Il 25 marzo è uscito il terzo album di Serena Brancale, Je so accussì, per Isola degli artisti.
Un progetto che racchiude un po’ tutta Serena. Ci sono grandi featuring, omaggi al suo artista preferito, i suoi generi, i suoi luoghi e le sue donne del cuore.
Il nuovo disco è stato anticipato da due singoli, “Je so’ pazzo“, omaggio all’intramontabile Pino Daniele, in featuring con Richard Bona e “Pessime intenzioni”, cantata con Ghemon.
Insomma, la talentuosa cantautrice barese, distaccandosi volutamente da una ferrea etichettatura di genere, ci dà la possibilità di entrare nel suo mondo e conoscere molto di sé e della sua musica.

Il talento di Serena, poi, non è certo un segreto.
Ricordiamo che, dopo la partecipazione al Festival di Sanremo del 2015, dove ha presentato il brano “Galleggiare” dall’omonimo album, conquista palchi e riceve ampi consensi da parte di grandi personalità del mondo della musica, divenendo una delle cantanti più riconosciute nell’ambito della musica soul/jazz italiana.
Serena non si ferma qui. Con il nuovo album ammalia anche Quincy Jones, che rimane felicissimo di “Je so accussì“, dandole, ufficialmente, il benvenuto in famiglia.
Intervista a Serena Brancale, “Je so accussì” (e non ho paura di mostrarlo al mondo)
Serena mi ha accolto durante l’intervista con un sorriso che illumina la stanza e il tono amichevole di chi ti conosce da sempre.
Era da tanto che non mi capitava di ascoltare un album e di trovare belli tutti i pezzi al suo interno. Dopo aver conosciuto Serena ho capito che il suo nuovo disco non è l’unica cosa ad essere bella e potente.
Quindi – dopo qualche scambio di consigli tra donne e un dibattito su quale sia l’orario giusto per l’aperitivo – iniziamo a chiacchierare di Je so accussì.
Siamo partiti da “Galleggiare”, siamo passati per “Vita da artista” e siamo arrivati a “Je so accusì”. Tre tappe di un percorso. Come ti senti cambiata? Cosa senti sia diverso in questo nuovo album?
In tutto.
Sono più cosciente, più ordinata nei pensieri, in quello che voglio dire e nei testi.
Questo è il primo album in cui ho co-scritto e ho collaborato con altri produttori. Sono entrata a far parte di un management diverso, Isola degli artisti, e ho un manager, Carlo, che mi ha ascoltata tanto tempo prima di entrare in studio a scrivere pezzi. Mi sono sentita capita e sentivo che partivamo dalla stessa linea.
È proprio in questa fase che abbiamo pensato cosa cantare: Bari, l’omaggio a Pino, un genere che non è jazz, non è soul, ma è qualcosa che fa parte della mia identità e non per forza deve essere etichettabile.
C’è stato maggior ordine anche nella struttura e stesura dei brani, siamo andati per step. Prima abbiamo registrato in trio acustico, partendo sempre da una base di scrittura legata al jazz live, dopodiché tutti i brani sono stati portarti in post-produzione, dando un vestito più nu-soul e più moderno ai pezzi. La terza fase è stata aggiungere il featuring giusto rispetto alle canzoni.

