Ciao Clemente, in occasione dell’uscita del tuo EP “Sfumature” ti presento al pubblico di Indielife.it. A partire dal singolo di annuncio dell’EP, “Vola sopra i tetti la notte” ha il gusto di una fiaba raccontata sottovoce, qual è la sua storia?
Fantastico. Credo sia esattamente questo. È una favola. Perché succede inaspettatamente, come la svolta di una trama. Questa canzone nasce ancora così distante dalle dinamiche mie di oggi. Nemmeno dal punto di partenza di una canzone. Era il periodo in cui studiavo in Danimarca per lo scambio universitario, non avevo indizi chiari sul da farsi ed era un periodo in definizione, tra ritorni a casa e ancora tanti punti d’intreccio con il nord.
Però tornare portava sempre con sé una sensazione unica, stranissima. Perché mi sentivo sospeso, senza potermi appoggiare realmente a terra, pronto a ripartire e allo stesso tempo così legato al mio posto magico.
Metto le mani sul piano e inizio a sentire un suono fatto di delicatezza. Poi è uscita così, “Vola sopra i tetti la notte”. Con la V marcata, come il sospiro del vento che sa farti volare e può anche isolarti e farti sentire solo. Mi serviva cantarla e appoggiarci sopra tutto il mio peso. Così è nata questa favola. È rimasta casa mia per un po’ di tempo, fino a che non ho trovato una maturità per la sua realizzazione. Pronta ad essere casa dei pesi e dei pensieri di ciascuno.
Quali sono le tue influenze musicali, italiane e non, e quali brani ascolti in questo periodo?
Per me la musica non è mai stata Accademia. Ripeto, per me. Non si è mai trattato di un quaderno da lode, coeso, coerente e ordinato. La musica è sempre stata compagna. Io li chiamo luoghi, momenti e persone: i tre elementi della musica.
Ho ascoltato un po’ tutto e un po’ niente. Canzoni che mi colpivano come fulmini o come baci. Se c’è un artista in particolare in cui mi sono completamente tuffato, questo è Tom Rosenthal: bellissimi i suoi racconti.
Ultimamente sono un piccolo fan di Vasco, per quel che riguarda la musica italiana. Sto scoprendo certe perle di un artista che non avevo mai conosciuto e che stanno diventando colonna sonora di questi ultimi mesi. So praticamente a memoria l’ultimo disco di Calcutta, che va cantato a squarciagola. E altri grandi che mi illuminano sono Giorgio Poi, Gazzelle, Fulminacci e menzione speciale, Apice: che penna incredibile la sua!
Tornando all’EP, a leggere i tuoi testi sembra, a tratti, di leggere poesie, quanto e quale letteratura influenza la tua scrittura e la tua percezione del mondo?
Questa risposta in realtà riprende quella precedente. Non sono troppo convinto che i miei testi vengano da ispirazioni letterarie. Nei libri, certo, ho colto la dimensione del racconto e del suo sviluppo e probabilmente l’immaginazione dei paesaggi narrati, che legano la mia musica alla dimensione del viaggio. Ma le parole hanno trovato sempre un vero significato dalla vita vissuta, come richiamo a qualcosa di ben specifico a cui voglio riferirmi, e piuttosto nella mia testa le parole sono incastri ritmici e musicali importantissimi. Nascendo come batterista, una parola è molto importante per i suoi accenti e le sue cadenze.
Qual è il dietro le quinte di questi versi? “Credere che forse c’è, c’è del tempo che mi manca mancherà, che ritorna sulle cose di città, a tutti i santi che ho sognato nella notte quando ho chiesto come fosse fare quello che ci va”
“Diverso” è una canzone fondamentale nell’EP. È il punto di svolta. Per questo motivo si trova a metà. E alla sua metà esatta c’è un momento di sonorità cupe e confuse, dirette verso un chiarore in lontananza che arriva e porta tranquillità. Questi versi riportati precedono esattamente questa situazione musicale descritta. Sei versi che potrebbero essere risolti in un solo ed unico punto di domanda. Quando si fa qualcosa che può essere inteso come eccedente, non indispensabile, come qualunque forma creativa e artistica, sorgono infinite perplessità di fronte all’azione del fare e dell’agire.
