Soli con SOLO: un’intervista psichedelica

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In occasione dell’uscita del suo nuovo singolo “Don’t shoot the piano player (it’s all in you head)” abbiamo fatto qualche domanda all’artista SOLO.

SOLO, tre aggettivi che ti descrivono e uno che ti contraddistingue, ma che ti vergogni un po’ a confessare e tieni segreto. È il momento della verità!

Domanda difficile: non credo di essere in grado di descrivere me stesso. Sicuramente direi “creativo” (la qualità delle mie creazioni la lasciamo valutare agli altri); “sensibile”, di sicuro; “fragile” (è un un po’ un dito in culo, ma non me ne vergogno né lo tengo nascosto).

L’anno scorso pubblicavi il tuo primo singolo con il nome SOLO. Una sperimentazione sonora che si avvicina più alla musica concreta che alla musica per il mercato. Di tempo ne è passato: quante cose sono successe in questi mesi, e quanto ti senti cambiato da allora? Il tuo nuovo singolo sembra andare in una direzione diversa…

In realtà, a livello compositivo, io cambio sempre approccio. Non perché lo voglia, ma perché, ascoltando un sacco di cose, in base al periodo, e in base agli ascolti, mi sento influenzato da stili differenti. Di sicuro, il leitmotiv che lega i miei brani è l’approccio psichedelico, che poi può sfociare in psichedelia pura o vestirsi di dream pop, art rock, shoegaze. Quindi, ti direi che non mi sento molto cambiato, ma cambio. Almeno, dal punto di vista compositivo.

“Don’t shoot the piano player” è un brano old school, che oggi sembra voler recuperare sonorità vicine agli anni Sessanta. Qual è la direzione dell’evoluzione della musica di oggi, secondo te? E cosa vuol dire per te recuperare quel tipo di sonorità?

Più che “recuperare”, sono sonorità che a me piacciono, quindi non valuto la cosa in base ai tempi che corrono: lo faccio per gusto, non per una scelta premeditata. E, come me, tanti altri musicisti fanno le cose perché le “sentono”, non forzandosi: il senso dell’arte è quello, insieme al tentativo di innovazione e sperimentazione di nuove forme comunicative (e sottolineo “comunicative”, perché la musica, al di là del testo, è una forma di comunicazione, cosa che, purtroppo, capiscono in pochi, soprattutto in Italia, perché non si fa formazione, in quel senso). Quello che vedo, guardando al mainstream (o alle band che tentano il salto all’interno del circuito mainstream), è un po’ un livellamento dell’offerta, un appiattimento della differenziazione di prodotti: molti musicisti provano a cavalcare l’onda del successo di altri artisti, e si forzano nello scrivere brani tutti identici gli uni agli altri, guardando solo alla moda del momento, fregandosene di essere personali. È la corsa al successo, così come ci ha insegnato la società in cui viviamo. Ma non è arte: è marketing. È un approccio non troppo diverso dallo scrivere musiche su commissione per le pubblicità: è la vittoria della standardizzazione e dell’omologazione a cui la società capitalistica ci ha abituati.

“It’s all in your head”: cosa si nasconde, secondo te, nelle teste di ognuno di noi? Che cos’è quella cosa che “è tutta nella nostra testa”?

L’idea del sottotitolo si rifà, più che altro, a una visione solipsistica del mondo: quello che percepisci è dovuto al tuo vissuto, non è univoco ed è diverso da persona a persona, perché ognuno di noi ha un vissuto differente e, di conseguenza, una personalità (fatta di credenze e ideali) differente. Dall’altro lato, c’è l’idea di “schizofrenia” che con il brano cerco di comunicare, la visione che abbiamo del mondo distorta dalla nostra percezione. Le due cose collimano: come lo schizofrenico reinterpreta il mondo secondo la propria patologia, così, ognuno di noi, lo reinterpreta secondo la propria personalità. Di fronte a una persona di colore, ad esempio, ci sarà chi proverà odio, chi proverà indifferenza, chi proverà compassione, chi proverà altro. Perché? Perché ognuno di noi è stato influenzato da fattori differenti, che possono essere paura, normalità, attaccamento. Il passo per avere una visione quanto più possibile realistica del mondo è mettere in discussione i propri credo, cercando di capire da dove derivano, da cosa sono stati influenzati e come sono entrati a far parte del nostro bagaglio emotivo, e cercare di smontarli.

Anche il videoclip del brano è piuttosto lisergico. Ci racconti come è stato realizzato?

Sul video non ti posso dare molti dettagli, perché non l’ho fatto io, e il regista che l’ha realizzato è molto restìo a palesarsi: sarà per la prossima! (ride).

Domanda a bruciapelo, altamente scomoda. Fenomeno playlist: espressione dell’eccellenza o mero strumento di controllo del mercato e di manipolazione (passami questo termine forte, su…) dell’ascolto? Se la nostra generazione è così pigra come dicono, non potremo che diventare carne da “riproduzione casuale”. In tutti i sensi. 

