Zaminga: con “Monolocale” ho raggiunto il sound che voglio avere

Samuel Zaminga, in arte solo Zaminga è un cantautore che si rivolge ad un pubblico indefinito. Probabilmente perché i suoi brani sono talmente eclettici che possono andare incontro a vari tipi di gusto musicale. Il suo singolo d’esordio è Pyrex, seguito da Wyoming: si tratta rispettivamente di un brano malinconico e classicheggiante e di un brano tipicamente it-pop.

Il nuovo singolo di Zaminga si intitola Monolocale, dall’approccio più elettronico, quasi anni ’80.

Di seguito, Zaminga ci racconta di più.

La tua musica è un po’ un underground che strizza l’occhio all’it-pop. Parlando di processo creativo, da dove deriva l’ispirazione?

Sicuramente a contatto con l’ascolto di vari dischi, sono una persona aperta alle novità, però ho sempre ricercato il compromesso con il mio background. L’ondata it-pop è stata molto d’ispirazione per me poiché ha un fil rouge con la tradizione cantautoriale del passato, in cui mi sono subito riconosciuto. È stato sperimentato un linguaggio nuovo, diverso da quello usuale tendenzialmente commerciale. Le me idee nascono dunque da una contaminazione tra quello che ho sempre ascoltato e le novità in cui mi riconosco.

Secondo te, al giorno d’oggi, è difficile raggiungere un pubblico eterogeneo?

Se sia difficile o meno non lo so! Parlo dal pulpito dei miei trent’anni raccontando cose in cui questa generazione può riconoscersi. Se poi il messaggio è trasversale non posso prevederlo, ma me lo auguro. Parlo di attese, di speranze; insomma può emergere un messaggio positivo ampliabile ad un target più vario.

Parlando del brano Monolocale, il tuo nuovo singolo, ha delle sonorità un po’ alla Tommaso Paradiso. Com’è nato questo brano?

È stato scritto nello stesso tempo degli altri singoli. Per questo brano ho pensato a delle sonorità lo-fi o bedroom pop che erano già emerse nei singoli precedenti. I suoni sono più crudi ma ho cercato di conservare una linea trap o “ballereccia”. Ho raggiunto il sound che voglio avere. 

Alla luce della tua esperienza personale, è necessario per un artista emergente andare via dalla propria città d’origine?

Non è proprio necessario. I social network abbattono le distanze e dal punto di vista promozionale aiuta. Sicuramente il nord italia è più pronto a recepire le novità artistiche, è più ricettivo. In un primo momento non c’è grande differenza ma poi forse diventa necessario imparare ad avere sempre la valigia in mano.

Progetti per il futuro?

Credo di voler pubblicare dei singoli. Non si possono fare troppe previsioni, ma mi auguro di fare qualche live.

Grazie!

Leggi anche la nostra intervista alla cantautrice Dalila Spagnolo!

“Sonno” è il nuovo singolo dei Campos

0

Esce oggi, venerdì 30 ottobre, “Sonno”, il nuovo singolo dei Campos.

Il brano “Sonno”, pubblicato in concomitanza con il relativo videoclip, anticipa il nuovo album di inediti.

I Campos sono un gruppo formato da Simone Bettin (già co-fondatore dei Criminal Jokers) e il musicista e producer Davide Barbafiera, ai quali si aggiunge il bassista Tommaso Tanzini.

Il brano ricrea un’atmosfera surreale e onirica, mediante suoni sia elettronici che acustici. Dopo un accenno di un inizio stridente, il brano risulta caldo e avvolgente.

Il videoclip di “Sonno” vede come protagonista un quarantacinquenne che sogna come un bambino. La sua aspirazione è di diventare un marinaio e cerca di avvicinarsi a questa meta. Ma diventare un uomo di mare si rivelerà una questione di preparazione, di percorso e di contemplazione.

mi sono perso nel sonno

viaggio troppo nel niente

Seguici su Instagram!

Omelettes du mal: la Sardegna parla francese

Con Le poids d’être perdu esordiscono gli Omelettes du mal

Da Cagliari arriva un duo che alterna francese ed italiano e mescola l’indie a sonorità pop elettroniche, che regalano melodicità e fascino alle loro canzoni. Le poids d’être perdu è il disco d’esordio di Eleonora Matuozzo e Giuseppe Tradori, in arte Omelettes du mal, preceduto da tre singoli: Pas important, Silence e Théière.

