“Stanza nove” di Gabriele è un singolo che esplora il tema della solitudine come rifugio interiore. In un mondo sempre connesso, il brano invita a trovare uno spazio sicuro lontano dal caos esterno, dove è possibile riflettere senza paura del giudizio. Con una melodia intima e una voce che trasmette vulnerabilità, Gabriele cattura la profondità di questo momento di introspezione, offrendo un’emozionante occasione di riconnessione con se stessi. Un pezzo che colpisce per la sua sincerità e la sua capacità di toccare corde universali.
Il tuo nuovo singolo Stanza Nove nasce da un senso di incomprensione e dal bisogno di trovare un rifugio interiore. Come è nato questo brano e qual è stata la scintilla che ti ha portato a scriverlo? È nato in un momento in cui sentivo il bisogno di isolarmi da tutto. Non per allontanarmi dagli altri, ma per ritrovare un equilibrio dentro di me. Mi sono reso conto che c’era questo “spazio mentale” in cui mi rifugiavo ogni volta che il mondo fuori diventava troppo caotico, e ho sentito l’esigenza di raccontarlo. La scintilla è stata proprio quella consapevolezza: capire che avevo bisogno di dare voce a quel luogo e a tutto quello che rappresentava per me.
Nel testo traspare un forte senso di isolamento ma anche di introspezione. Credi che la solitudine sia un elemento necessario per conoscersi meglio? Sì, assolutamente. Credo che stare da soli, a volte, sia l’unico modo per capirsi davvero. È nei momenti di solitudine che riesci a mettere ordine nei pensieri, a sentire quello che provi senza interferenze. Per me è stata fondamentale, sia nella vita che nella musica. Poi è chiaro, l’isolamento prolungato può anche diventare un limite, ma se lo vivi nel modo giusto, può essere un’opportunità per conoscersi meglio.
Hai parlato del tuo percorso artistico come un puzzle, fatto di pezzi che si incastrano poco alla volta. In che modo Stanza Nove si inserisce in questo percorso? È un tassello importante perché rappresenta un lato di me che non avevo mai mostrato così apertamente. Ogni brano che scrivo è come un pezzo di un quadro più grande, e Stanza Nove aggiunge una sfumatura più intima, più riflessiva. Credo che sia una delle canzoni più personali che ho scritto finora, e proprio per questo ha un posto speciale nel mio percorso.
Il videoclip di Stanza Nove, diretto da Dan Dannato, utilizza diversi simboli, come l’orologio a pendolo. Come hai lavorato alla realizzazione delle immagini e qual è il messaggio che volevi trasmettere? Abbiamo ragionato molto sui simboli e sul modo in cui potevano amplificare il senso della canzone. L’orologio a pendolo rappresenta il tempo che scorre, ma anche la sensazione di essere bloccati in un loop mentale da cui non si riesce a uscire. La stanza stessa è un rifugio, ma anche una prigione. Volevo che le immagini trasmettessero questa doppia sensazione: da una parte la protezione, dall’altra il rischio di rimanere intrappolati nei propri pensieri. È un equilibrio sottile, ed è quello che ho cercato di raccontare nel brano e nel video.
Quali sono i tuoi prossimi passi? Hai già nuovi brani in lavorazione? Sto scrivendo molto, quindi sì, ci sono nuovi brani in lavorazione. Ho voglia di esplorare altre sfumature del mio mondo musicale, magari con sonorità diverse, ma sempre mantenendo la mia identità. Non voglio forzare niente, mi piace che ogni pezzo arrivi nel momento giusto, un po’ come è successo con Stanza Nove. Vediamo dove mi porta questo viaggio.
Fidelio è un progetto musicale creato da Andrea Aniello e Valerio Martino. Il duo torna con “David Costa Wallace”, un brano che esplora il sottile confine tra informarsi e lasciarsi influenzare. Il titolo, un ironico richiamo a David Foster Wallace, evidenzia il parallelismo tra lo scrittore e Francesco Costa, il cui podcast “Morning” ha profondamente segnato il dibattito pubblico.
In questa intervista, approfondiamo il significato di “David Costa Wallace” e il percorso artistico di Fidelio.
Il tuo nuovo brano, “David Costa Wallace”, analizza l’influenza che Francesco Costa e il suo podcast Morning hanno avuto sulla quotidianità e sul pensiero dei suoi ascoltatori. Come è nata l’idea di scrivere una canzone su questo tema?
L’idea è nata da un momento di autoconsapevolezza. Ascoltavo Morning e mi sono reso conto che, senza volerlo, il mio universo informativo si stava restringendo attorno a quello che diceva Francesco Costa. Non solo: le mie opinioni si plasmavano sulle sue, che sono sempre argomentate e corrette, ma proprio per questo finivano per diventare anche le opinioni di tutti quelli che lo ascoltavano. Mi sono accorto che il dibattito intorno a me si appiattiva sugli spunti di Morning: parlavamo tutti delle stesse cose, nello stesso modo, con le stesse certezze. David Costa Wallace nasce da questa riflessione: un gioco di specchi tra informazione e assorbimento culturale, tra chi racconta il mondo e chi, ascoltandolo ogni giorno, finisce quasi per viverlo solo attraverso questo racconto.
Nel testo del brano si percepisce una sorta di dualità: da un lato l’ammirazione per il podcast, dall’altro il timore di una sua eccessiva influenza. Puoi approfondire questo aspetto?
Sì, nel brano c’è una tensione continua tra fascinazione e inquietudine. Morning è un podcast condotto benissimo, con una qualità giornalistica altissima, e proprio per questo diventa facile lasciarsi trasportare senza nemmeno accorgersene. Intorno a me notavo che sempre più persone lo ascoltavano quasi con devozione, ripetendone gli spunti senza metterli in discussione, come se Costa fosse una fonte incontestabile. Non era solo informazione, ma un rito quotidiano che dettava il ritmo del pensiero e della conversazione.
Questa dualità è il cuore del pezzo: da un lato, l’ammirazione per un prodotto che funziona perfettamente, dall’altro il timore di quanto possa modellare il nostro modo di pensare in modo quasi automatico. La canzone non è un’accusa, ma una riflessione su quanto sia sottile il confine tra informarsi e lasciarsi plasmare.
Il titolo della canzone richiama ironicamente David Foster Wallace. Qual è il legame tra il celebre scrittore e il tema trattato?
Il titolo David Costa Wallace nasce da un’ironica provocazione: sia Francesco Costa per i suoi ascoltatori, sia David Foster Wallace per una certa élite culturale, sono diventati punti di riferimento indiscutibili, figure quasi sacralizzate. Il parallelismo sta nell’aura di autorevolezza e nell’influenza totale che esercitano: le loro parole non sono semplici spunti, ma verità assunte senza troppa critica da chi li segue con devozione.
Oltre a questo, David Foster Wallace ha esplorato in profondità il rapporto tra media, informazione e il modo in cui influenzano il nostro pensiero, spesso senza che ce ne rendiamo conto. Uno dei suoi temi ricorrenti è proprio la passività con cui assorbiamo contenuti, il rischio di essere spettatori più che individui critici.
Hai menzionato che “David Costa Wallace” fa parte di un concept più ampio, “Solo i borghesi sopravvivono”. Puoi parlarci di questo progetto?
Solo i borghesi sopravvivono è un concept che racconta il viaggio dall’illusione di poter rifiutare la vita borghese fino alla sua inevitabile accettazione, ma in modo consapevole. È una riflessione su come l’individuo, pur cercando di sfuggire a certe dinamiche, finisca per adattarvisi, a volte senza nemmeno accorgersene. C’è un chiaro riferimento a Fiorirà l’aspidistra di Orwell, con la stessa tensione tra ribellione e resa, tra il desiderio di distinguersi e la necessità di trovare un equilibrio con la realtà.
