Sapevo sarebbe stato difficile, ma non pensavo così tanto. Maledizione!
Ho appena aperto la porta e già ho voglia di scappare, ci metterò una vita. Abbiamo seppellito papà appena due giorni fa, l’ho rivisto disteso in quella bara dopo vent’anni. Ho ascoltato il mio cuore, ho seguito la mia strada battendo la porta ed insultandolo quando la giovinezza e la stupidità regnava sovrana nella mia mente.
A ricordarmi tutto questo c’è la mia foto, con la maglietta della squadra e il pallone a spicchi su una mano. Appena entrato e già il mio povero papà mi prende a pugni. Non ha mai approvato la mia passione per il basket, mi voleva nell’arma proprio come lui e mio nonno, ed ora trovo la mia immagine sul mobile in corridoio. Ricordo quando mi è stata fatta.
Era l’ultima partita, avevamo vinto il titolo dopo una serie estenuante a Los Angeles, vincemmo per due punti con un tiro da tre del sottoscritto proprio sulla sirena. Un classico in questo sport. Un fotografo italiano mi chiese se poteva immortalare il primo connazionale che aveva vinto il titolo NBA. Due secondi dopo lo scatto, quell’omone di due metri e venti che risponde al nome di Sloan, mi faceva il bagno con lo champagne e mi prendeva in braccio. Quella foto fece il giro del mondo, ma credo che il video del gavettone con lo champagne superò i confini terresti. Ero in America già da un paio d’anni e mi stavo facendo il mazzo per farmi apprezzare e dimostrare il mio valore in mezzo a quelle stelle. Il livello di gioco è altissimo e per chi viene dall’Europa, l’impatto è tremendo.
Ricordo che pensai proprio a mio padre quando vincemmo quel titolo per merito mio, pensai a lui e come mi ero vendicato delle sue parole e delle sue errate previsioni.
“ il basket non ti darà mai un futuro, in America sono dei campioni non prenderanno mai sul serio un giocatore italiano come te”.
Quelle furono le ultime parole di mio padre, nell’ultima litigata. Avevo appena accettato il provino per la squadra di Treviso. Avevo comunicato quella che per me era la notizia che attendevo da una vita, durante un pranzo domenicale. Non mi aspettavo i salti di gioia da parte sua, non l’aveva mai fatto, ma almeno una pacca sulla spalla.
Quel provino mi avrebbe, come poi è successo, permesso di approdare nel fantastico mondo del basket professionistico. Certo non era l’NBA, ma da qualche parte dovevo iniziare. Niente di tutto questo accadde, mio padre si limitò a poggiare il bicchiere di un vino rosso siciliano che stava bevendo e mi disse semplicemente che stavo perdendo tempo come al solito. Avevo passato tutta la vita con mio padre, mia madre era morta quando avevo solo tre anni e lui era diventato tutto il mio mondo.
Ora capisco il suo atteggiamento, voleva solamente il meglio per me e nella sua mentalità, il basket non lo era. Non dava fiducia a quello che non capiva e la pallacanestro era una di quelle cose. Ma il quel momento, in preda all’euforia e pieno di anni di discorsi sulle cose importarti, mi alzai di scatto e gli scaricai tutta la mia rabbia condita di insulti che adesso riecheggiano nella mia testa come spiriti maligni che vogliono divorare la mia anima.
Sbattei la porta e me andai per sempre, il giorno dopo presi il treno per Treviso dove giocai per cinque anni. Dopo fui scelto per la squadra dei Toronto ed approdai nella mia personale versione di paradiso. Covai per anni il rancore e la rabbia per mio padre, non cercai mai di ricontattarlo.
Sono stato sempre un tipo testardo ed orgoglioso, proprio come mia madre. Ora mi chiedo come ha passato tutti questi anni da solo in questa piccola e solitaria casa. I miei cugini si sono goduti mio padre, molto più di me. Ovviamente il resto della famiglia mi odiava, ero lo stronzo che aveva fatto i soldi e si era scordato della famiglia. A pensarci bene ora, forse avevano ragione. Ormai è troppo tardi, loro continuano ad odiarmi e mio padre è sotto un paio di metri di terra.
Al funerale ero seduto da solo in prima fila davanti alla bara, tutti gli altri si erano allontanati e gli unici che mi rivolgevano la parola erano il prete e i ragazzini fuori dalla chiesa che volevano un mio autografo. Chiudo la porta e mi dirigo verso la camera da letto, dentro al cassetto del comodino ho trovato due gagliardetti, quello della mia vecchia squadra e quello della squadra attuale. Un altro pugno allo stomaco. Grazie papà!
