Tra gli “Inverni” di Pintus ho trovato anche il mio

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Ci sono canzoni che fanno giri enormi, ti si legano attorno al cuore e salgono fino alla testa per poi prendere lo scivolo della lingua e proiettarsi, con naturalezza, verso nuove mete; canzoni che si fanno masticare, sputare e ri-masticare attraverso dentature nuove e stomaci diversi, perché cambiamo costantemente e come cambiamo noi cambiano anche le canzoni, cartine tornasole di significati mutevoli che la parola non riesce ad incastrare nella fissità dell’assoluto – quando le canzoni, ovviamente, sono ben scritte.

Ecco, le canzoni di Pintus mi circondano ormai da un anno abbondante, mettendomi alle strette quando la riproduzione casuale del mio Spotify consuma i suoi agguati alla mia malinconia, oppure quando per scelta personale (e mi capita piuttosto spesso) mi sparo nelle cuffie “Fuori Fase”, “Erisimo” o la meravigliosa versione “live” di “Inverni” che ho avuto il piacere di ascoltare direttamente dalle dita di Francesca ad una manciata di mesi dall’uscita del suo primo disco, quando in una fredda (ma caldissima) sera di dicembre ci siamo divertiti a raccontarci la vita tra le mura accoglienti di La Jungla Factory.

Francesco è uno di quelli che merita il nome che ha. Eh sì, mica facile fare il cantautore, in Italia, e chiamarti Francesco: quanta Storia da sotterrare (per non farsi uccidere dalla nostalgia), quanti Padri da dimenticare, quanta tradizione da tradire si porta dietro questo nome. Poi, ascolti le sue canzoni e capisci che quel nome gli sta benissimo addosso, che lui con la tradizione ha un rapporto di costante dialettica che non smette mai di rigenerarsi, che tra le trame delle sue parole si nasconde un futuro dal cuore antico, antichissimo. E “Inverni” lo dimostra.

Nove canzoni che parlano d’amore, di morte e di altre sciocchezze (come direbbe un altro Francesco…) con l’approccio sincero e schietto di uno che di strade ne ha percorse, senza mai perdere la purezza del bambino e senza mai sedersi sulla posa del turista: il viaggio, come dimensione spirituale che si conquista con il coraggio dell’esplorazione, anche quando “esplorare” significa perdersi in congetture, auto-analisi spericolate, taumatologie personali che non si arrendono alla banalità del farmaco.

Perché la musica cura, ma riesce a farlo solo quando è sincera. Ecco, curatevi con Pintus: lui l’ha fatto con me, e io non potrei essergliene più grato.

Ciao Francesco, capisci bene che intervistarti per me, che ti seguo dai primi passi, sia una soddisfazione non da poco. Allora, io con te vorrei partire dal principio: cosa ha spinto, la prima di innumerevoli volte, Francesco Pintus a scrivere la prima canzone.

È un piacere infatti rispondere alle tue domande. Avevo 18 anni, la musica e la scrittura nella mia vita esistevano già da un po’ ma non avevo mai pensato di metterle insieme, scrivevo poesie, racconti, anche solo pensieri elaborati. Una grossa delusione personale (più che d’amore, perché d’amore si trattava ma forse io ero più deluso da me stesso in quel caso) mi ha spinto a scrivere un racconto in cui il protagonista (io) prendeva le scelte giuste, al contrario di quello che avevo fatto. A metà c’era un periodo che mi suonava musicale allora ho preso carta bianca e partendo da quello ho iniziato a scrivere solo il testo di una canzone, a cui poi ho associato un’armonia e una melodia che già avevo ed è nata “Cobalto”, la mia prima canzone che in questo disco non c’è – ma magari prima o poi la infilo da qualche parte. 

Tra l’altro, qual’è la prima canzone scritta di “Inverni”? E l’ultima, invece?

Sull’ultima vado spedito, è “Sistemi Complessi”. L’ho scritta un mesetto prima di andare in studio quindi inizialmente non era prevista ma mi piaceva molto perché forniva un’idea di me più ironica e non necessariamente “classica” come il resto dei pezzi. Sono felice che ci sia perché spezza molto il mood del disco, è una sorta di intervallo e infatti è circa a metà tracklist. Sulla prima faccio fatica perché molte sono nate nello stesso periodo, ma credo che sia “Patologico”, la suonavo già quando nei live avevo molte cover perché non avevo pezzi a sufficienza (parliamo tipo del 2017) quindi credo sia lei, sì. 