David Costa Wallace si colloca praticamente all’inizio di questo percorso, essendo il secondo pezzo dell’album. Ascoltare Morning può infatti sembrare un atto di anticonformismo, un modo per informarsi in modo indipendente, lontano dalle narrazioni mainstream. Ma l’adattamento a un sistema di riferimento che diventa totalizzante può anche comportare il rischio di una fruizione passiva e acritica, di una progressiva omologazione del pensiero. Per noi questo è un segnale di come il bisogno di appartenenza e di certezze possa lentamente smussare ogni spigolo critico, aprendo la strada a quella stessa normalizzazione che si voleva evitare.
Quindi, secondo voi, il successo di Morning e il modo in cui viene seguito dai suoi ascoltatori sono un sintomo di questa evoluzione verso una borghesia inevitabile?
Direi di no, non c’è un rapporto di causa-effetto, e neppure una vera correlazione diretta tra essere fan di Morning ed evolvere verso una borghesia “inevitabile”. Come detto in precedenza, questi sono piuttosto segnali, sintomi isolati di un fenomeno più ampio che abbiamo osservato e deciso di raccontare, con ironia e autoironia. Nell’ambito di un concept che racconta un’evoluzione, o declino, verso la vita borghese, questi segnali rappresentano le prime crepe, le avvisaglie di un possibile cambiamento, che però non necessariamente porteranno a un esito definito. Non vogliamo dare risposte definitive né tracciare teorie assolute, ma semplicemente mettere in luce certe dinamiche, lasciando spazio a chi ascolta per trarre le proprie conclusioni.
Quale messaggio sperate di trasmettere con “David Costa Wallace”?
Con David Costa Wallace speriamo di stimolare una riflessione sul modo in cui consumiamo l’informazione, anche quando proviene da fonti autorevoli e competenti. Non vogliamo offrire verità assolute, ma semplicemente invitare a interrogarsi sull’effetto che una fruizione passiva e acritica può avere sulle nostre opinioni e sul nostro modo di pensare.
Cosa possiamo aspettarci dal resto del concept “Solo i borghesi sopravvivono”?
David Costa Wallace è solo l’inizio. Cosa ci aspetta nel resto del concept? Immaginate un percorso che inizia con un disprezzo totale per la borghesia, un rifiuto ostinato dell’omologazione, e che si conclude con una resa inevitabile e consapevole. Non sarà una trasformazione lineare: ogni passo sarà accompagnato da dubbi, riflessioni e improvvisi sprazzi di lucidità, che lasceranno spazio a nuove domande. E chissà, magari scopriremo che la vera sfida non è tanto fuggire da un certo tipo di vita, ma imparare a viverla senza rinunciare alla nostra identità e godendo dei suoi benefici. In ogni caso, il viaggio è appena cominciato.
Abbiamo intervistato Blue Rose, che ci ha parlato del suo nuovo singolo “Stanze Vuote”, un brano che esplora il tema della crescita personale e della paura di uscire dalla propria zona di comfort. La canzone è nata in un momento della sua vita in cui si sentiva bloccata, ma la scrittura le ha dato la forza di affrontare le sue paure. La canzone rappresenta una riflessione sul coraggio di affrontare le difficoltà e rimanere fedeli a se stessi, anche quando le cose non vanno come ci si aspetta.
Il tuo nuovo singolo “Stanze Vuote” ha un forte messaggio di introspezione e crescita personale. Cosa ti ha spinto a scriverlo?
Mi trovavo un momento della mia vita in cui non riuscivo ad “uscire” fuori per come volevo. Ho scritto questo brano qualche anno fa e parla di me in prima persona, come mi sono sentita in una stanza vuota con la paura di uscire. Ho avuto la necessità di scrivere per avere più coraggio nella vita.
Nel testo parli dell’importanza di uscire dalla propria zona di comfort. Quanto è stato difficile per te affrontare questo passaggio?
Mi sentivo come chiusa in me stessa per la paura, questo brano invita tutti a trovare la forza di uscire, con coraggio, anche se sarà difficile. Molto spesso le cose non andranno come vogliamo e non sempre dipenderà da noi, ma è importante essere se stessi e mostrarsi per quelli che si è. Solo così possiamo trovare la nostra vera essenza e di conseguenza la nostra strada.
Nel brano parli anche dell’importanza di allontanarsi da persone che ci fanno sentire sbagliati. Hai vissuto questa esperienza in prima persona?
Si, come penso molti. Quando ti trovi a contatto con persone che non credono in te, è difficile andare avanti, soprattutto se sei giovane e all’inizio del percorso. Ho conosciuto, proprio all’inizio del mio percorso di studi, delle persone che non credevano per niente in me arrivandomi a dire “non hai musicalità”, “non è la tua strada”. Di queste frasi adesso ne faccio tesoro, cercando di prenderne il buono che c’è. Queste parole mi hanno solo fatto capire quanto la musica sia importante e faccia parte di me, quindi adesso senza paura e a testa alta continuo il mio percorso con la voglia di fare sempre meglio e di più.
Hai detto che il brano è nato come uno sfogo e che scrivere ti fa sentire vulnerabile. Come vivi questa vulnerabilità nella tua musica?
La scrittura è sempre stata un modo per sfogarmi e trovare me stessa. Grazie alla musica riesco a capire i miei problemi perchè, quando scrivo si attiva questo processo naturale per cui le parole fluiscono libere con la musica, inconsciamente. Escono fuori lati che teniamo nascosti nella vita di tutti i giorni, per questo motivo, scrivere musica, per me, è fondamentale.
Quale messaggio vorresti che il pubblico portasse con sé dopo aver ascoltato “Stanze Vuote”?
Il messaggio è quello di avere fiducia in se stessi, far uscire tutti i lati e mostrarsi anche vulnerabili. Non c’è niente di male ad avere delle fragilità, anzi ci rende più umani in questo contesto in cui ci viene richiesto sempre di essere perfetti.
ClaT torna con il singolo “Il-logico”, che anticipa il suo doppio album “Logic”. Con un’atmosfera ipnotica e un testo che esplora vulnerabilità e riflessioni interiori, il brano unisce bassi profondi e percussioni incisive, creando un contrasto emozionale tra tensione e rilascio. ClaT ci racconta come il pezzo sia nato da una sperimentazione musicale e come il videoclip, diretto da Alessandro Di Federico, accentui il tema di alienazione. Un’anticipazione potente di un progetto più ampio in arrivo entro l’estate.
Il tuo nuovo singolo, “Il-logico”, ha un’atmosfera ipnotica e intensa. Qual è stata l’ispirazione principale per questo brano?
“Il-logico” musicalmente è nata quasi per scherzo mentre provavo alcuni synth. Mi sono soffermato inizialmente su di un giro di basso ipnotico e, per accentuare poi la melodia nell’intro strumentale ho utilizzato un lead che mi sembrava divertente e di contrasto rispetto a come stava nascendo la canzone. La fusione di questi suoni mi ha convinto che potesse diventare un pezzo interessante e mi ha spinto a completare la base dandole una forma canzone.
Nel testo parli di déjà-vu, di errori che ritornano. Ti senti intrappolato in un circolo vizioso?
Sì, la tematica del testo è proprio incentrata su momenti di riflessione e ricerca interiore, quando la realtà sembra sfuggire alle regole e si ha la sensazione che si ripresentino stesse situazioni affrontate in passato.