Tra italiano e francese

Fin dai tre singoli, è evidente come si mescolino parti in francese ed in italiano.
Pas important ha solo il ritornello nell’idioma transalpino, mentre Silence ha una strofa per lingua, così come Théière.
I testi, accompagnati da basi che passano dal classico chitarra e voce al funky a sonorità più pop con batterie elettroniche campionate. Gli Omelettes du mal accolgono sì le istanze indie, ma a volte si avvicinano molto a quell’estetica decadente che il nome del gruppo lascia presagire e sperare.

Il resto del disco prosegue con coerenza questa linea, con alcuni momenti veramente interessanti, ad esempio Ultima spiaggia, che accoglie un’incursione rap di Damn poet, che confeziona un’outro veramente eccezionale per metriche e testo:

E mi chiedo se quando ti guardi allo specchio riesci ancora a vedere la musica lieve che ti ho seppellita dentro
[…]
Ed ora temo il buio perché so di che luce si veste/
la verità in fondo triste investe l’uomo quando giace inerme

La scelta del bilinguismo è chiaramente molto affascinante anche alla luce del riferimento contenuto nel nome, che richiama Charles Baudelaire e la sua opera più nota, Les fleurs du mal. Forse alla luce di questo e del mostro sacro della letteratura che viene indirettamente evocato, ci si aspetterebbe ancora più spazio per quella vena tenebrosa e sensuale che è chiaro esserci nella musicalità degli Omelettes du mal.
Le dieci tracce del disco sono un ottimo biglietto da visita come lavoro d’esordio, ma in futuro non si può non sperare che questo duo sardo si spinga ancora più in là, magari con ancora più francese e, perché no, sonorità un po’ più dure.

Stefanelli, il rondò veneziano e il lo-fi

Dopo l’esordio con “Controcorrente”, Stefanelli conferma con “Rondò” di essere uno dei nuovi nomi da seguire della scena italiana (al netto di tanti anni di musica come frontman di Kafka Sulla Spiaggia e al fianco di Blindur) e penna intelligente e sensata, nell’era dell’emulazione istituzionalizzata. Per questo, farci sfuggire l’occasione di lasciar Luca raccontare sé stesso era un peccato che non potevamo (né volevamo) permetterci: qui di seguito, dunque, il risultato di un’intervista a passo di rondò.

Stefanelli, partiamo subito forte: dopo una manciata di settimane da “Controcorrente” ti ritroviamo oggi all’uscita del tuo nuovo singolo, “Rondò”. Fretta di tirare fuori un disco che già scalpita?

Puoi immaginare che la voglia di farvi ascoltare tutto quello che ho preparato nei scorsi mesi è tanta. La pubblicazione di un disco rientra nei piani ma giusto per mantenere un minimo di mistero facciamo che non ne dico di più e la curiosità impazza tra i giovani lettori di INDIELIFE.

Se dovessi individuare un fil rouge a collegare i due tuoi singoli, quale sarebbe (sempre che esista!)?

Il fil rouge tra “Controcorrente” e “Rondò” è sicuramente la modalità di scrittura un po’ figlia del periodo in cui sono state scritte. Eravamo in pieno lockdown e la vita scorreva molto lentamente. Inoltre la scelta dei suoni lo-fi è il leitmotiv di tutto il lavoro.

Ma il rondò (inteso nel senso più musicologico del termine) c’entra qualcosa con “Rondò” di Stefanelli?

“Come in un rondò, mi muovo solo un po’ mentre osservo la mia dama volteggiar”. Questo perché ritengo il rondò veneziano di rara bruttezza a tal punto da immobilizzarti e non riuscire a ballare. Per fortuna c’è la mia dama che m’illumina sempre quando la vita mi blocca.

Il brano ha una costruzione curiosa; non esiste un ritornello violento a scolpirsi nella memoria dell’ascoltatore, ma piuttosto un crescendo di intensità da esperienza empatica, una sorta di ascolto emotivo 8D. Insomma, tutto ciò che è controcorrente (cit.) al mainstream di oggi: la “bassa qualità” (intesa alla Stefanelli) può essere il grimaldello utile a scardinare l’ipocrisia della perfezione pre-confezionata?

