CHI SA ASCOLTARE, HA BISOGNO DI PARLARE

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Primavera inoltrata. Intorno al Colosseo, in una Roma trafficata, lingue parlate in tutto il mondo si mischiano ad espressioni colorate tipiche del dialetto romano. Un quadro giornaliero che non vede crisi in nessun periodo dell’anno. Poco distante, in un vecchio palazzo del’800 al terzo piano, c’è un ufficio arredato in maniera umile e discretamente avviato. All’interno ci sono due donne, una seduta dietro ad una scrivania intenta a scrivere appunti su un taccuino, e l’altra distesa su un lettino impegnata a raccontare la sua vita e soprattutto le sue paure. Nelle pareti che delineano il confine della stanza, due grosse librerie riempite di saggi sulla psiche umana. Una grande foto del celebre psicologo Sigmund Freud, assiste silenziosa alla seduta.

<< Signora Lamberti, mi parli della sua infanzia. Come era il clima in famiglia, quali erano i suoi sogni? >>

La psicologa Giulia Neri formulava le domande e scriveva in maniera automatica e lineare, come un robot in una catena di montaggio. Non aveva espressione ed era totalmente concentrata ad ascoltare chiunque si sedeva sul suo lettino. Il paziente doveva dimenticarsi perfino di lei, doveva sentirsi come a casa sua e parlare a lei come se stesse parlando a sé stesso. Con questa tecnica era riuscita a farsi una buona clientela ed un’ottima reputazione. Sulla scrivania un piccolo laptop chiuso, un porta penne ed una cornice con una foto. Ogni tanto si dimenticava di segnarsi le impressioni sui suoi pazienti ed accarezzava la foto con dolcezza e malinconia.

<< Da piccola ero come tutti i figli unici, viziata e coccolata. Passavo gran parte del tempo con mia madre che lavorava come segretaria nell’ufficio di un notaio la mattina, mentre il pomeriggio era libera di stare con me. Mi portava sempre al parco quando c’erano le belle giornate e la sera cenavamo in cucina e vedevamo sempre i nostri programmi preferiti>>

<< Ha parlato solo di sua madre, suo padre che faceva? >>

La paziente cambiò espressione e rispose frettolosamente, evitando subito l’argomento. Il tutto non passò inosservato alla Dottoressa Neri che alzò gli occhi dal suo taccuino incuriosita. Forse aveva toccato il tasto giusto.

<< Mio padre era sempre in giro per lavoro, tornava per pochi giorni e ripartiva. Per questo stavo sempre con mia madre, ricordo che, soprattutto durante l’adolescenza, ho sempre considerato mia madre come un’amica>>

<< Ho capito perfettamente il rapporto con sua madre, mi parli adesso di suo padre>> intervenne la dottoressa interrompendo la sua cliente e insistendo verso quella che sembrava una grossa ferita. La paziente fece subito scudo diventando di colpo brusca.

<< Le ho già detto che lavorava molto ed era sempre in viaggio. Non voglio parlare di mio padre, non c’era mai con noi per colpa del suo lavoro!!>>

La dottoressa, senza farsi vedere dalla paziente, alzò gli occhi al cielo stizzita.

<< Signora, credo dovremmo parlare di suo padre proprio perché lei alza questo scudo e si rifiuta di parlarne. È venuta da me proprio per questo, se vuole il mio aiuto deve aiutarmi ad aiutarla. Devo scavare nella sua mente per capire l’origine del suo problema>>. La paziente a malincuore iniziò, nervosamente, a parlare del padre.

<< Come le stavo dicendo, mio padre non c’era mai a casa perché viaggiava molto per lavoro>>

<< Che lavoro faceva suo padre, signora Lamberti? >> la paziente divenne sempre più tesa e nervosa

<< Era un pilota d’arei o almeno così credevo fino a sedici anni>>, la dottoressa segnò un appunto sul suo taccuino senza interrompere la paziente ma incentivandola a proseguire.

Padre pilota d’aereo? il centro del problema!!

<< Perché così credeva? Cosa successe quando aveva sedici anni? >>

La paziente iniziò a singhiozzare, anche una persona non laureata in psicologia avrebbe intuito che la signora Lamberti si sarebbe amputata un braccio pur di non parlare del padre. Per anni il padre era sempre stato un’entità sconosciuta da nascondere al resto del mondo, una specie di mostro di cui vergognarsi.

