Dentro la voce di Chiara Effe mi ci sono ritrovato anch’io

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Chiara Effe è una delle penne che, negli ultimi sei anni, mi è capitato di incrociare (fisicamente e spiritualmente, se di “spirito” si può parlare per indicare quell’intangibile e divina vibrazione che dalle casse di uno stereo o dai padiglioni di un paio di auricolari si fa strada fino al cuore) in giro per l’Italia o sulle piattaforme digitali: la scoprii, da vero cercatore del sottobosco, quando si aggiudicò meritatamente il Premio De André 2018, condivisi qualche anno dopo con lei il palco del Premio dei Premi (che di nuovo la vide trionfante con una meravigliosa rilettura di “Cara” di Lucio Dalla, giusto per far capire a tutti che sul suo capo isolano si stava posando non solo la mano del Vate genovese, ma anche quella dell’eterno bambino bolognese in un tripudio di orgoglio musicale lassù – o laggiù? – nel Paradiso Avvinazzato dei Cantautori), non persi più di vista il suo nome mentre la vedevo rotolare su e giù per la Penisola, impegnata nella costruzione dal basso di una credibilità cantautorale capace di farsi operaia e costruire fondamenta ben ancorate al centro della terra, dove le anime sono pure e il vino franco. 

Una cantautrice vecchia scuola, ma con gambe giovani e aitanti capaci di attraversare di slancio i chilometri di sabbia e cemento che la discografia nazionale ha steso, negli ultimi vent’anni, sulla canzone d’autore, rendendola vetrina per rigattieri e svuotacantine, appannaggio di una nicchia che sembra essere ormai più necrofila che nostalgica, impegnata nell’esaltazione di ciò che è stato perché ormai priva degli strumenti per riconoscere ciò che continua ad essere e a resistere, spesso nell’indifferenza velenosa di quelle istituzioni cantautorali che dovrebbero promuovere la rigenerazione dei codici e della memoria e che finiscono, invece, con l’affibbiare targhe ad esordienti che hanno esordito secoli fa, ammiccando a giovani rampolli che hanno più a che fare con i social che con la socialità che il cantautore da sempre ricerca con la militanza umana, attiva, fra le gente. Ma tant’è

Insomma, Chiara è una tosta, che fa impallidire tutte le risme di sedicenti cantautrici che saltellano sui palchi facendo tanto rumore per nulla, perché poi il più delle volte è il nulla che rimane – per carità, esistono anche proposte interessanti, ma il lanternino si è scaricato e al buio ora ci si sente ancora più soli di prima, sopratutto perché privi di un lamento d’Arianna che ci aiuti ad uscire da questo labirinto di canzonette e laissez faire. E di palchi ne ha visti Chiara, eccome: li ha conquistati tutti a colpi di polso e corde vibranti, perché con il suono delle dita si combattono battaglie e Chiara sa suonare e anche bene – altra qualità che sembra andare poco di moda, oggi, fra i nuovi professionisti della musica – e quando canta sembra capace di costruire ponti che attraversano il Mediterraneo e fanno il giro degli oceani, ritrovando la Sardegna fra le clavi di una bossa, o tra i tappeti di un bazar.

Un attaccamento alla propria terra che sa di fede e speranza, di ricerca e di protezione, di amore e desiderio e di ricchezza e povertà: un viaggio che parte da “Via Aquilone”, quasi dieci anni fa, e oggi ci da appuntamento in “Via Giardini”, in un atlante emotivo che porta il segno delle mille strade che Chiara ha percorso, tornando sempre a casa, sempre in una casa diversa magari, ma sempre a casa. Perché così fanno le belle anime: costruiscono nidi nelle tempeste, e imparano ad addormentarsi in volo, affidandosi al vento. 

Nelle dodici tracce di “Via Giardini” si annida il germe virulento di una malattia che il nostro tempo sembra aver guarito a colpi di demagogia e opacizzazione, ogni canzone è un’iniezione virale di anticorpi banditi dalla nostra contemporaneità salutista e positiva a tutti i costi, che ha dimenticato le profondità degli abissi ma anche la leggerezza delle nuvole, trasformando in tenebre indesiderabili lo scavo dell’anima e in zuccherata superficialità la nostra affannata necessità di galleggiamento: è la bellezza, quella malattia odiosa schiacchiata sotto il peso dei congiuntivi sbagliati dei nostri politici e degli slogan vuoti dei nostri influencer, delle salvifiche canzonette dei campioni d’incassi e dell’apatia di un pubblico all’ingrasso, che si fa divorare dai sabati sera e dalle apericene sui Navigli; la bellezza, messa al bando dalle televisioni a reti unificati e dall’impero del buonsenso, del politicamente corretto, del sicuramente giusto; la bellezza che resiste impigliata tra le sedie di bar di provincia che ancora ci credono, ma non riescono a pagare sia le bollette che gli artisti; la bellezza, che abbiamo dato così tanto per scontato da dimenticarci dove l’abbiamo nascosta, mentre Venezia affonda e Pompei si sgretola, metafora di una bellezza che qui in Italia non può essere altro che un naufragio, o un furto. 

Dodici canzoni di resistenza elegante, gentile, ma con il coltello fra i denti, a mostrare il sangue sulle gengive senza smettere di sorridere mentre la gonna si alza e fa alzare la polvere di questa arena deserta, dove sono rimasti solo i gladiatori della domenica, e i leoni miagolano come gattini d’appartamento: un pettirosso da combattimento, Chiara Effe, che non ha smesso di gonfiare il petto e di farlo gonfiare a chi, come me, la segue da un po’ e non riesce a sentirsene deluso. Ed è strano, perché alla fine oggi tutto finisce prima o poi con il deluderti, e quando non succede ti stupisci di non avvertire la puzza di bruciato: ma qui, c’è solo profumo di terra arsa, di mare e di speranza. Delle canzoni parlatene voi: io continuo a godermi il sole che batte forte su “Via Giardini”, a scaldarmi il cuore pensando a Gigi Riva, o forse è Chiara Effe, che un’altra volta l’ha messo nel sette, questo mio bucato muscolo cardiaco. 

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