Onestamente credo di sì e credo anche che possa essere l’occasione per essere più onesti con chi ci ascolta. Fare musica in questo modo mi permette di essere molto più sincero. 

Come nasce una canzone di Stefanelli?

Nasce dalla voglia di raccontarsi. Mi piace molto stare con le persone e questo mi sembra un buon modo per farlo che tiene a mente anche il futuro. La musica ci permette di lasciare una traccia viva di noi.

Consigliaci un viaggio da fare e un disco da ascoltare nel tragitto.

Mi piace molto Bristol quindi vi consiglierei di andare lì e la colonna sonora perfetta è l’album “Protection” dei Massive Attack che sono di quelle parti. 

Salutaci come ti pare, ma dacci almeno un motivo buono per ascoltare “Rondò”, il tuo ultimo singolo per Dischi Rurali.

Vi saluto ringraziandovi per questa intervista. Ragazzi, ascoltate “RONDÒ” e non ve ne pentirete. Il buon motivo trovatelo voi!

Fiori di Cadillac, ma che succede fuori?

Fiori di Cadillac è il nome della band salernitana che avevamo intervistato qui.

Ebbene la band salernitana torna sulle scene con il brano Ma che succede fuori, con lo sguardo rivolto al mondo in un periodo storico particolarmente complesso come quello attuale. Il brano nasce in pieno lockdown, quando ci si è trovati costretti nelle proprie mura di casa e di pensiero ma con lo sgomento di chi poi cerca di domandarsi cosa succede nel mondo esterno.

Eravamo fuori dalla storia, alla periferia del mondo, ma non ci stavamo accorgendo che la storia stessa ci stava passando sopra, ci stava travolgendo. Guardando lì fuori, abbiamo sentito che qualcosa stava cambiando, la nascita di una rivoluzione, la nostra rivoluzione” afferma la band.

Il brano è ricco di synth e drum machine, di ansia e voglia di vivere che combattono fra loro. “Ma che succede fuori” ha visto la partecipazione di Rachid Bouchabla degli Ex Otago che ne ha curato mix e master.

Il video del nuovo brano dei Fiori di Cadillac vede i due protagonisti voler prendere parte alla rivoluzione, in quanto simbolo di lotta e resistenza. Non si sa come andrà, ma forse l’importante è esserne parte.

Ascolta la nostra playlist Spotify!

Dalila Spagnolo racconta la sua idea di gratitudine

Dalila Spagnolo è un’artista decisamente eclettica. Originaria di Lecce, si esprime in un linguaggio musicale fresco ma riflessivo. Il suo nuovo singolo si intitola Giallo fiore, un brano introspettivo ma condivisibile in cui emerge la sua idea di gratitudine.

Intervista a Dalila Spagnolo

Sei una giovane artista pugliese, ma la tua musica ha un respiro internazionale. Quanto la Puglia ha influenzato il tuo approccio alla musica stessa?

Sono affezionata alla Puglia e al Salento in particolare perché sono convinta che sia un cantiere di artisti talentuosi ed io mi sento, tanto orgogliosamente quanto umilmente dentro questo contenitore che li partorisce. Devo però ammettere che, di tanto in tanto, dimentico di essere Pugliese, Salentina o Leccese. Mi sento abitante del Mondo. Mi sento fortemente contaminata da altre culture e altri sound, che forse per questo si può avvertire quel respiro internazionale di cui parli.

Giallo fiore è un brano ricco di sfumature, vocali ed emozionali. Com’è andato il processo creativo?

Giallo Fiore nasce da sentimenti di timore nei confronti del periodo di lock-down che abbiamo vissuto. Il brano è stato scritto in due giorni differenti e questi si può percepire con facilità. Se per quasi tutta la durata del brano si parla di timore, di equilibrio e dei mali del mondo, alla fine arriva un’ondata di gratitudine maturata nel tempo. Il processo creativo è il mio processo interiore e questo è sempre prerogativa della mia fase di scrittura. Voglio usare l’orecchiabilità e la semplicità del testo per arrivare dritta al messaggio e renderlo fruibile a tutti.

