Avete bisogno di un’ora d’aria, avete voglia di fuggire un po’ lontano dal grigiore di una scena che sembra ormai essersi fatta inconsistente, e ormai decisa a non riprendersi più dalla propria opacità? Bene, forse avete bisogno di un ritorno alle origini che possa ricordarvi le cose che contano davvero, e magari raccoglierle proprio in una canzone che canta di partenze, di ricerca della felicità e di denuncia emotiva e sociale: tutto questo (ma sopratutto molto di più) è il nuovo singolo degli Aftersat, compagine musicale campana che, dopo un percorso di gavetta lungo, polveroso e temprante, è tornata sulla scena a distanza di qualche tempo dalla pubblicazione di “Intosole” (il loro primo EP) con “Terra c’accide”, elegia rivoluzionaria di una cinquina di cuori che non hanno mai smesso di fare il nido dentro le tempeste. Abbiamo fatto qualche domanda al gruppo, per conoscerli meglio e saperne di più su tutto questo.
Aftersat, bentrovati sulle nostre colonne! Allora, come ci si sente all’alba di questo ritorno sulle scene?
Siamo emozionati! Più che di un ritorno parlerei di un nuovo inizio e come tale siamo carichi di aspettative. Non vedevamo l’ora di tornare a pubblicare dopo un anno dedicato interamente al live.
Vi fermate mai a pensare quanta strada abbiate percorso, da quando siete partiti? Perché di chilometri ne avete macinati parecchi, e con discreti risultati, direi… vi andrebbe di raccontarci un po’ quali siano, secondo voi, le tappe principali del vostro percorso fin qui?
Ogni tanto ci piace dare uno sguardo alle nostre spalle e realizzare quello che stiamo facendo, analizzare ed essere fieri della strada percorsa che penso sia riassumibile in tre grandi tappe: la prima, nel 2019, con la vittoria del premio produzione Dcave al Lennon festival di Belpasso che ci ha dato la possibilità di sviluppare, registrare e pubblicare il nostro primo Ep in napoletano “Intosole”; La seconda, nel 2021, partecipando alla finalissima di Voci per la Libertà e aggiudicandoci il “premio web”; e la terza, appena l’anno scorso, vincendo, presso il CPM di Milano, il contest “L’artista che non c’era” che ci darà la possibilità di finanziare il nostro prossimo tour in giro per lo stivale!
Abbiamo sempre uno sguardo rivolto verso le “radici” per realizzare la metamorfosi tutt’ora in corso d’opera: il passaggio dall’inglese al napoletano e l’apertura verso sonorità tradizionali che strizzano l’occhio al blues e al bacino del mediterraneo, con la produzione dell’ep “Intosole”; la realizzazione di nuovi brani con una produzione diversa che porta ad affacciarci su una dimensione più “etno-world”; il conseguimento del premio “Nuovo IMAIE” con l’opportunità di realizzare un piccolo tour e quindi la possibilità di fare ascoltare il nostro messaggio e la nostra musica anche lontano dalla Campania.
Avete anche vissuto da vicino l’ambiente dei premi musicali: credete che in qualche modo quel “mondo” serva davvero agli emergenti? E’ utile ad aiutare il loro percorso di crescita?
Probabilmente è tra le poche, se non uniche, possibilità di portare in superficie la musica che proviene dal basso dando la possibilità a chi voglia intraprendere un cammino musicale di capire come e dove muovere i passi. E’ di fondamentale importanza per maturare competenze strutturali che potrebbero supportare il percorso di crescita della band, nel nostro caso, attraverso il confronto con altre realtà artistico-personali e il confronto con un pubblico “addetto ai lavori”.
Quattro brani fin qui pubblicati: credete che “Terra c’accide”, il vostro nuovo singolo, stabilisca una continuità con il passato oppure si pone come elemento di una nuova rinascita, di una nuova partenza?
“Terra c’accide” nacque qualche settimana dopo aver concluso le registrazioni del nostro primo ep, fu quindi frutto dell’ispirazione che ci diede quell’esperienza. Sicuramente dà una nuova linfa a quello che è il nostro sound, ma non crediamo si distacchi particolarmente dal nostro ultimo lavoro.
