Una birra “tra crap” con Bibopolare

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Bibopolare è un artista che, fino a qualche settimana, non conoscevo affatto; certo, posso farmene una colpa fino ad un certo punto: “Com a na crap”, il suo disco uscito venerdì scorso, è dopotutto pur sempre un esordio, che ha radici lontane, va bene, ma che prima di una manciata di settimane fa non aveva mai portato il nome di Bibopolare sotto i riflettori.

Ora Massimo c’è, sotto questi benedetti/maledetti riflettori: sono inciampato sulla sua musica per uno strano allineamento dei pianeti (benedetti/maledetti amici cantautori in comune: “ciao Robbé!“) e subito dopo aver divorato il suo debutto discografico abbiamo bevuto insieme una (più o meno) buona e (più o meno) fresca birra nel centro di una Bologna già infuocata – dove il buon Bibo, da lucano esule, abita ormai da qualche anno, barcamenandosi tra un lavoro e l’altro ma senza smettere di sognare, ogni notte, Pino Daniele e King Krule – ci siamo raccontati le nostre reciproche vite. La sua, di certo, è ben più appassionata/disperata della mia, e credo meriti di essere raccontata – almeno un pochino.

Insomma, una storia romantica, quella di Bibo, fatta di rinunce ed ascesi personali che quest’intervista non riuscirà certo a contenere, ma che il suo disco racconta molto bene, e crudamentei; quindi, ascoltatevi “Com a na crap” ma se volete farvi un’idea di quello che ci troverete dentro spiate queste quattro chiacchiere tra amici fatte con Massimo.

Potrebbero diventare utilissima guida all’esplorazione di un’anima bella, che merita di essere scoperta, incoraggiata ad esistere, e a resistere.

Bibopolare. Che nome particolare, che in sé contiene un gioco di parole che pare rimandare, in qualche modo, ad uno sdoppiamento riuscito. Da dove deriva la scelta del tuo nome d’arte?

Salve, innanzitutto grazie per questo spazio. 

Bibopolare nasce da Bibo, un soprannome che mi ha dato un mio carissimo amico York Kemono (il fotografo e regista di “Nient”), soprannome che proviene dalla fusione di Brain e Be-Rain ovvero le mie prime tag, quando da ragazzino scrivevo sui muri, influenzato dai miei compari in fissa col mondo rap e hip hop. Polare l’ho aggiunto dopo ed è un rimando alla freddezza delle mie parole ma anche al freddo delle montagne della mia città natale.

“Com a na crap” è un’eccezione nel panorama musicale: non solo è un album dialettale, ma è anche un lavoro che è uscito tutto insieme, senza l’anticipazione di singoli. Insomma, un debutto completo che viene dal nulla. Ci racconti com’è andata la gestazione del tutto?

Non c’è stata una gestione del progetto lineare, anzi, è nato tutto a caso ed è proceduto molto lentamente. Avevo queste canzoni da un bel po’ di tempo e una grande voglia di registrarle. Abitavo con la mia ragazza in un monolocale di 35 mq, così per non disturbarla nei suoi studi mi sono chiuso in bagno dove ogni giorno componevo, aggiungevo, eliminavo qualcosa. É stato un duro lavoro durante il quale ho sudato parecchio insieme al batterista del progetto perché il tempo passava e scoprendo nuove ispirazioni cresceva la voglia di aggiornare la musica che facevo, finendo per cominciare una canzone con un’idea e stravolgerla completamente la settimana dopo. 

Il dialetto, da sempre, è uno strumento linguistico importante. Pino Daniele ne faceva un uso che, in qualche modo, sembri aver ripreso anche tu: sonorità al servizio del contenuto. Come nasce la tua scelta di cantare in dialetto?

La scelta di cantare in dialetto ha una bella storia: cinque anni fa entrò nella mia vita la musica jazz e studiando la sua storia, conoscendo il suo potenziale, mi ha regalato un nuovo modo di pensare. Tagliai i dread e cominciai ad ascoltare musica senza giudizi, tanto jazz ma anche altro, ampliando il mio concetto di gusto personale. Mi si rivelò un nuovo modo di vedere le cose anche oltre la musica. Questa cosa mi faceva pensare che dovessi suonare, scrivere e cantare solo per me stesso e farlo nel modo più vero e sincero possibile, scavare nel mio profondo per tirare fuori ciò che mi faceva male. Con naturalezza ho scoperto che riuscivo ad esprimere fedelmente ciò che avevo dentro solo con il dialetto, senza filtri o altri strumenti di espressione. Da quel momento mi è sembrato di aver trovato il giusto strumento per comunicare la mia musica, ho registrato la mia prima demo in dialetto e l’ho inviata al batterista del progetto. Il feedback fu positivo e mi spronò a continuare per quella strada. 