La paura di vivere davvero e la fiducia sono tematiche che affronti in questo singolo che evidenzia un certo percorso artistico ed emotivo. Cosa vuoi raccontare?

Come ti dicevo, Giallo Fiore contiene al suo interno un piccolo percorso di crescita e di maturazione. Quasi un po’ tutti ci siamo accorti che alcune azioni, gesti e principi avevano perso di valore e che, forse, l’isolamento sociale forzato che abbiamo affrontato, ci ha fatto riconsiderare. Per questo motivo in Giallo fiore, conto i mali del mondo tra cui c’è la paura di vivere per davvero, che ci spinge a vivere di stenti pur di non varcare la tanto cara soglia della “zona comfort”, che ci spinge a non inseguire i nostri sogni perché sono difficili e ci abitua alla cultura del ‘facile e veloce’. Giallo fiore vuole ispirare alla gratitudine, come quella di veder sbocciare la primavera, anche se solo dal balcone di casa.

Quali sono gli artisti a cui ti ispiri?

La Black Music, il Soul e l’ R’n’B mi hanno sempre ispirato nella parte più profonda. Devo dire però che con gli anni qualcosa è cambiato. Infatti da un po’ di tempo fino ad oggi riesco senza sforzo ad apprezzare molti artisti italiani, che hanno fatto la storia, Pino Daniele, Dalla, Battisti, I più recenti come Bungaro, Pacifico, Bugo che ammiro nel modo di scrivere e i nuovi emergenti con un’anima soul come Davide Shorty, Serena Brancale, Ainé. Per gli arrangiamenti dei miei inediti faccio ancora riferimento al sound straniero, a quello americano piuttosto che a quello africano. Mi sento molto contaminata anche e soprattutto a causa dei miei studi nell’ambito del Gospel, del Jazz e del mio viaggio in Africa.

Progetti per il futuro?

  • A metà novembre pubblicherò il mio prossimo singolo, altro brano di sensibilizzazione, il quale avrà un videoclip molto significativo per me. Mi avvicino sempre di più alla pubblicazione del mio primo disco di inediti, il cui filo conduttore tra i brani è sempre l’esperienza fragile. Non vedo l’ora di poter comunicare la data, e di veder partorire questo primogenito tanto atteso, per il quale sto investendo tutto il mio tempo e le mie energie ormai da mesi. Per questo mi sento di ringraziare il mio produttore artistico e primo a credere in me: Luigi Russo, con il quale abbiamo arrangiato e registrato il disco presso il suo studio di registrazione “Il Cantiere Laboratorio Musicale”. New entry nel team è Carlo De Nuzzo, fonico di fama nazionale, con il quale abbiamo fatto un lavoro di ricerca sul sound dell’ultimo singolo. E ancora grazie al mio “Ufficio stampa e brand strategy” Vanessa Putignano, mia porta-voce.
Dalila Spagnolo

Segui Dalila su Instagram!

Taglia 42 ” Diletta Leotta”

0

La band Taglia 42 esordisce nell’estate 1997 con il singolo dal titolo ‘Regolare’, arrivando in finale a Sanremo Giovani.

L’anno seguente il gruppo partecipa al Festival di Sanremo nella Sezione Giovani, con un brano intitolato ‘Con il naso in su’. Segue la pubblicazione del primo album, anch’esso chiamato ‘Taglia 42’.

Successivamente la formazione si riduce dagli iniziali cinque componenti ai soli Occhipinti e Grandi e nell’estate 1999 esce il singolo ‘Rilassati’, anticipazione di ‘Due’, il secondo album. In questo lavoro si avvisa un profondo cambiamento nei testi, che divengono più duri e nella musica, più vicina al rock. Inoltre l’album vede svariate illustri collaborazioni, come Vasco Rossi per la scrittura del testo di ‘Pregi e difetti’, Mariadele che presta la voce per il brano ‘Dalla tua parte’ ed Evelina Arnesano che scrive il testo ‘Tu non mi stanchi mai’ su musica di Saverio Grandi.

Nello stesso anno il gruppo si scioglie ma la voce femminile prosegue la sua attività come solista, con il nome Sara6, partecipando alla Sezione Giovani del Festival di Sanremo 2001, al tradizionale appuntamento tv Natale in Vaticano 2005 ed a vari altri progetti, incidendo anche numerosi nuovi singoli.