Il basso è un elemento centrale del brano. Come hai lavorato alla sua costruzione sonora?
La canzone è nata proprio partendo dai bassi e dalle loro atmosfere. Il basso synth che ho usato in fase di composizione è però poi stato sostituito dal basso elettrico del mio amico Luca Mazzoni, già collaboratore sul mio primo album “Directions” assieme a suo fratello chitarrista Daniele. Reputo Luca uno dei bassisti migliori di Como ed infatti è riuscito a dare un tocco entusiasmante alla linea di basso.
Le percussioni sono essenziali ma incisive. Quanto è stato importante trovare il giusto equilibrio tra ritmo e atmosfera?
Davvero importantissimo. Il pezzo credo abbia un riuscito contrasto tra la ritmica allegra e solare ed una scelta invece di suoni più cupi, in linea col testo, per questo mi è sembrato molto riuscito e mi ha spinto ad utilizzarlo come primo singolo del doppio album “Logic” che lo conterrà.
Nel videoclip di “Il-logico” emerge un forte senso di alienazione e distanza emotiva. Come è nata l’idea della ragazza sul sedile passeggero?
Il regista, Alessandro Di Federico, è un caro amico di lunga data, con lui avevo già collaborato per il video di alcuni precedenti brani, “Strada” e “Fail”, che avevano video più studiati ed elaborati. Dopo avergli spiegato il senso di “Il-logico”, abbiamo subito concordato che doveva essere un video d’impatto immediato, basandoci più che su di una storia, sulla qualità delle immagini nonostante la difficoltà di girare in notturna a Milano. Grazie anche alle movenze della bravissima attrice Alessia, crediamo che le sensazioni contenute nel testo di deja vù, indifferenza e di vivere in un loop, possano essere ampiamente percepite guardando il video.
Alla fine del brano dici “Ormai tu sei già lontana, e io mi perdo nell’indifferenza che resta”. È una dichiarazione di resa o di accettazione?
Credo che possa essere considerata sia una resa che l’accettazione di uno stato di fatto, situazione però, che ha anche il fattore positivo di poter resettare tutto così da poter procedere senza pensieri e affrontare nuove sfide con più concentrazione.
Quali sono i tuoi prossimi passi dopo “Il-logico”?
Prima dell’estate pubblicherò finalmente il doppio album “Logic” che lo conterrà nel lato cantato in italiano.
Rispetto ai miei lavori precedenti sia da solista che con la mia band storica “Dusk”, questo album è stato composto partendo dalla musica, attraverso sperimentazioni coi synth.
Solo successivamente, dopo tanti riascolti, ho deciso a quali basi aggiungere parti vocali e quali invece semplicemente arricchire con altri strumenti, pur lasciandoli poi strumentali. In questo lavoro di selezione sono stato aiutato anche da Julio Speziali (frontman della band Push Button Gently) che mi ha aiutato aggiungendo alcune chitarre ed effetti ritmici oltre ad essersi occupato della registrazione voci e mixaggio. Spero che il risultato vi piacerà!
“I girasoli di Van Gogh” è il nuovosingolo della storica rock folk band Folkabbestia. L’uscita è prevista per venerdì 14 marzo in tutte le piattaforme digitali per Maninalto!/Believe.
A sei anni dopo l’ultimo album “Il Frikkettone 2.0”, la formazione pugliese torna con nuovamusica e quella rinnovataenergia che da sempre contraddistingue le loro produzioni, come i loro concerti.
“I girasoli di Van Gogh” è una canzone che unisce il calore delle melodie folkcon l’energia del rock, creando un’atmosfera unica e avvolgente. Il brano racconta una storia d’amore intensa e appassionata, evocando immagini vivide e poetiche attraverso i suoi testi.
La linea vocale si intreccia con l’arrangiamento musicale, caratterizzato da chitarreacustiche e elettriche, violino, fisarmonica, flauto, basso e batteria. Queste si alternano tra dinamiche trascinanti. Il ritornello non lascia indifferenti, punta dritto alle orecchie dell’ascoltatore, invitandolo a cantare con loro.
Perchè i Folkabbestia hanno scelto Van Gogh
Il titolo “I girasoli di Van Gogh”, è una metafora che richiama la bellezza e la delicatezza dell’amore, paragonato ai celebri dipinti dell’artista. Questi fiori, simbolo di luce e vita, rappresentano la speranza e la felicità che l’amore può portare.
Il testo della canzone è ricco di immagini poetiche e riferimentiartistici, e riesce a creare un parallelo tra l’amore e l’arte. La scelta di Van Gogh come simbolo è particolarmente significativa. L’artista, infatti, è noto per la sua passione e intensità, caratteristiche che si riflettono a tutto tondo nel brano.
Francesco Fiore (basso), NicolaDeLiso (batteria), IsabellaBenone (violino, cori), MicheleSansone (fisarmonica, cori), GiuseppePorsia (flauto traverso, tin whistle, cori) e LorenzoMannarini (voce, chitarra) sono nuovamente pronti a regalare al pubblico tutta la vivacità che dal 1996 li ha fatti apprezzare da oltre tre generazioni.
“I girasoli di Van Gogh” anticipa una serie di pubblicazioni e concerti che si svolgeranno per tutto il 2025.
La band si esibirà il 14 marzo Modena (Vibra), il 15 marzo a Bologna (Piazza Lucio Dalla) e il 16 marzo a Parma (Parco della Cittadella) all’interno del festival Irlanda in Festa.
“Sacre Sinfonie, Battiato: Tutta la storia”, di Fabio Zuffanti è il titolo della più recente e completa biografia pubblicata finora su FrancoBattiato, in uscita per Il Castello collana Chinaski Edizioni nell’anno e nel mese in cui il musicista siciliano avrebbe compiuto 80 anni. Disponibile dal 12 marzo, il volume raccoglie in quasi 500 pagine la vita e le opere del cantante, dalla nascita fino agli ultimi giorni di vita nel 2021.
Attraverso testimonianze dirette, interviste e articoli, Zuffanti ricostruisce la vitapersonale e la carriera di un artista fondamentale per la musica italiana e oltre. Accanto a una dettagliata cronistoria delle tappe artistiche e biografiche di Battiato, l’autore arricchisce la narrazione con suggestioni personali che evocano la dimensione del romanzo, integrando quegli eventi storici che hanno influenzato profondamente la vita e le opere del protagonista.
Dalla Sicilia all’universo
Nel piccolo paesino siciliano degli anni ’40, già si percepisce il suo carattere visionario sognatore. Dai primi approcci con la musica, all’infortunio che gli causò il celebre naso importante (La sua carriera calcistica sembrava promettente, ma un impatto con il palo della porta cambiò tutto).
Finalmente a Milano nel ‘64 per cercare fortuna, tra impieghi occasionali, nuove conoscenze musicali (La prima incisione arrivò grazie a un lavoretto da fattorino) e l’amicizia con Giorgio Gaber (Gli suggerì di chiamarsi Franco per non confondersi con l’altro Francesco, Guccini, ospite insieme a lui in un programma TV).
L’amore per la sperimentazione (Durante il servizio militare si recò a Londra per acquistare un sintetizzatore rischiando gravi provvedimenti disciplinari), prende poi piede in una fusione tra elettronica, prog e psichedelia (Dopo aver provato la mescalina, decise che poteva ottenere gli stessi effetti grazie alla meditazione), fino alla consapevolezza di volere usciredallanicchia e diventare una popstar (Al primo incontro con la EMI disse: sono venuto qui per avere successo, ditemi come devo fare e lo faccio).