C’è un legame indissolubile con “Intosole”, la relazione con la terra d’origine che finora emerge e contraddistingue le nostre pubblicazioni. Ma al contempo si tratta di una nuova produzione con l’utilizzo di un linguaggio sonoro differente e più che di rinascita parlerei di crescita in termini sia stilistici che interpretativi.
Parliamo proprio della vostra ultima pubblicazione: dentro, ci si trova tutto il dolore di una condizione esistenziale individuale e allo stesso tempo collettiva, che rimanda con la memoria ai canti dell’emigrante, alla saudade del figlio “orfano” di una terra amata quanto sempre più inospitale. Cosa significa, oggi, essere figli di una “terra che uccide”? Ci raccontate, insomma, come è nato il brano?
Il brano traduce l’esigenza di raccontare un legame conflittuale con le proprie radici. Vuole essere una parabola di quella che è la relazione con il proprio nucleo familiare d’origine che è rappresentato dal paese dal quale proveniamo. Una terra ricca ma al contempo priva di stimoli, priva di opportunità di inserimento, nella quale ci si barcamena per ottenere uno spazio ma al contempo bella al punto tale da specchiarsi in se stessa e restare vittima della propria vanità. La necessità dunque di prendere il largo, portando dentro di se questa malinconia, un continuo desiderio di cercare anche altrove ciò che abbiamo lasciato e nutrire la speranza di un ritorno.
La scelta linguistica è certamente un tratto distintivo che aiuta a calibrare il vostro progetto come legato alle radici e allo stesso tempo ben attento a non rimanervi “incollato”. Dopotutto, anche il dialetto pare essere una lingua in fase di “ri-scoperta”… avete sempre cantato in napoletano?
No, siamo partiti dalla lingua inglese, più semplice da coniugare a quella che era la proposta musicale iniziale che spaziava dal folk alla ballad, con meno esigenze di rendere palese quello che era il messaggio trascritto nei testi.
Con una lingua più “vicina” non ci si può mascherare, bisogna essere più coerenti e quella che inizialmente era una canzone atta ad esibirsi per essere di intrattenimento magari, si trasforma nell’opportunità di esorcizzare un malessere, dare voce a un messaggio di interesse collettivo e una necessità di riscatto sociale.
Tra l’altro, del brano avete realizzato anche un videoclip piuttosto evocativo… vi va di parlarcene?
Era nostro intento, già nei video realizzati per i brani di “Intosole”, suscitare nell’immaginario di chi lo incrociasse, sensazioni, sentimenti chiusi e sedimentati in fondo all’animo. Le immagini del nuovo video anzitutto non ci vedono protagonisti, anzi non appariremo per nulla ma si evidenzieranno i contributi di coloro i quali ci hanno supportato con le loro “nostalgie”, con l’intento di dare corpo narrativo al brano e far scaturire il destabilizzante stato d’animo del protagonista, sospeso tra il luogo di origine e la realtà dove è “fuggito”. Un incrocio sfalsato tra reminescenze e intervalli spazio-temporali fino alla fuga e al ritorno alla realtà.
E dal vivo? Come credete si sia evoluta, dal lockdown in poi, la situazione della musica dal vivo in Italia? Siamo davvero “ripartiti”, oppure qualcosa sembra non essersi ancora ri-avviato?
Sembra che la macchina sia ripartita in quinta e a pieno regime, dopo il lungo digiuno. È un’onda anomale che travolge i più grandi tanto quanto i più sotterranei. Tutti adesso hanno l’esigenza di esprimersi dal vivo e mi sembra anche normale dopo la pandemia. Tutti abbiamo qualcosa da dire, un bagaglio da portare in giro e mostrare. Non saprei dire se questa realtà sia un’evoluzione o meno, fatto sta che essere competitivi è davvero difficile. In giro si trova tanta qualità quanto inutilità. Da questo mare magnum ovviamente si può uscire con le ossa rotte, vittime di “falsi profeti”, tra etichette fantasma a uffici booking inaccessibili, parlo per esperienza personale, o si può mettere calcio nelle ossa imparando a fare tutto da se, con l’autoproduzione allo stato puro.
Bene, Aftersat: è stata una piacevolissima chiacchierata. Credo che ci risentiremo presto, vero?
Lo puoi dire forte, questo non è altro che il “lato a” di questa nuova e vibrante avventura.