Nel 2017 Serenella Occhipinti, Luca Longhini, Renato Droghetti, Stefano Peretto e la new entry Giorgio Santisi decidono di riunirsi e fondare gli Yessa, band che propone un repertorio di inediti, cover riarrangiate e pezzi originali dei Taglia 42. 

Nel 2018 gli Yessa interrompono la loro attività ma Serenella Occhipinti e Giorgio Santisi proseguono il progetto di band con il nome di Sara6 ed un sound soul, pop e funk molto accattivante e gradevole.

Dopo varie evoluzioni, i Taglia 42 sono attualmente composti da Serenella Occhipinti​, voce e Saverio Grandi, produzione ed arrangiamenti.

È da poco uscito ‘Diletta Leotta’, primo singolo di un progetto costituito da tre brani, che si completerà con la pubblicazione di un EP.

Il pezzo è stato scritto da Saverio Grandi, Serenella Occhipinti, Badhabit e Giorgio Santisi, con produzione di Badhabit e Saverio Grandi, etichetta PMS Studio e pubblicazione Quelli Come Noi Srl.

Il singolo si presenta con una copertina che ritrae, su fondo azzurro, un mezzo busto femminile di spalle, dai tratti disegnati. L’immagine certamente raffigura la Leotta ma in realtà rappresenta la bellezza di tutte le donne.

Sintesi delle trascorse esperienze musicali e personali dei due artisti, il brano è cantato da una donna che parla a tutte le donne, certamente già belle fuori e dentro ma che a volte, nel corso della vita, se ne dimenticano e vorrebbero essere diverse e ‘migliori’… perfette come Diletta Leotta, musa contemporanea di bellezza. 

In realtà la canzone chiude con

“Vorrei essere perfetta

alla fine va bene così

alla fine mi piaccio così” 

perché ogni donna è bella per ciò che è, migliorandosi a modo suo giorno per giorno. 

La canzone vuole trasmettere il messaggio che, nonostante i modelli proposti dalla società spingano verso la perfezione, alla fine è bello riscoprire la necessità e soprattutto il piacere di essere noi stesse, dandoci così il giusto valore. 

La divertente ma graffiante base soul pop, molto fresca ed estiva, subito orecchiabile e ballabile, accompagna un testo che, con leggerezza ed un’indispensabile dose di autoironia, invita a riflettere.

Accattivante e versatile la voce di Sara6, che interpreta in maniera perfetta lo spirito del brano, attribuendogli decisamente energia e carattere.

Stefania Castino

Il ricordo di Stefano Cucchi cantato da Pezzini

Stefano Cucchi rivive in Un ragazzo complicato

Il 22 ottobre 2010 Stefano Cucchi moriva ucciso dalle botte dei carabinieri che lo avevano arrestato in seguito all’ennesimo atto di microcriminalità commesso dal ragazzo. Un omicidio di Stato mascherato da “caduta dalle scale”, un simbolo della repressione e del bigottismo dell’Italia, un simbolo del perché opporsi all’oppressione delle forze armate.
Roberto Pezzini, ad undici anni dal delitto, ha pubblicato Un ragazzo complicato, canzone che ricorda il ragazzo e ripercorre la richiesta di giustizia della sorella, Ilaria Cucchi, che da quell’ottobre tremendo lotta per far emergere la verità sulla morte di Stefano.

Una lettera, un grido di rabbia e pentimento

Il brano di Pezzini non è solo una denuncia contro le forze dell’ordine. Un ragazzo complicato è scritto come una lettera di Cucchi alla sorella in cui, oltre al racconto della propria morte, il ragazzo chiede perdono per un comportamento in vita che ha causato dolore ai suoi cari e l’ha portato ad essere bersaglio del disprezzo dei carabinieri.

Mi chiamo Stefano, stefano cucchi,

i lividi sul viso li hanno visti tutti.
nella vita ne ha fatte di crude e di cotte,

ma non mi meritavo di morire di botte.

Nelle parole della canzone, Stefano chiede alla sorella di non arrendersi nella sua battaglia per la verità: nonostante i precedenti, nessun essere umano merita di essere pestato fino alla morte e di essere abbandonato ed escluso alla vista dei familiari come è successo a lui.