Le declinazioni del pop che ha sviluppato negli ’80 dimostrano che con Battiato fruibilità non per forza doveva significare banalità. La sua musica attraversa i decenni, perennemente in movimento tra cantautorato, pop, rock, elettronica, classica e avanguardia. Con sempre nuovi cambi di rotta inaspettati, solo apparentemente in contraddizione con quanto aveva cristallizzato fino a quel momento.
Battiato, tra pop e sperimentazione
Battiato è stato forse il primo in Italia, a produrre un pop di qualità che potesse essere di largoconsumo. Questo merito è emerso anche in Europa dove ha trovato una sponda nel suo mentore Karlheinz Stockhausen (Il musicista tedesco lo convinse a studiare la teoria musicale); e perfino negli USA, dove Frank Zappa ne aveva pubblicamente riconosciuto il valore (Il chitarrista gli regalò un paio di stivaletti alati per spronarlo a perseguire i suoi traguardi).
Così tra hit, sperimentazione, colonnesonore, operesacre e musica d’autore, si arriva alla sferzata rock, e poi di nuovo alla musica da camera, mescolando sempre stili e culture disparate. Un moto di incertezze, cambi di prospettiva, ammiccamenti al grande pubblico e imprevedibili virate artistiche, sempre frutto dei suoi inquieti viaggi esistenziali.
Ma oltre la musica c’è di più: la meditazione, l’impegno sociale, il rapporto con le religioni (Primo artista pop ad esibirsi in Vaticano), le ideepolitiche (È stato un sostenitore del Partito Radicale), le filosofie, le mutazioniestetiche (Nel’71, con il volto coperto di bianco, fu testimonial di una massiccia campagna pubblicitaria di divani a sua insaputa). Il vegetarianismo (Diventò vegetariano dopo aver comunicato con un pesce) il cinema, la letteratura e la pittura. Sfide sempre nuove che lo portano a confrontarsi con le arti in senso lato, delineando i contorni di una figura complessa, dall’adolescenza fino alla malattia e agli ultimi anni della sua esistenza.
“Sacre Sinfonie” è rivolto a tutti quelli che per la prima volta si vogliono affacciare all’universo Battiato, ma anche per i fan che possono riscoprire in modo completo tutte le tappe che lo hanno reso un artista immortale.
A Novembre è uscito il nuovo album del duo Palmaria, nome in arte della coppia di Francesco Drovandi e Giulia Magnani che ha dato vita, oltre che ad un figlio, ad un disco dal suono caldo ed accogliente che ti fa sentire immediatamente in un contesto familiare e sicuro. Di matrice low-fi, Ora è un album scritto per la generazione millenials ma che parla anche a quella Z, in cui speranze e disillusioni si intrecciano nel tentativo di fermare il più grande nemico di quest’epoca: il tempo. Voce soave e lo-fi, ma anche alt pop e ritmi simili al soft rock.
Formazione
Inizierei a chiedervi un pochino il vostro percorso musicale, come vi siete approcciati entrambi alla musica, che cosa vi ha spinto, se avete avuto degli input esterni, ecc…
Francesco: ho sempre amato la musica, sin da bambino, istintivamente. La chitarra ed il pianoforte, in realtà, mi hanno sempre attirato come oggetti, così come tutte le cose che facevano dei suoni che mi piacevano. Ascoltavo anche tantissima musica, quindi è stata una passione che ho sempre portato avanti, proprio per gioco. E poi, piano piano, scoprendo magari musica più verso il rock o più vintage, come ad esempio i Beatles, ho sempre avuto voglia di giocare con la chitarra e di cercare delle melodiee degli accordi che mi piacevano. Da lì istintivamente ho iniziato anche a scrivere qualcosa, qualche canzone, qualche giro, ecc… . Anche fondare diverse band con amici, più per gioco all’inizio, ha aiutato a farla diventare la mia passione.
Libertà di esprimersi
Sei autodidatta oppure hai anche studiato in scuola?
Francesco: ho studiato con diversi maestri, più che altro chitarra. Però, per fortuna, tutti avevano un approccio che mi portava a diventare non simile agli altri, ma a sviluppare il più possibile una personalità in quello che facevo. Questo è veramente un fattore che io ritengo fondamentale, sono stato fortunato da quel punto di vista.
Giulia: anch’io da subito: sono sempre stata affascinata dalla musica, ne ho sempre ascoltato tanta sin da piccola grazie ai miei genitori ed agli amici che venivano anche dal mondo dell’arte. Mia madre è una ballerina, sono cresciuta in una casa musicale. Poi, maturando, ho sempre cantato da autodidatta, ho incontrato un maestro che mi ha indirizzato verso un’insegnante di canto lirico, per cui ho studiato diversi anni quello.
A differenza del percorso di Francesco, non era proprio un approccio che lasciava spazio alla ricerca della mia identità, ma era un metodo molto più classico. Ragione per cui ho preso un’altra strada ed ho poi incontrato Francesco e la sua band. Abbiamo formato insieme un gruppo e poi dopo, negli anni, abbiamo iniziato a scrivere come duo. Abbiamo fatto un lungo periodo anche di gavetta, suonando cover, per cercare anche un po’ il nostro punto d’incontro a livello sonoro. Ci ha formati come duo, abbiamo iniziato a scrivere le nostre parole ed eccoci qua oggi.
Però comunque senti che la musica classica sia stata una giusta base per te?
Sicuramente mi ha dato tante basi a livello tecnico. Le mie espressioni di tecnica vengono da lì e, istintivamente, sono poi entrate nel mio modo di ”camminare”, anche se poi ho preso totalmente un’altra strada. Però sì, decisamente hanno aiutato.
cover Ora (c) Agnese Carbone e Alberto Ricchi
Creazione
Io sono molto curiosa di sapere come avviene la scrittura tra voi due, nel senso che sembra molto un stream of consciousness. Però, appunto, essendo a quattro mani, mi interessavano un po’ le vostre dinamiche. Chi di norma ha la prima idea?
Giulia: Diciamo che non è mai la stessa modalità ogni volta. A volte partiamo da una mia idea di melodia, un vocale, magari da una parte di testo che ha scritto Francesco o un giro di chitarra. A volte invece da zero, veniamo ispirati da qualche ascolto e quindi cerchiamo di ricreare un groove in quel mondo e partire da lì. L’inizio è sempre diverso. Si fanno magari tante prove per cercare una scintilla e, quando viene fuori, da lì si inizia un lavoro più strutturato: si cerca di capire se quella fiamma è un ritornello, una strofa, che suono ha quella canzone, che senso ha il testo, qual è il messaggio che vogliamo dare, ecc… .
Francesco: però l’inizio è più sperimentazione, che può essere suonare una chitarra o cercare di costruire un beat o un’idea che ha scritto Giulia di testo, quindi è molto variabile. Sì, comunque comunicare e farci sentire qualcosa, se no passiamo a un’altra idea, solitamente. Poi da lì iniziamo a lavorare nel dettaglio e a costruire poi il pezzo.
Influenze
Visto che mi avete detto che anche gli ascolti vi influenzano, quali sono state le tracce che vi hanno accompagnato durante la stesura di questo album?
Francesco: diciamo che durante la scrittura abbiamo ascoltato tanto The Marìas, band americana che ci piace veramente tanto, che è uscita con un album bellissimo e che speriamo di vedere dal vivo presto. Poi anche i Men I Trust, sempre un’altra band americana. Che altro?
Giulia: Sicuramente ascoltiamo anche tanto Metronomy, perché in realtà più che un brano nello specifico sono più delle fasi in cui ascoltiamo delle band. Di loro ascoltiamo tutto perchè ci ispirano a scrivere idee. Ed aggiungerei anche Mac Miller tra le nostre nostre references.