E a proposito dei featuring… Come sono nate queste collaborazioni che si inseriscono perfettamente nel disco?
C’è stata un po’ di fortuna, un po’ di casualità e sicuramente un grandissimo rapporto di stima con tutti gli artisti.
Tutte le voci che senti non sono state studiate a tavolino o contattate dal management, ma sono persone che io ho chiamato in prima persona perché stimo. Margherita è una mia amica, Rochelle, Richard Bona, Ghemon, sono tutti artisti con cui sono entrata in contatto basandomi su stima reciproca e.. sui social!
Può far ridere, ma è proprio così infatti che ho potuto conoscere e poi stringere delle amicizie e dei rapporti con molti artisti di talento. Pensandoci forse questo album si dovrebbe chiamare “Je so accussì… Anche grazie a Instagram“.
“Je so accussì” l’ho trovato speciale perché racchiude un po’ tutta te. Come dicevamo prima, canti un genere tutto tuo, tra il soul, jazz e R&B, canzoni girl power, ma anche casa, Bari e il suo dialetto, il Sud, Pino Daniele che rimane per te IL modello. È stato difficile mettersi così “a nudo”? Parliamo dei temi principali.
No, non è stato difficile, ma non è stato immediato.
Prendevo coraggio mano a mano che scrivevo i brani. Il primo pezzo è stato “Je so accussì” ed è stato una chiave importante perché mentre scrivevo in dialetto ho capito che la cosa poteva funzionare.
Dovevo fare come Pino Daniele, che è, per questo motivo, il perfetto omaggio in questo album. È stato il primo che ha fatto questo esperimento: usare la sua lingua per cantare la sua terra. C’è un rimando a lui in qualsiasi dettaglio, anche nel titolo.
Fondamentali sono stati i feedback in questa fase, perché ero dubbiosa sul dialetto barese, non sapevo quanto avrebbe atticchito. Però poi la cosa che veniva fuori è che io ero veramente me stessa cantandolo; anche cantarlo sul palco mi veniva facile.
Dentro c’è quindi la Puglia, la mia terra, ma anche le mie donne, mia mamma e mia sorella.
La figura della donna la canto sempre pensando a mia madre e a quanto sia stata importante nella mia famiglia, era lei il capo. Mi piace cantare la bellezza delle donne nelle cose semplici: la donna che si tocca – che basta con sti tabù! -, la donna che cucina, la donna che piange. La donna che, alla fine, è forte nella vita di tutti i giorni, nei piccoli gesti.
Soprattutto negli ultimi anni – forse per gli eventi difficili che abbiamo vissuto o perché abbiamo avuto più tempo per riflettere – si parla di più di accettazione di se stessi nella musica. Je so accussì è un inno che dice “amami per quello che sono”. Tu pensi di essere scesa a patti con quello che sei, di esserti accettata come artista e come donna?
Io penso di sì in generale, al di là delle cose del quotidiano, momenti di gelosia o sconforto. Non siamo ovviamente ogni giorno uguali.
Nella musica mi sento sempre più sicura e tranquilla. Poi figurati in questo momento che è uscito l’album, mi sento alla grande, come Lady Gaga!
Forse, l’unica cosa che cambierei di me è la capacità di lasciarmi andare: sono molto riflessiva, mi faccio un sacco di problemi, anche se poi da fuori, mi vedi, non sembra.

Beh, non ci resta che parlare di Quincy Jones! So di un video in cui ti dà il benvenuto in famiglia.
Quincy Jones che vorrei conoscere e arriverà il momento in cui lo conoscerò. Quando ho ricevuto il video ho pianto, non ho dormito!
Tramite Richard ha ascoltato l’album, gli è piaciuto un sacco, soprattutto il mio omaggio a Bari. Mi ha fatto questi complimenti stupendi in cui mi dice: “Benvenuta nella famiglia Quincy Jones“.
Quindi, io spero di incontrarlo presto, aspetto che lui mi inviti, perché penso sia giusto così. Rimango intanto in attesa, con una collaborazione aperta, un brano che gli è piaciuto tanto e un bellissimo video.
In questo album ci sono tante parti singole che però compongono un’unità. Quali sono i piani futuri di questo piccolo “scrigno”?
Dipende sempre da cosa accade, ma per almeno un paio d’anni vorrei portarlo in giro dappertutto.
Perché ci sono tutti i caratteri giusti per portarlo all’estero, per cantarlo nelle piazze italiane, come nei festival jazz, nei teatri – che io amo per il contatto col pubblico che si crea all’interno -, ma anche in tv, perché ha diverse anime e tematiche.
Continuerò sicuramente a scrivere, ma ora voglio cantare, voglio anni di live.