L’ossessione del tempo si infila, ad un certo punto della vita di tutti, tra le pieghe della nostra coscienza, imponendoci una riflessione dalla quale scappare è impossibile: è la stessa immanenza del nostro presente, la certezza conquistata poco a poco che “polvere torneremo” ad affastellare la nostra testa di pensieri che hanno la stessa voce di vecchi padri e nonni, una voce secolare che allunga dita di quercia sulle nostre esili membra con la solennità un po’ cupa e un po’ consolatoria di un “memento mori”.
Il tempo: il nemico giurato dell’uomo, il limite incontrastabile e invisibile di un viaggio sconosciuto che ci fa paura, perché temiamo ciò che non conosciamo e facciamo di tutto per sciogliere i nodi che ci legano alla nostra ignoranza attraverso risposte diverse, ma sempre e tutte incomplete. E a trovare qualche risposta, o forse a formulare qualche giusta domanda, ci prova anche “La seconda prima volta”, il tanto atteso (almeno, dal sottoscritto) album di Digiovanni.
Digiovanni è uno giusto, che nel tempo di strada ne ha fatta e ha capito che il modo migliore per “trovare tempo” è smettere di cercarlo, rincorrendolo tra gli anfratti di un’esistenza che finisce poi con lo svicolare e scivolarci di mano ad ogni goffo tentativo di stringerlo tra le dita: il tempo fugge, e rincorrerlo è folle, oltre che drammaticamente inutile. O forse, il tempo ci rincorre, e allora fermarci potrebbe essere l’unico modo per provare, finalmente, a far respirare anche questo “tempo” maratoneta che ci morde le calcagna: di certo, fermarsi ad ascoltare un disco che parla e canta del tempo che passa può essere un buon antidoto alla nostra fame di tempo.
Il disco va ascoltato, e io l’ho raccontato già troppo: dieci canzoni che analizzano il concetto di passaggio, di transumananza che non si lascia irretire da pose ormai vincolanti e asfittiche e prova invece a trovare l’essenza del tutto nel respirare, dilatando le spalle e rilassando i muscoli; una terapia personale che porta l’autore “oltre”, in una dimensione quasi oracolare e sciamanica in cui, guidato da un timbro evocativo e identitario, l’ascoltatore può guardarsi dentro, e finalmente perdersi senza la paura di farlo. Un viaggio che merita di essere vissuto attraverso le pieghe di un’orchestrazione che fonde fra loro linguaggi diversi, mantenendo l’appeal del giusto “crossover”, capace di arrivare a tutti.
Fidatevi di me, che alcune cose non si possono descrivere, bisogna viverle. E quando arriverete a “La libertà di scegliere”, mi ringrazierete. E sceglierete di ricominciare da capo.