Francesco: sì, sì, è più o meno una questione di artisti secondo me, anche perché la cosa interessante è che sta un pochino tornando l’album finalmente in questo periodo. Per cui anche noi cerchiamo, se scopriamo un artista od un singolo, di andare a capire qual è il discorso più ampio intorno. Spesso, per fortuna, è un album ed è un po’ anche quello che vorremmo fare noi questa volta: vorremmo che venisse ascoltato il disco come un’opera intera. Chiaramente è chiedere molto, però speriamo di poterlo suonare anche dal vivo e che appunto le persone possano immergersi in una serie di canzoni più che in un singolo soltanto.
Palmaria (c) Agnese Carbone
Percorsi
Ci sono degli artisti di cui vi piace il percorso e a cui vi piacerebbe un po’ ispirarvi?
Giulia: Se parliamo di italiani, sicuramente noi sin da subito abbiamo sempre fatto la scelta del percorso un po’ più lungo, fatto di gavetta, locali piccoli, festival. Adesso che siamo tornati in Italia ci aspetta un periodo di grande lavoro con una crescita più organica. Coloro che hanno lavorato in questi termini sono Venerus, Frah Quintale e tutta la gente che ha suonato tanto e che continua a farlo con un bel team di lavoro e con una bella fan-base di un pubblico appassionato.
Francesco: sì in generale ci ispiriamo molto agli artisti che costruiscono una canzone, un pezzo ed un fan alla volta, perché alla fine sono quelli che hanno qualcosa da dire e che hanno anche la possibilità di fare tanti dischi e di costruire un lavoro. Anche i gruppi che citavo prima suonano da tantissimi anni e portano avanti la loro idea, il loro suono e piano piano cominciano a veder arrivare sempre più persone.
Ok, quindi per voi fare i live è la cosa diciamo più importante.
Giulia: esatto, pur essendo magari un genere non mainstream. Vorremmo creare un nostro live, costruire un nostro pullmone, trovare una nostra nicchia anche in Italia, perché crediamo che comunque sia un momento di grande fermento anche qui. Io credo che sia un momento in cui i live e le nicchie ci siano e che si trovino un po’ più persone interessate anche a generi un pochettino più low.
Lo-fi
Avete anche un po’ questa vena lo-fi?
Giulia: sì, sì, assolutamente. È decisamente una delle caratteristiche del nostro sound e spesso andiamo a cercare suoni di questo genere. Forse anche perché creano un po’ queste atmosfere così intime ed introspettive che ci piacciono e ci appartengono.
Francesco: sì, ci sembra che si sposi bene anche con il messaggio dei testi o il racconto che stiamo facendo. Non vogliamo che per forza tutto sia pulitissimo o ri-registrato mille volte, ma che ci sia qualcosa di vero, di umano e che in qualche modo vada bene con il messaggio che vogliamo raccontare con questo album.
Riprendendo invece il discorso live, un’esperienza grossa che avete avuto è stato lo Sziget, come è stato? Avete degli aneddoti a riguardo?
Francesco: è stato un bellissimo percorso, perché noi abbiamo deciso di spostarci in macchina fino a Budapest, quindi è stato davvero un viaggio che ci ha portato a fare questa esperienza.
Giulia: in generale l’isola è abbastanza magica. Eravamo curiosi di scoprire anche, non solo proprio il festival, ma l’energia di questo evento. Noi abbiamo scelto poi di fare un viaggio on the road, anche perché io aspettavo il nostro bimbo, quindi è stato un po’ all’avventura, mettiamola così. Siamo partiti con le dita incrociate e poi per fortuna è andato tutto bene. Un buffo aneddoto è che siamo rimasti bloccati di notte alla fine della serata live. Ci si è fermata completamente la macchina sull’isola dentro il festival. E quindi poi, insieme a un gruppo di persone che abbiamo raccolto sotto un palco, ci siamo riusciti a spingerla e a farla ripartire. Siamo sopravvissuti anche a quella parte.
Sicurezza ai festival
Francesco: però è stata veramente una bellissima esperienza e la rifaremmo molto volentieri. Ci sono gruppi incredibili e poi, nonostante ci sia tantissima gente che è lì anche per divertirsi, c’è sempre un’atmosfera in cui comunque ti senti molto al sicuro. (Effettivamente l’ospedale è posto al fondo, per cui tutti quelli che si sentono male per via dell’alcool o altro sono nascosti bene e non intralciano la prosecuzione del festival, ndr). Ecco, lo consiglio a tutti, mi è molto piaciuto e mi ha molto stupito questa cosa. Al di là della musica bellissima, quello che magari succede nei festival è che c’è un po’ di delirio, lì invece ho trovato che ci sia ma il giusto, non troppo.
Viaggi e tramonti
Dove vi immaginate le persone ascoltare il vostro disco non in live, quindi diciamo in un’atmosfera più solitaria? Avete mai pensato a un setting in cui vi piacerebbe vedere qualcuno che si gode il vostro album?
Giulia: decisamente noi anche quando scriviamo ci ispiriamo tanto a immagini. Vivendo anche in Liguria, siamo fortunati ad essere quasi davanti al mare, davanti all’isola da cui prendiamo l’olio, quindi siamo spesso immersi in giganti tramonti pazzeschi, colori e sfumature incredibili. Il tramonto è sempre lì nella nostra testa quando facciamo musica ed è sempre la prima immagine a cui andiamo con la mente quando scriviamo e quando ascoltiamo la nostra musica, per cui decisamente quello. Ma anche il viaggio è un altro luogo che pensiamo funzioni bene con la nostra musica. Il viaggio in auto, in aereo, il movimento in generale, i tramonti e l’alba.
Francesco: sì, a noi piace tantissimo ascoltare musica mentre guidiamo, quindi sarebbe bello se qualcuno poi ascoltasse questo album godendosi un bel viaggio in auto. Però allo stesso tempo è meraviglioso anche che questo disco, che è un po’ più riflessivo forse dei lavori che abbiamo fatto prima, sia uscito in un momento di autunno-inverno: mi vedo anche qualcuno che se lo ascolta a casa sotto la copertina.
Colori
Se doveste scegliere un colore che rappresenti le emozioni che vorreste suscitare nei vostri ascoltatori, quale sarebbe?
Giulia: probabilmente una sfumatura di arancione e viola, che è un po’ quello che poi è il colore del tramonto di settembre di cui parlavamo prima.
Immagini e suoni
Ma voi pensate più per immagini o più per suoni?
Giulia: io tanto per immagine
Francesco: io più per parole.
Cos’è la cosa che vi rende più fieri in questo disco?
Francesco: personalmente il fatto che abbiamo preso una direzione che è molto più personale, più nostra, in più abbiamo anche prodotto o co-prodotto praticamente tutti i brani. Abbiamo avuto anche la fortuna di collaborare con alcuni produttori bravissimi, tra cui Fudasca, Golden Years, Emanuele Triglia, ma tutti i brani sono nati qui, a casa da noi, quindi da noi anche come produttori. E questo ci fa molto piacere, perché crediamo di avergli dato un taglio nostro nel bene e nel male. Se vi piace, bene, siamo stati bravi. Se non vi piace, è colpa nostra.
Produttori
Visto che me li hai citati e visto che tanto era una domanda che mi ero scritta, come avete scelto le persone che hanno collaborato con voi nella produzione, essendo anche alcuni nomi già importanti o abbastanza conosciuti nel mondo musicale?