Oggi il termine cantautore credo abbia subito abusi provenienti da tutte le parti, dovuti sopratutto alla totale assenza di consapevolezza riguardo alla storia e all’eredità di un genere che genere non è, e che oggi più che mai necessita di rigenerarsi nei suoi codici e linguaggi. Tu ritieni che oggi basti scrivere canzoni per essere cantautore? E ritieni che la tua possa definirsi “canzone d’autore”?

È un tema a cui tengo parecchio, ma di cui devo ancora farmi un’idea chiara. Io credo che il punto sia che in passato il cantautorato era canzone d’autore, perché banalmente non c’erano alternative. O eri un cantautore, allora per definizione autore impegnato (in accezioni diverse sia chiaro) delle tue canzoni, o eri un interprete, esecutore di canzoni scritte de altri. Oggi tanti più artisti scrivono quello che cantano e quindi le due cose si sono scisse: essere un cantautore non vuol dire fare canzone d’autore. Almeno io provo a darmi questa distinzione per aiutarmi a distinguere chi ha quel tipo di riferimenti e vuole portare avanti quel tipo di discorso rispetto a chi magari scrive la hit estiva ma se la scrive da solo a differenza di 10 anni fa e quindi è “letteralmente” un cantautore. Per quanto riguarda l’autodefinirmi preferirei non farlo, sono certo che provo a farlo, ho quei riferimenti lì, sia passati che presenti, e mi piacerebbe l’idea di essere parte di una nuova generazione di musicisti che senza cascare nel classicone anche a livello musicale si ponga come la nuova leva della canzone d’autore. Ma questo devi dirmelo tu!

Ho apprezzato tutti i tuoi singoli, ma ho una personale predilezione per la title-track del disco, “Inverni”. Sarà che ne hai registrato una bellissima versione acustica in casa mia, a La Jungla Factory, ma la verità è che credo che quel brano abbia una potenza catartica non indifferente, quasi fosse un farmaco necessario alla tua crescita personal.E’ così? Come nasce quel brano?

Il brano è nato in seguito alla scelta del titolo del disco, a sua volta arrivato su suggerimento di un caro amico che veniva sempre ai concerti negli anni dell’università (e che viene sempre anche ora). Una volta lui mi disse “se mai farai un disco mettendo insieme queste canzoni io lo chiamerei Inverni”. Io ci ho riflettuto un po’, ed era così giusto come titolo che mi è venuto spontaneo scrivere una canzone che si chiamasse così e che provasse a centrare il punto intorno a cui ruota tutto il disco. Avevo una sorta di concept nelle mani ma non lo sapevo, quindi devo ringraziare Filippo, quell’idea mi ha aperto un po’ la mente su quello che stavo facendo. 

Sulla parte catartica non saprei, ricordo però che rispetto ad altri brani è stato scritto in una fase più consapevole, quindi si forse la tua interpretazione è corretta.

“Scacco”, invece, è quasi una nemesi (musicalmente parlando) di “Inverni”: molto più colorata, molto più pop. Ecco, ti va di darci la tua definizione di “pop”?

Sì, scacco è infatti figlio di un periodo diverso, più recente, motivo per cui si discosta un po’. Ammetto che così “pop” musicalmente parlando ci è anche diventata in studio, il mio provino era sostanzialmente la stessa canzone ma con delle atmosfere più malinconiche. Io credo che una cosa sia tanto più pop quanto è più larga, in termini umani, territoriali, generazionali. Non mi piace l’accezione di pop legata a quello che si ascolta, secondo me tutte le canzoni si scrivono e poi se saranno pop oppure no te lo dice il percorso che affrontano. 

Ho notato che ti piacciono i titoli brevi, che dove puoi utilizzi titoli di una sola parola. Che rapporto hai, in generale, con i “titoli” dei brani? Domanda strana, ma so che mi hai capito…

Allora, partendo dalla fine ti dico pessimo rapporto, non mi reputo per nulla bravo con i titoli. Il più delle volte quando scrivo un pezzo annoto qualcosa per ricordarmi qual è e spesso resta il titolo del brano perché non ho altre idee. Però sì, la storia del titolo di una sola parola è una scelta, che dove potevo ho portato avanti.  

Dì la verità: stai già lavorando sul nuovo disco?

Sì, certo. Ma non perché io sia un tipo rapido anzi, sono molto lento nella scrittura perché non lo faccio sempre ma solo quando penso che sia il caso. Ma oggettivamente, tra covid e tempistiche discografiche per la pubblicazione, da quando ho registrato questi pezzi sono passati quasi due anni, quindi ho un po’ di cose nuove. Appena potrò mi prenderò qualche mesetto di stop da tutto il resto e capirò che fine faranno.

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