’edizione speciale del telegiornale.
Provo a giustificarmi in qualche modo ma mi accorgo subito che qualcosa di brutto sta succedendo perché mia madre non presta minimamente la mia attenzione e guarda rapita e preoccupata la televisione.
Incuriosito, volgo lo sguardo anch’io verso quello che sta guardando mia madre.
Quello che ho visto non lo scorderò mai. Non capivo bene quello che stava succedendo, ma vedevo una delle torri di New York, un grattacielo altissimo, che prendeva fuoco dalla parte superiore. La giornalista diceva che un aereo di linea si era praticamente schiantato nella torre provocando un incendio immediato e molti morti.
La mente di bambino in quel momento mi suggerì di scacciare quelle brutte vicende, di lasciarle ai grandi e di continuare il programma che avevo in mente.
<< Vado al campo a giocare un po’ mamma! >>
<< Va bene, ma non fare tardi. Alle otto ceniamo, non farmi mandare tuo padre a prenderti perché le prendi>>
<< Ok mamma, tranquilla>>
Anche la conversazione tra me e lei quel giorno fu assurda e unica.
Di solito mi ci voleva un po’ per convincerla che avevo finito tutti i miei obblighi scolastici e le raccomandazioni me le impartiva guardandomi dritto negli occhi con aria minacciosa. Quel giorno di settembre invece rispondevamo all’altro guardando la tv, non credendo a quello che stavano vedendo ed ascoltando.
Mia madre soprattutto non staccava gli occhi dalla TV. Anche gli occhi di mia madre non li scorderò mai, penso che quel giorno avevamo tutti lo stesso sguardo.
Ancora con il pallone in mano ma con la mente un po’ scossa, mi avvio verso il campo che dista non più di dieci minuti a piedi.
Trovo tutti i miei amici, anche loro con gli occhi un po’ persi nel vuoto ma intenti a dimenticarsi quello che capivano essere una brutta faccenda.
Molti di noi avevano l’abitudine di portarsi dietro il proprio pallone, come sempre li testiamo tutti con alcuni rimbalzi e ne scegliamo uno, non prima di discuterne tra di noi con toni a volte accessi.
Si fanno le squadre e ci dividiamo, la regola era di farle sempre equilibrate in base alla bravura più o meno accentuata che ciascuno di noi aveva.
Se veniva qualche ritardatario, lo si inseriva nella squadra leggermente più forte o più debole che stava perdendo, a seconda delle sue capacità.
C’era molta eterogeneità nel nostro gruppo, chi faceva scuola calcio ed aveva un preparazione molto più avanzata della nostra, chi aveva solo talento innato ma non giocava a livello agonistico e chi era proprio negato per il calcio ma ci teneva a dare un contributo alla squadra di appartenenza e ovviamente a divertirsi.
Io ero un ibrido, in mezzo al campo non ero di grande aiuto per via della passione per il tennis e non per il calcio, passione che poi sarebbe diventata il mio mestiere.
Ma le carenze che avevo nel campo le recuperavo tra i pali.
Avevo sviluppato una gioia innata nel fare il portiere, forse perché con le mani riuscivo a fare con più facilità quello che gli altri facevano con i piedi.
Mi piaceva anche saltare e tuffarmi per cercare di parare i tiri più difficili, soprattutto quelli dei miei amici “calciatori”. Loro erano una sfida personale e mi divertivo molto quando mi trovavo a tu per tu.
Per questo ogni squadra che si andava formando, cercava di prendermi, sapevano che chi stava in squadra con me, non sarebbe mai andato in porta.
Le uniche volte che mi capitava di trovarmi in mezzo al campo, era quando un mio compagno era troppo stanco o aveva qualche dolore e voleva riprendere fiato.
In quel caso mi mettevo in difesa e cercavo di fermare chi mi arrivava. La partita durò circa una quarantina di minuti, poi il caldo e le gole secche si fecero sentire. Decidemmo di fermarci per alcuni minuti, era ancora pomeriggio inoltrato ed avevamo molto tempo davanti a noi prima della sera.
Molte altre partite sarebbero iniziate, in attesa magari di altri giocatori ritardatari. A turno ci recammo nella fontanella situata nel piccolo parco adiacente il campetto e alcuni di noi approfittarono delle panchine per riprendere fiato.