Il letto è perfettamente in ordine, come il resto della casa. Nonostante l’età non era cambiato di una virgola, il classico pignolo ossessionato dall’ordine e dalla pulizia. Inizio a costruire con il nastro adesivo, i pacchi che mi sono portato. Faccio un lungo respiro e comincio a mettere dentro tutto quello che resta di mio padre. Nonostante gli anni passati ad odiarmi, i miei cugini non hanno obbiettato e mi hanno lasciato da solo a fare questo struggente compito. Dal loro punto di vista, questa è la giusta punizione che il loro amorevole zio vuole infliggermi.
I loro calcoli sono giusti, faccio fatica e probabilmente mio padre si starà divertendo, ovunque sia in questo momento. Ogni oggetto mi riporta indietro nel tempo, mi ricorda una vita che avevo completamente scordato. In America è tutto così bello, moderno e grande che è facile dimenticarsi delle piccole cose che abbiamo qui in Italia. Il calore di un esile appartamento per esempio, sono cose che nelle grandi metropoli oltreoceano raramente si possono sentire. Ho già messo via tutti i suoi vestiti, li porterò alla chiesa. Ora devo mettere via tutte le foto che sono sparse dentro i cassetti e suoi mobili. Ma devo riprendere fiato, ogni foto è una parte del mio passato che torna ed a me serve una dose massiccia di coraggio.
Guardo l’ora sul mio orologio costato diecimila dollari, è l’ora di pranzo e il mio stomaco lo conferma. Entro in cucina in fondo al corridoio, anche qui non è cambiato nulla. Un piccolo tavolo in legno di castagno attaccato alla parte di destra, il frigorifero alto e bianco con tante calamite attaccate ed un televisore di appena venti pollici, vicino alla porta. Decido che le calamite le porterò tutte a Chicago, sono perfette per il mio grande e grosso frigo ultramoderno.
Rappresentano tutte le città, italiane e straniere, che ha visitato mio padre e mi miei cugini. La parete sinistra è coperta dal lungo mobile che ospita il lavandino, i fuochi e molti cassetti che mio padre ha riempito con gli oggetti più disparati. Mi guardo intorno, sul tavolo vicino alla frutta messa al centro, trovo il telecomando. Decido di accendere la tv, il telegiornale di metà giornata inizia a snocciolare le notizie più importanti. Ascolto distratto mentre guardo nel frigo e nei mobili sopra il lavandino alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Sembra che mio padre abbia voluto, a sua insaputa, lasciarmi un gran bel regalo.
Nel frigo trovo un pezzo di guanciale, una confezione di uova ed una bustina di pecorino romano. Fanno la loro comparsa, davanti ai miei occhi, anche un pacco di spaghetti e un barattolo di pepe tritato. La carbonara era il suo piatto preferito e lui era un fenomeno a cucinarla. Dove vivo io, nonostante la grande maggioranza di connazionali che hanno aperto tanti ristoranti, non si trova una carbonara decente neanche a pagarla oro. Un dolce sorriso si disegna sul viso mentre prendo la pentola, la riempio d’acqua e la metto sul fuoco. Apro il frigo e inizio a tagliare il guanciale, lo faccio a piccoli cubetti proprio come mi ha insegnato lui. Poi è la volta delle uova, ne spacco un paio e le iniziò a sbattere con vigore. Uno dei piatti più buoni che c’è nella cucina italiana e anche uno dei più veloci nella preparazione.
Il telegiornale è concluso e a breve inizierà la quello sportivo. Inizio a fare un po’ di zapping, non mi va di sentire le notizie sportive, tanto meno quelle che mi riguardano. Trovo il canale scientifico, e inizio a vedere un documentario mentre dei gustosi spaghetti fumanti mi chiamano dal piatto. Il documentario naturalistico finisce e lascia il posto ad uno storico sulla seconda guerra mondiale.
Erano i preferiti di mio padre. Decido di alzarmi e di prendere la sua foto che si trova sul mobile in corridoio. Quell’immagine lo ritrae in alta uniforme, quel giorno d’estate aveva ricevuto un importante encomio dal Presidente della Repubblica in persona. Faceva molto caldo, mio padre sudava dentro la sua pesante divisa ed io avevo appena undici anni. Quello stesso pomeriggio, nel piazzale del ristorante, riuscì a rovinare il vestito nuovo giocando a pallone con i miei cugini. All’epoca c’era ancora tanta innocenza e ci volevamo bene come fratelli. Mentre la voce calda del narratore inizia a spiegare come la resistenza cercava di contrastare i nazifascisti, prendo la forchetta e la giro tra i spaghetti prima di portarla alla mia bocca.
<<Alla tua papà, ovunque tu sia. Grazie di tutto!>>
Immagini prese da Google immagini
Clementi Simone