Giulia: sicuramente sono persone che seguivamo da tempo e che pensavamo che per i lavori che hanno fatto fossero un buon match per i diversi brani. Alcuni più dreamy, altri più groovy e con più energia. Abbiamo scelto i vari artisti basandoci sui loro lavori. Con alcuni eravamo già in contatto, come con Golden Years. Ci eravamo già incontrati, c’era la voglia di lavorare insieme e così è stato. Siamo anche usciti a Roma. Fa ridere, è simpatica questa cosa, ma ci ritroviamo sempre a lavorare spessissimo con gente di Roma. Noi siamo in Liguria, ma pur lavorando spesso a Milano, finiamo sempre a Roma. Fudasca, Golden Years, Emanuele Triglia, non tutti sono di Roma ma vivono tutti lì. Sarà l’energia romana.
Francesco: un’affinità molto di sound e di approccio alla musica con un groove e con un determinato colore sonoro che proprio è quello che ci piace. E che li accomuna un po’ tutti, sicuramente.
Groove
Infatti avete questa sonorità che vi contraddistingue molto. Qual è l’ingrediente che non può mai mancare quando pensate alla musica dei vostri brani?
Francesco: in generale chitarra, basso e batteria. Sembra banale, ma la commistione di questi tre elementi per noi è la cosa più importante.
Giulia: una bella idea che deve sostenere tutto il pezzo e si trova quasi in tutti i brani, tranne forse in fili elettrici in cui c’è un approccio un po’ più acustico e un po’ più sensuale.
Francesco:ci piace proprio incastrare questi tre elementi in modo che creino qualcosa che porti avanti sempre il pezzo e che non risulti mai noioso, anche quando si ripete. Deve essere sempre interessante o ipnotico in qualche modo.
Ho la domanda cattiva adesso. Non avete paura di cristallizzarvi troppo sul vostro genere ed essere sempre troppo simili a voi stessi?
Giulia: in realtà il nostro problema, se vogliamo chiamarlo problema, è sempre stato un po’ l’opposto: ci è sempre piaciuto tanto sperimentare. Ogni lavoro abbiamo sempre voluto fare un passettino più in là e provare a fare cose leggermente fuori dalla nostra comfort zone. Il risultato è sempre stato di esplorazione e di suono che si allontana un pochettino da quello che avevamo fatto in precedenza. In questo disco abbiamo cercato di rimanere in un mondo con un suono più coerente.
Francesco: volevamo creare un mondo molto lineare come un libro o un romanzo, invece che una serie di racconti.
Giulia: abbiamo sempre sperimentato tanto in passato e questa volta volevamo fermarci.
Francesco: abbiamo anche cercato di usare tanto l’italiano. Comunque è stato un lavoro istintivo, ma che crediamo volessimo fare.
Italiano e inglese
Beh, direi che vi siete difesi bene. Questo qui tra l’altro è il secondo album che fate in italiano. In che cosa è stato più facile e in cosa più difficile?
Giulia: sicuramente trovare questo filo conduttore che non si allontanasse troppo e non fosse troppo frammentato, ma mettere insieme un gruppo di pezzi che fossero legati tra di loro, che raccontassero la stessa storia, ma con diversi momenti e diversi mood. Che poi è il nostro racconto di questo momento.
Francesco: nell’Ep prima invece c’erano dentro cose molto diverse. Si passava dall’inglese all’italiano fino al mix delle due lingue. Era più un affresco di diverse cose che ci piacciono, questo invece è più coerente ed unito. Ecco, questo volevamo, poi non so se ci siamo riusciti.
Certo e quindi è stato anche forse difficile rinunciare a certe parti del lavoro prima.
Giulia: decisamente, abbiamo lasciato indietro diverse cose.
Francesco: direi non lasciato indietro, ma messo un attimo da parte. Ovviamente abbiamo scritto tante cose diverse, ma abbiamo scelto di coagulare quelle che avevano un senso insieme.
Commistione
Ok, però anche in questo nuovo lavoro c’è un po’ di commistione tra italiano e inglese. Come rispondete a chi vi dice che è importante salvaguardare la nostra lingua?
Francesco: secondo me è giusto quando si parla italiano usare le più possibili parole italiane e viceversa. Ma allo stesso tempo, per noi, personalmente, avendo vissuto così tanti anni in Inghilterra e avendo scritto così tanto soltanto in inglese, questo mix non era una forzatura, ma è una cosa istintiva. E crediamo che racconti qualcosa di noi. Quindi è giusto, secondo me, che bisogna usare l’italiano e salvaguardarlo, ma all’interno di una forma d’arte è anche giusto esprimersi liberamente. E’ per questo che noi lo facciamo: perché ci viene istintivo e racconta di noi, di come siamo divisi un po’ tra questi due mondi di Londra e dell’Italia. E anche il nostro racconto, per forza di cose, non poteva completamente escludere un capitolo così importante, soprattutto a livello della nostra crescita musicale.
Londra
La cosa più importante che vi portate da Londra?
Francesco: Il voler essere, diciamo, il più possibile un qualcosa di diverso. Perché quello che è bellissimo a Londra è che esistono migliaia di progetti. E quello che li rende forti è il voler creare una cosa di molto, molto originale e di molto, molto specifica.
Giulia: Non diverso però tanto per essere diverso, ma perché la tua forza personale è molto più originale che andare dietro a delle tendenze.
Tra l’altro in Domani affrontate anche un pochino questo tema del cambiare parti di noi stessi per andare incontro a delle esigenze di altre persone. Secondo voi qual è la chiave per rimanere il più fedele alla propria identità?
Francesco: è una domanda difficile questa.
Giulia: sicuramente ci vuole tanta determinazione e tanta pazienza perché spesso bisogna andare contro a tante idee.
Francesco: e bisogna avere il coraggio di fare qualcosa per se stessi.
Giulia: la determinazione serve perché magari la risposta giusta è la tua e lo sai prima degli altri, ma comunque li devi convincere
Il valore della musica
Vi siete fatti portavoce delle insicurezze e delle ansie che accarezzano le persone della vostra generazione, che è quella dei millennials, ma che in realtà toccano anche la Gen Z. Secondo voi che ruolo ha la musica nel contesto in cui viviamo?
Francesco: personalmente a me la musica ha aiutato tantissimo in passato, quando ero teenager ascoltavo musica tutto il giorno in ogni momento libero, o la ascoltavo o la scrivevo. Credo che a tutte le età la musica debba rappresentare un luogo sicuro e/o di sfogo o che comunque che ci aiuti a conoscerci e a regolare le nostre emozioni. E che ci faccia sentire parte di un gruppo in cui ci sono persone che si sentono come noi. Infine che ci aiuti ad affrontare i momenti critici che ci possono essere nella nostra vita.
Per fare questo la musica secondo me deve essere più sincera possibile, perché se è soltanto un bene di consumo, progettato per fare ascolti o essere ascoltato un milione di volte d’estate nelle radio, difficilmente avrà questo ruolo nella vita delle persone. Poi ovviamente esiste anche la musica per divertirsi ed è giusto che ci sia.
Millennials e Gen Z
Se i boomers hanno tradito e disilluso i millenials sulle possibilità del futuro, in cosa voi sentite che i millenials hanno sbagliato, non consciamente ovviamente, nei confronti della Gen Z?
Francesco: secondo me che ci siamo fatti convincere del fatto che il mondo fosse molto predefinito in un certo modo. Parlando per esperienza personale ho visto tardi che la cosa migliore era quella di trovare la propria strada e di trovare un percorso proprio. A me sembra che le generazioni più giovani questa consapevolezza ce l’abbiano già da piccoli, forse è una delle poche cose positive che hanno dato i social: mostrare che nel mondo esiste di tutto e se ci si impegna e se si cerca la propria strada ci sono infinite possibilità.