I discorsi tra di noi di solito erano animati dalle solite cose: fumetti, film, roba di scuola e discussioni sul calcio che conta. Ma quel pomeriggio iniziammo a parlare di cose da grandi. Avevamo tutti ancora negli occhi le immagini che si erano sovrapposte al cartone che stavamo guardando.
Ricordo i nostri sguardi increduli di fronte ad un episodio talmente brutto e inspiegabile da lasciare senza riposte perfino i grandi.
Tutti noi avevamo nelle nostre case un genitore che in quel momento era incollato alla tv con lo sguardo attonito.
Partirono le spiegazioni più incredibili, alimentate dalla fantasia ingenua e galoppante che si ha a quell’età e soprattutto dai discorsi che avevamo sentito in quel breve lasso di tempo dai nostri genitori prima di uscire.
C’era chi ipotizzava già dei complotti su scala mondiale, scimmiottando le parole apprese magari da un padre o da uno zio e parlando di geopolitica senza capire effettivamente il vero significato dei discorsi che faceva.
Eravamo tutti presi dai discorsi che si stavano facendo, lo ricordo benissimo, talmente presi da non sentire più il bisogno primario che ci faceva scendere ogni pomeriggio d’estate, giocare a calcio e divertirsi.
Credo che tra una chiacchiera ed un complotto immaginato e alimentato da prove che esistevano solo nella nostra mente, erano passate circa un paio d’ore quando un nostro amico che abitava nella palazzina di fronte alla mia, Marco si chiamava, venne da noi non trovandoci al campo e si unì immediatamente alla conversazione.
Non era venuto per giocare, neanche lui, voleva cambiare aria e aggiornarci sugli ultimi avvenimenti che aveva appena visto alla televisione. Quello che ci disse, dopo averci salutato, riecheggia ancora nella mia mente dopo tanti anni.
<< Hanno colpito anche la seconda torre, quando stavo scendendo di casa, la prima torre stava crollando su se stessa. Sembrava uno di quei film che vede mio padre alla tv>>
La frase mi scioccò a tal punto che mi alzai e sentii il bisogno di tornare a casa per vedere con i miei occhi quello che stava accadendo. Quando tornai, trovai mio padre davanti alla tv, abbracciava mamma ed entrambi avevano le stesse espressioni preoccupate e incredule.
Era tornato in anticipo dal lavoro, il mondo sembrava fermo e con gli occhi puntati su New York. Raggiunsi i miei nell’abbraccio e rimasi ipnotizzato come tutti dalle immagini dei telegiornali.
La sera a cena le televisioni continuavano a mandare in loop le immagini degli aerei che si scontravano con le torri, poi le torri che cadevano ed infine altri due aerei che erano caduti sul Pentagono e su una grande campagna isolata.
Le discussioni, spesso animate, che accompagnavano i nostri pasti, quella sera non uscirono dalle menti provate dei miei genitori.
Di solito non amavano quelle discussioni che non capivo perché coprivano l’audio della tv che dalla camera da letto dei miei, veniva spostata in cucina per la durata della cena.
Non ho mai desiderato una discussione come quella sera, non avrei mai pensato di odiare il silenzio così tanto. Non osavamo guardare mia madre e lei non si sentiva vittoriosa, solamente un po’ sollevata grata al cielo.
Esattamente tre mesi prima, mio padre ricevette una grossa offerta dalla multinazionale per cui lavorava, lui era un grande esperto di marketing e di economia e lo volevano nella sede centrale e soprattutto negli uffici finanziari situati, all’epoca, proprio in una delle torri che in quel momento vedevamo cadere innumerevoli volte in TV.
Papà voleva andarci, per lui era una grossa occasione di carriera e avremmo avuto una montagna di soldi, visto che lo stipendio si sarebbe triplicato. Anch’io, non capendo bene il discorso davo ragione a mio padre, eccitato all’idea di andare a vivere in America. Ma mia mamma non voleva lasciare il suo paese e tutta la sua vita. Rispettava le ambizioni di mio padre, ma rimase ferma nella sua decisione. Non voleva andare negli USA.
Ci furono giorni di discussione infinite, dove cercavo di nascondermi nella mia stanza. Alla fine papà cedette e rinunciò all’offerta. Era più importante la felicità nella nostra famiglia che le sue personali ambizioni.
Dopo la cena papà sparecchiò e lavò i piatti per la prima e unica volta, si avvicinò a mamma e gli sussurrò “grazie” dopo averla baciata. Mamma si sentiva sollevata, pur scossa dall’accaduto.
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