Intervista a Samuele Ripani

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Un giovane fotografo ritrattista alle prese con le incertezze della vita

Quando ho incontrato Samuele Ripani, pensavo di fargli alcune domande sui suoi lavori come solitamente accade. In realtà, mi sono trovata ad essere intervistata a mia volta riguardo l’interpretazione che davo ai suoi scatti e a lui in quanto individuo.

Penso che la cosa riassuma con chiarezza il modo di lavorare di questo giovane fotografo che rielabora gli eventi e le negatività della vita mettendosi sempre in gioco e interrogandosi in prima persona senza esser mai sicuro di aver trovato le risposte definitive.

Quale è il tratto distintivo delle tue foto?

Oddio, partiamo già a bomba perché magari la risposta che ti posso dare adesso sarà differente già tra due mesi perché non seguo propriamente un filone.

In generale, cosa faccia di me un fotografo, se così mi si vuole chiamare, non te lo so dire. Mi sono sempre definito “uno che sa come funzioni la macchina fotografica e riesce a fare foto. Fine”.

Sicuramente, un aspetto che cerco di rendere mio è il ‘mood’ delle foto, quindi il cercare di interiorizzare ciò che mi accade fuori, rielaborarlo e poi trasmetterlo attraverso uno scatto.

Mi piace giocare non tanto con la luce ma con il buio.

Allora si può dire che ti piacciono i contrasti forti come il bianco e nero?

Eh no! Ho una repulsione quasi totale per il bianco e nero perché, a mio avviso, si dà troppo per scontato il ruolo del nero.

Nelle mie foto il nero non significa soltanto ‘buio’, ‘scuro’; è assenza di tutto, in particolare nelle foto a colori. Per me, ha un ruolo abbastanza preciso, non proprio studiatissimo, però quasi. Quindi, forse, cercare di non usarlo assolutamente può essere un aspetto che mi distingue dagli altri fotografi.

Definisci il tuo stile incompleto?

Sì, quella penso sia l’unica caratteristica che rimarrà in eterno!

C’è sempre qualcosa che manca, sono sempre alla ricerca.

A proposito di mancanza, le aggiunte grafiche su alcune foto sono il tuo modo per ovviare a questo ‘problema’?

Si tratta, alla fine, di esperimenti perché, per comunicare qualcosa, a volte semplicemente con la foto non ci riuscivo, e allora ho inserito ciò che mi serviva in post-produzione.

Si potrebbe allora dire che la completezza è data dai vari significati che ogni persona può attribuire ai tuoi ritratti?

Mhmm, no.

Purtroppo, come fotografo, sono molto egoista per quanto fuori io non lo sia; anzi oggi mi sento un po’ in soggezione, o meglio, in imbarazzo perché l’attenzione è concentrata su di me. (Questa è però una componente del mio carattere).

Narcisisticamente parlando, nelle mie foto esisto solo io: si parla solo di me, dei miei pensieri o di situazioni in cui sono coinvolto e la cui chiave di lettura è sempre la mia.

Nonostante ciò, sono molto rari i miei autoritratti; anzi, sui social ce n’è solo UNO!

In realtà, c’è un altro scatto in cui io ci sono, ma non mi si vede quasi.

Se mai realizzerò una foto in cui sono ben visibile, se riparlerà tra anni. Forse!

Hai accennato al tuo autoritratto. Me ne puoi parlare?

Finora avevo raccontato me stesso ma sempre con il viso di qualcun altro.

Recentemente, ho sentito il bisogno di apparire seppur quasi completamente nascosto da ‘scarabocchi’.

In quell’autoritratto ho deciso di raccontarmi anche se in maniera abbastanza astratta o per lo meno indiretta.

Ho rielaborato le negatività della vita ‘buttandole’ dentro all’immagine sia per nasconderle, sia per nascondermi a causa della mia bassa autostima.

In questi pochi minuti mi sono praticamente auto-massacrato ma è perché non sto dando un modo preciso e univoco di leggere l’opera; è solo un’interpretazione che mi piacerebbe facessi anche tu.

Da quanto è emerso durante la nostra chiacchierata, penso che i vari segni grafici possano essere letti così: il vortice sulla pancia potrebbe alludere alla stretta allo stomaco che spesso si percepisce nei periodi difficili, il punto interrogativo si riferisce alle domande su noi stessi e sul mondo che ci circonda, la molla sulla fronte può essere legata alle nostre reazioni agli eventi della vita e le ombre o aloni sotto agli occhi possono alludere alla stanchezza ma anche alle lacrime.

Hai parlato di odio verso te stesso negli autoritratti e di aver bisogno di qualcosa di negativo dentro di te per poter fotografare. Alla luce di ciò, pensi che la necessità di agire sul tuo corpo (nella foto) e di coprirlo o nasconderlo sia una sorta di atto catartico?

Sì. Sì-sì-sì. Quella foto l’avrò ritoccata 3-4 volte nel giro di 5 minuti però, quando ho detto “OK, la foto è questa” ero più sollevato.

Prima usavo la fotografia come distrazione, per rilassarmi quando succedeva qualcosa di negativo. Ora, invece, mi sono accorto che c’è proprio la necessità di questa catarsi che comunque non mi soddisfa al 100% perché non mi è ancora del tutto chiaro quello che voglio comunicare con ciascuna foto.

A proposito, avrei anche io delle domande per te:

“In generale cosa vedi dalle mie foto?” e “Cosa hai pensato di Samuele prima di conoscermi, quindi solo attraverso le mie foto?”

Guardando le foto di Barbara, Maria Chiara e Irene sono stata catturata da un senso dell’effimero perché sembrano presenze immateriali.

Lo scopo non mi è sembrato catturare la bellezza delle ragazze quanto piuttosto emozioni e sentimenti.

Per quanto riguarda Samuele come individuo, avendo inizialmente visto solo il tuo autoritratto con gli ‘scarabocchi’, ho pensato fossi una persona tormentata, complicata e con dei lati più cupi, dark.

Ora che ti vedo e che chiacchieriamo, non lo penso. Forse hai solo dato voce al lato oscuro di ciascun individuo.

Ti aspettavi una risposta diversa?

Mah, in realtà, ti ho fatto questa domanda proprio perché non mi aspettavo una risposta particolare. Se sapessi certamente quello che voglio comunicare con le mie foto, magari non avrei nemmeno il bisogno di chiederlo.

Io che, dopo aver fatto una foto, non sono nemmeno sicuro di sapere quello che sto dicendo con il mio scatto, posso solo immaginare cosa una persona esterna percepisca.

Sono contento però che un minimo di messaggio passi, vuol dire che è una lingua che non parlo solo io.

Mi gratifica tanto perché significa che tutto ciò su cui mi sto focalizzando serve a qualcosa!

Link utili: IG: @ripans.ph

English version: Interview with Samuele Ripani

Photo courtesy di Samuele Ripani

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