Social
Io però ho visto che comunque anche voi siete attivi sul versante social e che li utilizzate anche nel modo giusto per promuovere la vostra arte. Quindi quale è il vostro rapporto con loro?
Francesco: è un rapporto sicuramente ambivalente, molto spesso le persone ne fanno un uso eccessivo, però bisogna anche vedere cosa c’è alla base. Mi viene in mente quello che è successo con Elon Musk: il fatto che lui abbia fatto ridisegnare un algoritmo per fini suoi politici significa che non è un mondo sempre così trasparente. Così come spesso dietro ad esse c’è una volontà di farne fare un uso eccessivo o comunque non prettamente giusto. Questo però non ci impedisce di provarli ad usare nel modo in cui lo riteniamo corretto.
Granelli di sale
Tornando al discorso delle ansie voi un brano lo chiudete dicendo che alla fine siamo solo granelli di sale, ma pensarsi piccoli all’interno di un universo gigantesco aiuta veramente a spostare un po’ le proprie paure oppure anche questo pensiero alla fine rimane sospeso e non si rivela utile?
Giulia: in questo caso la frase è venuta fuori in un momento di grande fatica. Spesso ci ritroviamo a costruirci castelli mentali, preoccupazioni, ansie, paranoie, anche magari legati ai social ed al fatto che ci sentiamo in dovere di postare continuamente per l’engagement. Secondo me è utile per ridimensionare e ritrovare il punto focale. Postare è importante, sì, ma facciamo un passo indietro e rendiamoci conto che oggi è una bella giornata, stiamo bene, stiamo facendo musica che è quello che ci piace fare.
Francesco: sì mettere in relazione per capire l’importanza di qualcosa
Giulia: alla fine siamo solo una piccola parte di questo gigante universo e quindi non possiamo passare tutto il tempo a preoccuparci. Poi sicuramente c’è anche il punto di vista per cui essere semplicemente dei piccoli granelli ci fa sentire insignificanti.
Ora
Il titolo Ora, che è molto bello e molto esplicito, volevo chiedervi quando vi è venuto in mente e quando avete deciso che sarebbe stato quello giusto?
Francesco: il titolo è nato alla fine della scrittura dell’album durante una chiacchiera tra me e Giulia in cui abbiamo ragionato quali fossero i temi centrali che avevamo portato avanti in tutte le canzoni. Ci siamo resi conto che quello che lo faceva meglio era il tema del tempo, di come esso ci sfugge e di come non ci basti mai, di come guardiamo al passato con nostalgia o al futuro e di come non vediamo l’ora che succeda. Il tema del tempo per noi condensava bene il fatto di dover tornare a viverci quello che stiamo facendo nel miglior modo possibile, questo momento che è inafferrabile ma che non è facile. Anche a noi piace e crediamo che abbia centrato nel segno.
Tempo
Voi appunto è parlate tanto di vulnerabilità, la vostra principale è il tempo o sentite di averne una ancora più grande?
Giulia: sicuramente il tempo la sento come una cosa che ci sfugge sempre e a cui non riusciamo ad aggrapparci, per cui forse questa è la vulnerabilità centrale. Un’altra è sicuramente il fatto di essere musicisti indipendenti in una industria che va in un’altra direzione. Però noi vogliamo comunque stare qua in prima linea e provare a trovare una nostra dimensione.
Francesco: che poi il risvolto positivo della vulnerabilità esiste. Credere di essere invincibili ci porta soltanto a farci male, mentre riconoscere di essere vulnerabili ma di andare avanti comunque credo che sia un modo sano per affrontare le proprie difficoltà o di portare avanti un proprio percorso. Per cui la vulnerabilità secondo noi non è per forza negativa ma è qualcosa che bisogna riconoscere e con cui bisogna convivere positivamente.
Giulia: anzi per tanti anni non è stata riconosciuta dalla società e dopo la pandemia hanno iniziato a darle maggiore luce.
Superficialità
Prestate molta attenzione ai vostri testi e cercate anche di sviscerare alcune tematiche importanti. Come si esercita la propensione a non essere più tanto superficiali in una società che tende a rimanere invece sull’approssimativo?
Francesco: non saprei dirti come si esercita, per quanto mi riguarda è una questione istintiva: mi piace perdermi in viaggi mentali e pensieri. Mi va sentire meglio quando lo faccio e quando non vivo troppo sulla superficie delle cose e sull’apparenza
Giulia: sì, è anche un po’ una terapia diciamo: i nostri pezzi sono anche un po’ una luce che ci aiuta a capire i nostri problemi e che ci fa quasi sempre trovare la soluzione ed il lato positivo delle cose. In questo modo qua si va un pochino più nel profondo per capire di che cosa vogliamo parlare e con che cosa ci vogliamo connettere.
Quindi un consiglio è quello di prendersi un po’ di tempo per starsene con la propria mente
Giulia: esatto
Futuri Live
Visto che il live è molto importante per voi, un palco che non avete ancora calcato e che sognate di fare prima o poi nella vita?
Giulia: a breve giro ci piacerebbe suonare a Milano e si sta progettando qualche data. Ci piacerebbe anche il Mi Ami
Francesco: beh anche qualche festival internazionale visto che stiamo sognando
Giulia: ah beh allora un bel Glastonbury ci vorrebbe ahah. Però per rimanere un pochino con i piedi per terra un bel giro in Italia
Francesco: sì qualche bel festival che per fortuna ci sono in estate, quindi speriamo di poterli fare
Sì, poi devo dire che ho visto negli ultimi anni il Mi Ami lasciare spazio ad artisti che fanno il vostro genere musicale e che hanno anche il vostro stesso approccio alla musica
Giulia: decisamente, è una realtà che tende a proporre un qualcosa di un pochettino più diverso. Anche ”la prima estate” che è un bel festival che fanno qua vicino a noi, mi immagino noi suonare sulla spiaggia al tramonto.
“Don’t try Strikki at home” è il titolo del primo album del rapper romano Strikkiboy in uscita venerdì 7 marzo in tutte le piattaforme digitali e CD per Time 2 Rap.
Nonostante si tratti di un debut album, almeno con questo nome d’arte, la carriera dell’MC comincia nel 2007 come Strikkinino tra progetti solisti e varie formazioni. Tor Bella Monaca è il quartiere di provenienza che lo ha sempre ispirato. Seppur in un ambiente difficile, simbolo della periferia romana, dove il grigio dei palazzoni è il colore predominante e dove l’unico racconto possibile sembra essere quello di un luogo catalizzatore dell’illegalità, con le rime del rap ha sempre voluto raccontare il disagio e la povertà urbana. Il significato di “Don’t try Strikki at home” è proprio questo: la vita di Strikkiboy divisa tra il lavoro di tutti i giorni, difficoltà familiari e il contesto sociale in cui è cresciuto non è per tutti. Nelle sue rime quindi racconta solo le sue personali esperienze di vita, dove la musica diventa uno strumento di rivalsa.
Tutte le produzioni di Don’t try Strikki at home
Il flow serrato che attraversa le dieci tracce, fa emergere le sue esperienze di freestyler di strada, mentre le sonorità con le produzioni di Kasterbrax, Phatale, drTesto, DjExy e JohnnyScully, cristallizzano i beat del rap più classico con la contemporaneità dell’elettronica.