Per tutto il disco, si respirano atmosfere che vanno dal folk al jazz passando per il funk, ma rimanendo comunque nell’alveo di una certa dimensione “cupa” e riflessiva che dai testi emerge chiaramente. Insomma, per quanto “Com a na crap” sia un disco di “musica leggera”, alla fine quello che dici a volte è tutto tranne che leggero! Come vivi il rapporto con la scrittura, che tipo di visione hai della “musica”? Sfogo, farmaco o tante cose insieme?

La scrittura per me ha una duplice valenza perché mi permette sia di liberarmi, di sfogarmi, di sentirmi meglio sia di darmi la possibilità di interfacciarmi con i miei lati più oscuri e sensibili, che richiedono un ascolto attento e un’espressione delicata. Proprio per questi ultimi lati della mia persona il dialetto è fondamentale: sento che riesca ad esprimere al meglio i sentimenti cupi più che quelli felici. La musica durante il processo creativo ha rappresentato un elemento di sfogo fondamentale per affrontare quel periodo turbolento, per poi diventare cura e adesso essere ricordo, di un dolore passato ed affrontato con ciò che amo fare. 

“ma a famm ca teng m sta magnan ra ind/tutt e juorn è turment m sta magnan ra ind”: la fame, qui in “Refla” non è certo solo metaforica. Si è sempre pensato (a livello di “vulgata”, quanto meno) che fare musica fosse solo rose e fiori, ma la verità è che molti danno per scontato (e la pandemia loca rivelato chiaramente) quanto sia complesso continuare a trovare energie, denaro e motivazione per portare avanti il proprio progetto in un contesto che spesso non ha cognizione del valore delle cose. C’è una via d’uscita, da questo empasse? E se sì, quale?

L’unica via d’uscita secondo me è immaginarsi il lavoro completo mentre impari quello che il processo creativo ti sta donando. E’ stato proprio grazie alla fame che non ho mai visto affievolire la luce in fondo al tunnel, bisogna concentrarsi e avere costanza, anche minima, al giorno o alla settimana. In questo progetto ci sono stati sei o più mesi di stop per motivi futili, molto mentali ma alla fine sono riuscito ad uscire con coraggio e forza soprattutto prendendo decisioni difficili per proseguire serenamente questo viaggio, odiando e amando contemporaneamente quello che stavo facendo.

Certo, in “Com na crap” anche l’amore non manca. Che rapporto hai con le canzoni d’amore? Io a tante hit da playlist piene di lacrime finte preferisco di certo la tua “Uard”, che magari non parla d’amore, ma fa sentire tutta la connessione necessaria tra occhi che si cercano…

Ricerco nelle canzoni d’amore, sia degli altri che le mie, un racconto non banale dei sentimenti. Amo quando bisogna ricercare le emozioni in parole e immagini mai scontate, come in “Perfecto Miserable” di King Krule dove l’amore si mette a servizio del cantante come consolazione confortevole, in uno scenario melodico nostalgico e malinconico. Credo che si debba sempre esaltare il romanticismo cercando nuovi modi per raccontarlo ed esprimerlo, dolcemente e amaramente. Mi piacerebbe per i progetti futuri sperimentare per capire come si può parlare di amore.

“teng bisogn r comprension no r doij douc parol”: non hai bisogno di parole dolci, ma di comprensione. Alla fine, in “Com na crap”, credi di aver detto quello che volevi, nel modo che volevi? E ne approfitto per chiudere, ringraziandoti del tuo tempo e chiedendoti, come si fa in chiusura: progetti per il futuro?

Tutto ciò che sentivo di dover esprimere dal periodo sfortunato che stavo vivendo, l’ho detto in queste canzoni. Nel futuro spero di scrivere cose più leggere ma senza far mancare la schiettezza del mio dialetto. Sto già componendo nuove canzoni dal sound molto differente da questo progetto, vorrei crescere e studiare per non fare più la musica come una capra.

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