<< Molto bene signora Lamberti. Faccia un bel respiro e prenda un bicchiere d’acqua e quando si sarà calmata un po’, mi parli di quello che ha scoperto su suo padre>>

La paziente fece come suggerito dalla dottoressa e dopo dieci minuti riprese a parlare, tornando indietro con la mente e scavando tra i ricordi che il cervello nasconde in stanze buie e chiuse a chiave.

<< Avevo sedici anni, ricordo che era un pomeriggio di fine novembre ed ero sola in casa. Mia madre era andata ad accudire la nonna malata ed io ero rimasta a casa per studiare. Squillò il telefono e andai a rispondere distrattamente. Era un collega di mio padre, voleva avvertirci che per colpa di una improvvisa bufera di neve nella costa est degli Stati Uniti, avrebbero ritardato il rientro di un paio di giorni. Disse che stava telefonando lui perché mio padre era impegnato ad avvertire i passeggeri. Si definì il pilota dell’aereo. D’istinto gli chiesi se lui pilotasse l’aereo con mio padre, pensai al coopilota, ma la sua risposta mi gelò il sangue. Disse che mio padre non era mai stato un pilota, ma semplicemente un assistente di volo. L’immagine di mio padre con il vassoio in mano a versare caffè alle persone, mi sconvolse immensamente. Chiusi la telefonata e scoppiai a piangere>>

Il pianto iniziò a scorrergli in viso anche in quel momento. La dottoressa prese un pacchetto di fazzoletti e lo diede alla sua paziente, cercando di consolarla. La psicologa Neri, dopo due sedute, aveva capito che tipo di persona aveva davanti e poteva immaginare il suo stupore nell’immaginarsi il padre con il vassoio in mano.

Era cresciuta con l’immagine del padre pilota, un uomo forte ed in carriera. Da sempre rappresentava la roccia, le fondamenta dove costruire la propria identità di donna. Se la mamma era “l’Amica”, il padre era il “Maestro” da cui apprendere i segreti della vita. Ma il pensiero di avere un papà cameriere in volo, sgretolò all’istante quella costruzione psicologica. La signora Lamberti smise di piangere e continuò il suo racconto.

<< Capisce dottoressa, dopo essermi vantata con tutti di avere un padre pilota, mi ritrovavo tutt’altro>>.

La dottoressa sospiro a lungo e cercò di calmarsi. Come psicologo capiva il disagio e cercò di analizzare la situazione per trovare la cura. Ma c’era la parte umana che avrebbe voluto urlargli in faccia tutta la sua rabbia ed elencargli tutti sentimenti che, come tanti aghi infilzati nella mente, trafiggevano e procuravano dolore nella sua vita ogni giorno da due anni. Ma doveva dare ascolto al medico che era dentro di lei. Aveva studiato per aiutare le persone, cercò di calmarla e di spiegargli come quel piccolo fatto di tanti anni prima aveva condizionato la sua vita e fatto nascere la paura di volare.

<< Signora Lamberti mi ascolti bene. È evidente che questo trauma giovanile l’abbia condizionata a tal punto da fargli venire la paura di volare. Secondo me la paura di volare è una maschera, lei ha paura d’incontrare un assistente di volo perché nella sua mente rappresentano la grande bugia ed il profondo distacco che c’era tra lei e suo padre. Provi a superarlo facendo piccoli voli, un’ora o un’ora e mezza al massimo e quando si troverà davanti un assistente di volo, pensi che quel signore o quel ragazzo sta facendo quel lavoro per mantenere una famiglia, per garantire ai suoi figli un futuro migliore. Proprio come ha fatto suo padre che grazie a quel lavoro che lei ritiene “poco nobile” è riuscito a farla studiare. Se lei è diventata un’importante dirigente di una multinazionale americana, lo deve soprattutto al lavoro di suo padre. Questa sua paura le sta procurando problemi seri al lavoro non è vero? Me ne ha parlato nel nostro primo incontro se non sbaglio>> la dottoressa controllò velocemente i fogli precedenti nel suo taccuino, ma era sicura di quello che diceva. La dirigente Lamberti cambiò espressione e cancellò dal viso quell’aria di saccente superiorità. Volse lo sguardo verso la finestra e guardò il vuoto. Si vergognava di quello che aveva pensato in tutto quel tempo dei lavori più umili e soprattutto del padre.

<< Sì dottoressa, questa mia ossessione e paura di volare mi sta procurando dei gravi problemi al lavoro. I capi mi fanno viaggiare molto e quando vedono che non prendo l’aereo si arrabbiano. Hanno iniziato a rivalutarmi togliendomi i viaggi lunghi ed assegnandoli ad altri miei colleghi che non hanno paura di volare>> la dottoressa alzò lo sguardo verso l’orologio appeso sulla parete e comunicò la fine della seduta.