Hip-Hop come appartenenza, come approccio musicale e culturale, ma anche radicamento nella scena come dimostrano i numerosi ospiti che Strikkiboy ha voluto coinvolgere nell’album. Da Kento, modello rappresentante degli artisti conscious, ad Aurel altro esponente della scena di Tor Bella Monaca. Il fratello maggiore artistico JohnnyRoy e il veterano SantoTrafficante, che l’artista ha sempre considerato sui punti di riferimento, ma anche l’MC gipsy/gitano Delgado. E poi la crew Back to the Roots composta da Phatale, Reics, Dais, 2b,JohnnyScully e Emme a di, che poco ha incluso al suo interno anche lo stesso Strikkiboy.
Da venerdì 7 marzo sarà disponibile in rotazione radiofonica e su tutte le piattaforme di streaming digitale “Renamer” (Overdub Recordings), il nuovo singolo degli IYV.
Il significato di “Renamer”
Estratto dal disco “Blacktar”, “Renamer” si concentra sul difficile percorso di reintegrazione sociale dopo un lungo periodo di dipendenza. Il titolo stesso richiama il concetto di ridefinizione della propria identità, elemento cruciale per chi cerca di ricostruire la propria vita lasciandosi alle spalle un passato segnato dall’autodistruzione. Il testo del brano trasmette il senso di vuoto e smarrimento che accompagna il tentativo di ricominciare, mettendo in luce il contrasto tra il desiderio di stabilità e il peso delle cicatrici del passato.
Un’introspezione cruda e sincera
Le liriche di “Renamer” offrono un ritratto autentico delle difficoltà legate al cambiamento, raccontando la lotta interiore di chi cerca un nuovo significato alla propria esistenza. La canzone esplora il senso di solitudine e l’amara consapevolezza di essere rimasto indietro rispetto a un mondo che non si è mai fermato. È un viaggio di dolore e accettazione, una riflessione sulla propria identità e sulle conseguenze delle scelte passate.
Le parole della band
Gli IYV spiegano così il significato del brano: “Renamer è la fine della dipendenza dall’eroina, la comprensione di sé e di ciò che ne rimane, la sensazione di vuoto e di abbandono rispetto a un mondo che è andato avanti senza aspettarti. È la presa di coscienza della solitudine e del ritorno alla vita, lento, lontano, invisibile. È la rabbia per le proprie scelte, il rifiuto e la successiva accettazione, amara, con il pensiero di essere solo quello e nient’altro: un tossicodipendente. E la domanda del perché – se questa è la conclusione – dia così tanto fastidio.”
Chi sono gli IYV
IYV è una band Alternative Rock nata nel 2001 a Treviso. Con un sound che fonde grunge e rock alternativo, hanno pubblicato album come “Waiting for My Muse called Love” (2002) e “I Killed Someone” (2016). Il loro ultimo album, “BLACKTAR”, previsto per il 2025, esplora temi di redenzione e dipendenza con un approccio crudo e diretto. Gli IYV si distinguono per melodie coinvolgenti, potenti riff di chitarra e un approccio artistico autentico e introspettivo.
I Fiori di Cadillac, ossia i salernitani Luigi Salvio e Valerio Vicinanza, hanno appena fatto un viaggio in Francia per acquistare e ritirare lo storico banco mixer che il producer parigino Rico the Wizard ha soprannominato “une vieille dame” (un’anziana signora).
UNA CONSOLLE STORICA
Rico the Wizard, nome d’arte di Éric Chédeville, è un produttore musicale che ha accompagnato a più riprese Guy-Manuel de Homem-Christo nei suoi processi creativi fino a co-fondare con la metà dei Daft Punk l’etichetta Crydamoure (1997 – 2003) e il gruppo Le Knight Club. Con “Guy-Manuel”, inoltre, ha condiviso per anni il banco mixer Neve Vr. che i Fiori di Cadillac hanno appena acquistato. Su questa storica consolle sono stati perfezionati vari brani del duo elettronico parigino, comprese alcune collaborazioni, per esempio quella piuttosto celebre con The Weeknd per “Starboy” (2016). Non a caso Rico the Wizard è anche co-autore di un’altra hit di questa combo tra la star canadese e il duo parigino, “I Feel It Coming” (2016).
IL VIAGGIO A PARIGI
I Fiori di Cadillac hanno deciso di acquistare questa consolle perché stanno allestendo uno studio di registrazione collegato alla loro etichetta indipendente, Dissonanze Records. Per dare personalità al suono dell’etichetta, su cui stanno investendo sempre di più, Salvio e Vicinanza negli ultimi mesi si sono messi alla ricerca di un banco mixer che fosse capace di raccontare una storia e, allo stesso tempo, avere quel carattere necessario per rendere la musica prodotta riconoscibile.
La ricerca è terminata quando si sono imbattuti nell’annuncio che proprio Rico the Wizard ha pubblicato per vendere il suo mixer 24 canali assemblato in Inghilterra nel 1988. Subito dopo l’acquisto i due hanno deciso di intraprendere un viaggio in furgone da Salerno a Parigi per ritirare la consolle a mano.
All’arrivo a Parigi, grazie all’incontro con Rico, i Fiori di Cadillac hanno scoperto altri dettagli. Per esempio che quel banco mixer è arrivato a Parigi nel 2008 dal The Village Studios di Los Angeles, storico spazio dove hanno registrato artisti come Ben Harper, Lady Gaga, John Mayer, i Rolling Stones, i Fleetwood Mac e tantissimi altri. Rico ha anche svelato ai due artisti salernitani che proprio quel banco è servito a Paul McCartney per mixare alcuni suoi lavori.
La “vieille dame” quindi non ha condiviso solo vari momenti del percorso dei Daft Punk ma ha anche avuto un ruolo importante nella produzione di molti dischi di artisti che hanno segnato la storia della musica. Ora proseguirà la sua attività in Italia nello studio di Dissonanze Records.
CHI SONO I FIORI DI CADILLAC
I FIORI DI CADILLAC nascono nel 2010 a Salerno come trio ma attualmente nella formazione ci sono due persone, Luigi Salvio (1986) e Valerio Vicinanza (1988). Il nome d’arte è ispirato a Cadillac Sur Garonne, un paesino francese dove, durante il regime filo-nazista di Vichy, sono state sepolte più di quattromila persone ritenute “diverse”, pazzi per alcuni, fiori rari per la band che a loro, come a tutte le persone che custodiscono preziose diversità, dedica il proprio nome.
La musica dei Fiori di Cadillac è prodotta attraverso un pianoforte, suoni sintetizzati, una chitarra e una batteria. Sul finire del 2013 il gruppo pubblica l’album d’esordio, “Cartoline”, al quale segue un lungo tour in club e festival nazionali. Nel 2017 comincia il lavoro di stesura del nuovo album insieme a Giulio Ragno Favero.
Al disco collabora anche Andrea Suriani che affianca Favero nella produzione e nel missaggio. In questo periodo i Fiori di Cadillac firmano per INRI che, nei primi mesi del 2020, pubblica il loro secondo album, “Fuori dalla storia”. Archiviato presto il disco per l’emergenza Covid, il duo, dopo un periodo di pausa, inizia a produrre nuovi brani sotto la direzione artistica di Frank Sativa e si rifà vivo ufficialmente nel 2023. Nel 2024 la continuità data alla pubblicazione di nuova musica porta all’uscita del loro terzo album, “Stranieri” (Boc Music Group).
In parallelo alla loro attività di musicisti, dal 2013 i due gestiscono Dissonanze (DSSZ CLUB), music club che hanno fondato e che, negli anni, ha ospitato molti artisti indipendenti di rilievo nazionale e internazionale.