Cartoline da Venezia con Marco Scaramuzza (& Co.)

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Allora, devo dire che in effetti potrebbe anche essere che, a farmi perdere la testa per la sua musica, abbia quantomeno contribuito quella bolla meravigliosa di quattro giorni passata tra canali, vino ed esistenzialismo (tutt’altro che) spicciolo che Marco ha saputo regalarmi ad inizio settembre, per un weekend lungo di musica e bellezza a Venezia in compagnia di quella che – a mio immodestissimo ma sopratutto insindacabile parere – ritengo la scena più interessante del Nord Italia; quattro giorni, dicevo, di riconoscimento reciproco, di sentimento d’appartenenza a qualcosa che esula da regionalismi e che allo stesso tempo trova nelle proprie radici la natura intrinseca di un’essenza precipua, perché certi posti penetrano sottopelle e finiscono col nidificare al centro del cuore, rendendo ciascuno portatore sano di qualcosa di cui non ci si libera più – sopratutto se quel qualcosa nasce, cresce e si sviluppa tra i labirinti della laguna più speciale del mondo.

Certo, avrà pur avuto un effetto balsamico sulla mia anima errante il trovare in via delle Pignatte (strada alla quale auguro di raggiungere, per celebrità e sacralità, la collega bolognese sita in zona Cirenaica, i “gucciniani” capiranno…) un nido nella tempesta che sta abbattendosi sulla mia (ma esiste ancora, ormai, qualcosa di “posseduto”, un “mio”, un “tuo”, un “loro”…? diciamo che nella tempesta ci siamo tutti, insieme, ed è una consolazione magra, è vero, ma neanche così troppo…) vita, sarà che sulla terrazza con vista sull’Universo di casa Scaramuzza ho visto crescere, in poche ore, fiori bellissimi e capaci di far odorare tutto, e dico tutto, in modo diverso (piccola menzione speciale alla più grossa pianta di basilico che abbia mai visto: parola di ligure).

Certamente Marco ha saputo rabbonire le mie asperità più astiose (ah, sì, come mi sento arcigno, aspro e pieno d’astio!) a colpi di prosecco sfuso e discreti disordini alimentari, che il più delle sere abbiamo provato a sciogliere con amari vari ma trangurgitati in modi non dissimili e a orari che possono sembrare improbabili solo a chi dà una scadenza alle cose (sopratutto a quelle belle); saranno stati i bigoli in salsa di Alessandro (“Benvegnù da Benvegnù” è il format culinario che presto sbarcherà nelle televisioni di tutti), i giardini splendidi di Marghera (sì, ho una mia personalissima e scintillante visione di Marghera: beato me e poveri voi!), saranno state le canzoni di Alessandro Ragazzo e Beo cantate di contrabbando all’ombra di un campo che poi è una piazza ma il termine campo trovo sia ben più sensato per restituire all’immaginazione l’idea di una primavera che abbiamo visto scoppiare all’improvviso, alle prime fosche luci di questo autunno già fin troppo bagnato; sarà che se sono qui a raccontare tutto questo è perché tutto questo è successo, e sì, fa parte dei motivi per i quali amo Scaramuzza, e in generale adoro l’idea che le canzoni possano essere ancora spunto di riflessione, dibattito, crescita.

Nell’era delle maschere digitali, a volte sapersi riconoscere a vicenda diventa un atto rivoluzionario, quanto meno fondante di una nuova sicurezza, di una nuova possibilità: quella di non sentirci ancora soli, ancora isolati nella nostra disperata ricerca di amore e bellezza, sempre più abbandonati come stracci sgargianti al bucato di turno, in attesa di un refolo di vento che sappia dare nuove direzioni alle nostre bandiere; poterci dire, a vicenda, che siamo fatti così perché non potremmo essere diversamente, e allo stesso tempo continuare a praticare il cambiamento per non arrenderci alla visione che abbiamo di noi stessi, per non abbandonarci all’idea che le cose non cambieranno mai. Un costruire su macerie, un eterno dibattersi sulla battigia arroventata di un porto che sembra sicuro finché non lo si raggiunge, lasciandoci capire che andare si deve per chi è nave e ha vele fatte per trasformare il vento in spinta; una rissosa coesistenza con tutte le cose di noi che ci fanno male, ma che ci rendono anche allo stesso tempo unici, speciali e consapevoli che l’unicità non debba essere per forza una condanna alla solitudine.

Ecco allora che anche un astioso, arcigno e aspro censore moralista come me (‘”a Catone, levate“) finisce col sentirsi a casa ovunque, e capisce che tutto quello che si vive, quando è vero, finisce con il diventare canzone, e in più si è a cantare, meglio è; per questo, al netto di tutte le cose meravigliose vissute in quei quattro giorni veneziani, credo che la sorpresa più bella sia stata scoprire che sia ancora possibile sciogliere ogni soluzione di continuità tra vita e arte, tra vissuto e cantato, tra il racconto di un’esperienza e la recensione di un brano, quando c’è dell’autenticità così vera e profonda come in “Sono fatto così” (e mai titolo è stato più azzeccato di questo): perché non c’è distanza tra quel terrazzo in via delle Pignatte e la scrivania lontana dalla quale ora sto battendo forte sul computer queste parole d’amore, che dovevano essere una recensione, che sono diventate un personale memorandum, perché – come direbbe qualcuno – l’amore ha l’amore come solo argomento. E tanto basta.

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