<< Anche oggi siamo arrivate alla fine dell’ora, signora Lamberti. Abbiamo fatto un grosso passo avanti e posso sbilanciarmi dicendole che siamo sulla via della guarigione. Le consiglio di andare nell’ufficio del suo capo decisa e convincente e di farsi assegnare un viaggio d’affari, uno piccolo in una capitale europea dove un volo dura in media poco più di un’ora. La settimana prossima verrà da me e mi racconterà com’è andata. Ok? >>

La dottoressa accompagnò la sua paziente alla porta, la dirigente era il suo ultimo appuntamento per quel giorno. Non vedeva l’ora di tornare a casa e farsi un bagno caldo.

<< Dottoressa ha ancora bisogno di me? >> intervenne la segretaria mentre la psicologa Neri era seduta dietro alla sua scrivania con la foto di suo figlio e suo marito in mano.

<< No Silvia grazie vada pure, ci penso io a chiudere qui>>

La segretaria ringraziò e si dileguò in fretta. Era una ragazza molto gentile e simpatica ma aveva appena venticinque anni, una vita intera davanti, altri interessi ed un nuovo fidanzato d’amare. Certamente non era interessata a sentire i drammi che affliggevano la dottoressa. Che destino crudele, una vita intera ad ascoltare e a dare consigli a tutti e poi, nessuno che rimanesse dieci minuti ad ascoltare lei. Ripose la foto sulla scrivania, prese in mano la tazza di tè che aveva bevuto nel pomeriggio ed in preda ad una crisi di pianto, scagliò contro il muro la tazza, lanciando un forte grido. Dopo un po’ si calmò, pulì i resti della tazza e chiuse velocemente lo studio. Scese giù in strada e si diresse verso la fermata dell’autobus. Come ogni sera c’era il 910 che l’avrebbe portata a casa, c’era una fermata proprio davanti al portone. Attese pochi minuti e una volta sull’autobus cercò di rilassarsi con una buona lettura. Amava molto leggere ma non si portava mai i libri dietro, temeva di rovinarli. Leggeva invece delle riviste scientifiche e soprattutto di settore. Aprì il portone e trovò la sua amica “Perla” davanti alla porta che la salutava facendole le fusa. Perla era un bellissimo gatto soriano che aveva raccolto un giorno di pioggia di due anni prima sotto il suo ufficio. Da quel giorno erano diventate inseparabili ed ogni sera Giulia le raccontava le sue giornate ed i suoi problemi. L’incontro tra Giulia e Perla avvenne, come fosse un segno del destino, pochi giorni dopo la tragedia. Perla la consolava a modo suo, facendole le fusa e cercando le coccole. Quella sera era distrutta più del solito, erano passati esattamente due anni da quella tremenda sera e proprio come l’anno precedente, Giulia, decise di raccontargli quello che era successo alla sua gatta. Da psicologa pensava che era un modo per affrontare il dolore e superarlo. In realtà era un bisogno di sfogarsi e di raccontare a qualcuno quello che le era successo. Non aveva nessuno nella sua vita, solo Perla. Preparò la cena per entrambi, pasta al pomodoro per lei ed una scatoletta per la gatta. Si versò un bicchiere di vino rosso ed iniziò il racconto guardando Perla mentre mangiava.

<< Quella sera era iniziata come una sera qualunque. Io ero tornata dall’ufficio e mi preparavo per una cenetta veloce ed un film preso a noleggio. Carlo e Davide, come ogni giovedì, erano usciti per la loro consueta partita a calcetto con gli amici. Sembrava tutto perfetto. Dopo cena ero avvolta nel piumone sul divano e mi stavo godendo l’inizio di una commedia americana quando squillò il telefono. Risposi distrattamente con ancora gli occhi sul televisore quando ascoltai la voce nervosa di un poliziotto che mi comunicava di un incidente avvenuto sul raccordo. Erano coinvolti mio marito e mio figlio, un ubriaco con la patente sequestrata più volte, aveva imboccato il GRA contromano finendo proprio contro la nostra macchina. Non ci fu niente da fare, Carlo morì sul colpo mentre Davide morì in ospedale durante l’operazione>>. Proprio come l’anno precedente, Giulia scoppiò a piangere. Non finì nemmeno la cena, andò dritta sul letto e pianse fino ad addormentarsi per la stanchezza. Perla la raggiunse e si accovacciò vicino a lei.

immagine presa da Google Immagini

Clementi Simone

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