Mah: più che “controllo del mercato” direi “contentino”, per tutti i musicisti che si sentono, in questo modo, “arrivati”. Prima c’era bisogno del vaglio di un’etichetta, perché il tuo prodotto arrivasse a farsi conoscere (sempre se non consideriamo i circuiti DIY e indie, quando il termine “indie” voleva ancora dire qualcosa); ora basta pagare un distributore. Quindi, probabilmente anche il mercato c’entra, ma non è legato alla vendita del prodotto, bensì all’acquisto di servizi, che è tutt’altra cosa. E il compratore non è il fruitore, ma il produttore: in effetti è una cosa che fa un po’ ridere. Ascolto pareri contrastanti sull’utilizzo delle playlist: c’è chi le utilizza per scoprire nuova musica per poi andarsi ad ascoltare gli album interi degli artisti che li colpiscono, e questo è un approccio sano e interessante. Ma quanti lo fanno? Non saprei. Però il problema, in questo senso, non sono le playlist in sé, ma l’approccio che alle playlist si ha (come anche con i social: fin quando li usi in maniera oculata, vanno bene, per quanto mi riguarda). Il dilemma sorge nel momento in cui le playlist (o i social) influenzano le modalità di fruizione del servizio. Ma non ne ho grande esperienza diretta, quindi non posso darti una risposta articolata.

E della musica di oggi? Esiste secondo te un underground resistente? Intendo dire, un ulteriore sottobosco, nell’era in cui il sottobosco è diventato il mainstream? Perché, in qualche modo, mi pare tu faccia una musica diversa, rimasta underground nella mentalità…

Sinceramente, rispetto alla mia musica, non mi pongo proprio il problema: faccio, prima di tutto, quello che mi sento di fare. E manco mi interessa andare a finire all’interno del circuito mainstream, anche perché sono cosciente del fatto di non poterci andare a finire, con la musica che faccio. Per quanto riguarda le band “underground” di 10-20 anni fa che sono diventate “mainstream” negli ultimi anni, devo dire che la trovo un po’ triste come cosa; non perché siano diventate mainstream, ma perché stanno facendo musica che non mi piace. Molte band validissime che seguivo (non facciamo nomi) ormai non riesco più ad ascoltarle (pur continuando ad amare i loro primi album). Potrei citarti i Muse, fuori dall’Italia, sebbene loro possa capirli molto di più, visto che, prima di tutto, partivano già come band da palazzetto; quindi, hanno ben pensato di fare il salto paraculo per riempire gli stadi. In Italia si fa la “paraculata a metà”, nel senso che non ci si mette a fare la musica dei Negramaro (per fare un esempio), si tenta una strada “a metà”, nel tentativo di preservare la propria credibilità all’interno del circuito “underground”, ma cacciando fuori dei prodotti che trovo poco interessanti (forse ci sono riusciti solo I Ministri). Per quanto riguarda il “sottobosco”, credo ci siano un sacco di artisti validissimi, in circolazione. Ma gli si dà spazio? Troppo poco, se non nullo. Detto ciò, secondo me dovremmo più che altro interrogarci sul ruolo che ha la stampa di settore, che invece di andare a scoprire nuovi artisti, preferisce pubblicare sempre le solite cose, per accaparrarsi click. Anche se capisco che, anche in questo caso, è difficile stare dietro alla mole di prodotti che giornalmente escono. Però, insomma, hai scelto tu di fare il giornalista musicale: fallo come si deve. Basta parlare di Sanremo: quello facciamolo fare alle riviste generaliste.

Vetrina musicale: consigliaci un tuo personale disco “pietra miliare”, un disco emergente da scoprire e un artista che live non possiamo perderci (quando i gabbioni riapriranno). 

Beh, come “pietra miliare” non posso che citare “Revolver” dei Beatles: parte tutto da lì, un album di mezz’ora dove ogni brano è diverso dall’altro; pregno di sperimentazioni di ogni genere e, al contempo, così melodico: senza “Revolver” la musica, come la conosciamo oggi, non esisterebbe, dai Pink Floyd ai Radiohead. La parola “emergente” non mi piace (“Emergente” da dove? E verso dove? Magari sta bene dove sta): però, vi consiglio tutti i lavori di Antunzmask, in particolare “Al mostro” e “Zero programmi in questione”. Come band live, la prima che mi viene in mente sono i Yokoano, la band di Dani delle Pornoriviste: partono dal punk ma inseriscono, all’interno dei loro brani, elementi metal e progressive, creando un ibrido interessantissimo (in alcuni casi vicino ai Tool o ai System Of A Down). E dal vivo sono una macchina da guerra, oltre al fatto che apprezzo molto la capacità di Dani di cantare e, contemporaneamente, suonare i fraseggi di chitarra: molto complesso e molto scenico, dal vivo.

Salutaci a modo tuo, e facci una promessa che ti potremo rinfacciare di non aver mantenuto.

Vi aspetto tutte le domeniche a messa!

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