Conosco da diverso tempo Davide Bosi, abbastanza per dire che non lo conosco affatto.
Succede così, con le anime complesse come quella di Dave, che in qualche modo non smettono di stupire e più le metti alla prova e più brillano, e più lasci che la luce della scoperta le attraversi più loro si comportano come prismi di rifrazione, irrorando nuovi fasci luminosi da ogni sghembatura caratteriale, da ogni sfaccettatura musicale.
Però, alcune cose su Davide le so: so che è romagnolo, e si porta dentro tutta quella nostalgia che la Romagna camuffa con l’affabilità dell’accoglienza di chi nel cuore, spesso, ha lidi deserti, svuotati dal turismo affettivo e dal consumo emotivo.
So che ha studiato a Bologna, perché lì ci siamo conosciuti, e so che condividiamo pensieri simili sul capoluogo felsineo, croce e delizia di ogni idealista perso come noi. So che ha il blues nel sangue, come ogni buon romagnolo nostalgico che si rispetti, e che l’alcol lo regge – sì, ma non troppo, come ogni vero bluesman che si rispetti.
So che partirà per un tour europeo, che sta per scrivere un nuovo disco da scoprire, che ha un cagnolino simpatico e una passione per il cioccolato. So anche che ha pubblicato un brano, inedito, registrandolo dal vivo negli spazi de La Jungla Factory, e so che non potevo resistere all’idea di fargli qualche domanda.
Perché ci sono anime di cui pensi di sapere tanto, quando alla fine non sai niente. E allora evviva la curiosità, evviva l’amicizia, evviva Davide Bosi.
Davide Bosi, una chitarra e tanto blues nelle vene. Ma come nasce il tuo rapporto con la musica, qual è il primo ricordo che hai di te a contatto con lo strumento?
Ho cominciato a suonare la chitarra a 6 anni, innamorato della musica di John Lennon e dei Beatles. La prima canzone che ho imparato a fare è “Il Topo Federico”. Sinceramente non so chi l’abbia scritta, l’ho cercata su Internet ma non riesco a trovarla da nessuna parte. Tutta in Re maggiore, ma per me era già una grande conquista.
Tra l’altro, il tuo stile è qualcosa di lontano da ciò che siamo abituati a sentire in Italia. In primis, canti in inglese: hai mai pensato di scrivere in italiano? E soprattutto, qual è il tuo pensiero sulla scena emergente nazionale?
Si, ho pensato di scrivere in italiano. In verità, ho scritto un paio di pezzi in italiano durante il periodo della quarantena nell’album “Quaranteña” (disponibile su Bandcamp). È stato più che altro un esperimento. Il fatto è che ho cominciato ad ascoltare musica anglofona sin da piccolissimo e proprio per questo non ho mai sentito la costrizione di cantare in italiano. A tal proposito, credo che finalmente in Italia si stia dando spazio anche a cantanti anglofoni (non mi riferisco solo ai Maneskin, ma anche a band più di nicchia come i Soviet Soviet e i Sonic Jesus). Penso anche che parlare di nicchia sia comunque sempre riduttivo in un mondo interconnesso e globalizzato: c’è altra musica oltre a quella di Sanremo ed è più seguita di quanto si pensi.
Leggendo i tuoi social, abbiamo notato che da poco hai vinto un concorso importante, che ti darà l’opportunità di partire per un tour gremito di date in Europa. Ce ne parli un po’ meglio?
Sono stato selezionato dal Progetto Sonda (Centro Musica di Modena) per la realizzazione di un tour europeo, che mi porterà a suonare la mia musica fuori dall’Italia. Sono molto contento, ho già suonato in passato all’estero ed è stata una esperienza fantastica.
Andiamo al sodo. Hai appena pubblicato, in collaborazione con La Jungla Factory, “Emily”, brano inedito registrato proprio tra le mura della struttura ligure. Raccontaci qualcosa che non sappiamo sul tuo nuovo inedito!
La definirei una ballad crepuscolare, come l’80% della mia discografia (ops! Forse non mi sto facendo una gran bella pubblicità!).
Raccontaci un po’ della tua esperienza alla Jungla, a questo punto. Che cos’è questa iniziativa nata da poco a La Spezia, sotto l’egida di La Clinica Dischi?
Ritengo che suonare alla Jungla sia stata una delle esperienze musicali più belle. La Jungla Factory è uno studio in cui la musica si sente, si vede e si tocca con mano. Qui ho incontrato persone fantastiche e tanto interesse sincero per la scena emergente nazionale. Insomma, un ambiente in cui ogni musicista si sentirebbe a casa.
Senti, invece: consigliaci tre dischi che non possono mancare a chi scopre Davide Bosi.
Nick Drake – Pink Moon
Blixa Bargeld & Teho Teardo – Nerissimo
Syd Barrett – The Madcap Laughs