Forse siamo una minoranza, ma non ne sono così certo. È tanto scontato quanto infinitamente difficile porsi di fronte agli altri come “quello insicuro”, “instabile”, e più abbondante di domande che di risposte. Però trovo che le risposte ci servano a delimitare uno spazio di comodità e a metterci il cuore in pace, le domande invece sono temerarie e coraggiose, perché lo spazio di risposta è direttamente proporzionale alla profondità in cui si trovano.
Questi versi dicono questo. Il tempo è il tempo dell’indagine. Indefinito. Relativo alla dimensione della ricerca che si vuole affrontare. Le cose di città possono sembrare le cose comode per chi ci è nato e cresciuto, mentre per me che vengo da una dimensione esterna, sono il mio mettermi in gioco, come le città in cui sono stato e che mi hanno preso e dato.
“I santi” sono quello spazio di mistero, di fede, comunque sia, sono la dimensione oltre a noi umani, che ha a che fare con gli abissi e le altezze.
E infine una chiusura speranzosa che abbandona questo peso gigantesco e come un bambino di fronte a un gioco dice: “Lo faccio per fare!” senza pretese da me e dagli altri. Come se fosse la risposta più semplice del mondo ma che forse non scopriremo mai.
“E se io corro solamente dietro ciò che ritengo Vitale Utile” cos’è per te “vitale” ed “utile”?
Per me è questo. In realtà sono convinto che quello che chiamo prima “eccedente” o “non indispensabile” in realtà sia estremamente utile e vitale. È così, oggi siamo immensamente legati all’eredità di una storia molto antica. La vena ancestrale in noi è il sentimento umano. Una volta tolto il sentimento non resta più nulla. Si diventa numeri, schemi, e elementi disumani. Se mi guardo attorno oggi vedo solo questo tremendo disastro.
Per fortuna esistono le canzoni e la speranza che un’opera artistica sia una forza maggiore, che nell’individualità di ciascuno tenga viva un’emozione. L’empatia è una forza vitale che incendia il cuore e non può che detestare la violenza. L’apatia invece è paurosa, è nemica di tutto questo, ed è amica delle macchine e dei numeri.
C’è un mood dolceamaro nella musica e nel testo di “È che…”, com’è nato questo brano?
“È che…” è un canto di gioia che finisce con tre puntini. È dolceamaro perché per vivere le cose belle bisogna essere pronti in toto. Prima e dopo averle vissute. E servirebbe l’esperienza del monaco più saggio per mettersi il cuore in pace anche quando la vita è così palpitante. A me le cose belle hanno lasciato tutti gli ingredienti della meraviglia e della nostalgia. Nasce sempre lì. Nei luoghi, nei momenti e nelle persone della mia vita. Questa si, è dolceamara.
E tornando a te, quali collaborazioni vorresti fare e su quali palchi vorresti farti conoscere?
Io sono ancora qui, sognatore che non cresce. Sempre con i piedi un pochino staccati. Sui palchi! Voglio suonare su tutti i palchi adibiti ad ascoltare e vivere la musica. Per questo, se posso dire, lo spazio più giusto, credo siano i teatri. Ma l’importante, come dice Pietro (che è con me passo a passo in questo mio progetto), è suonare. Cantare e suonare. Che se lo fai per quello poi il posto si adegua da sé.
Così anche le collaborazioni, se una voce può suscitare qualcosa, chissà due voci, tre o più voci insieme cosa possono generare. Qualche idea è già in definizione ma niente indizi, parlerà la musica. Mi piacerebbe tanto collaborare con altre persone, quindi se fate musica e sentite che le nostre corde vibrano vicine, io sono qui.
Un saluto
Grazie di avermi dato spazio per raccontare anche qui un po’ di me e un po’ del mio progetto musicale. Per me è utile e vitale, sono pieno di idee e fremo per creare e realizzarle una ad una. Ci sentiamo presto ovunque, anche sopra i tetti la notte, spero!
Baci, Clemente
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