Una storia complicata e sbagliata

La vera storia di Cucchi è ormai di pubblico dominio, nonostante ancora ci sia chi nega, e la giustizia ancora deve fare il proprio corso.
La presa di posizione è evidente, da parte dell’autore, ed è importante commemorare determinati eventi, soprattutto se drammatici come quello al centro del caso Cucchi.
Un ragazzo complicato mette al centro il vero problema scatenante la tragedia, cioè l’incapacità istituzionale di gestire i dispositivi violenti di cui ha il monopolio e la difficoltà a far uscire le persone svantaggiate dall’emarginazione e dalla violenza in cui rischiano di cadere.
Al di là dei colori politici, è questa l’unica vera questione su cui focalizzarsi, e Pezzini la rappresenta con consapevolezza, precisione e passione allo stesso tempo.

IL PRIMO CADAVERE NON SI SCORDA MAI

La stanza è piccola e fredda, come tutte le camere all’interno di un manicomio criminale. Qui ci sono rinchiusi i casi più pericolosi, gli uomini definiti pazzi e malvagi. C’è gente che ha commesso i crimini più atroci, che fanno accapponare la pelle al solo pensiero. Per me è un luogo di lavoro, un posto di caccia per i miei saggi di settore. Ho sempre avuto la passione per la mente umana, questa membrana molliccia che nasconde la nostra vera essenza, rivelandola solo per brevi istanti. Da bambino passavo le giornate a chiedermi perché le persone agivano in un determinato modo, perché avevano quei particolari atteggiamenti. Le osservavo affascinato, come una donna davanti alla vetrina di un negozio.

All’università, dopo la laurea in psicologia, decisi che avrei dedicato la mia vita a quelle persone che hanno il male radicato dentro di loro. Decisi di studiare le menti dei serial killer, per capire come poteva una persona, apparentemente normale, macchiarsi di crimini così disumani. Ora ho quarant’anni, con una carriera che ormai sfiora i venti. Ho visitato molte persone e studiato molti casi. Mi sono trovato davanti gli uomini e le donne più squilibrate della terra.

Nei cinque libri che ho scritto, potete trovare le storie più assurde e terrificanti. Gli aspetti più paurosi, secondo il mio modesto parere, non sono i dettagli macabri degli efferati omicidi che queste persone hanno commesso, sono i loro occhi quando mi danno le motivazioni più assurde alla domanda “Perché l’hai fatto?”. Ho ascoltato gente che ha squartato per gelosia, strangolato persone innocenti perché vestivano in maniera stravagante. Vi ricorderete senz’altro di Jeffrey, il pazzo che viaggiava da solo ed uccideva le persone che gli capitavano senza motivo? Iniziò con una coppia mentre stava scappando dalla moglie. Quando mi chiamarono per visitarlo, ero molto contento.

Era una caso molto interessante e quando ci parlai e riuscii a fargli delle domande, lui rispose con educazione e rispetto. Era diverso da tutti gli altri, era colto e parlava in maniera molto forbita. Mi dissero che era l’unico in tutto il braccio dove è stato rinchiuso, a leggere in maniera ossessiva. Legge solo fumetti e thriller tascabili. Una volta mi disse che lui non odiava le persone che aveva ucciso, semplicemente gli avevano mancato di rispetto. Mi raccontò della sua vita e di come era stato succube delle due donne che gli avevano rovinato la vita e i sogni, la madre e la moglie. Non si definiva cattivo, aveva fatto quello che aveva fatto perché era stato il padre a suggerirglielo.

Ora sono all’apice della mia carriera e sto per coronare il mio sogno. Dopo anni ed anni di richieste, hanno finalmente accettato e potrò intervistare il peggior serial killer di tutti i tempi. Lo hanno chiamato Lucifero, perché solo il Signore dell’inferno può arrivare ad avere tanta cattiveria. Ho inseguito questo caso fin da giovane, quando lo presero dopo anni ed anni di ricerche ed arresti a vuoto. Dick Dillon, un omone di centoquaranta chili per due metri e venti. Nato e cresciuto a Wentworth Ohio, crebbe in una normale famiglia di contadini e allevatori, ultimo di quattro fratelli.

Fin da subito dimostrò di non essere un bambino come tutti gli altri. Prediligeva la solitudine alla compagnia dei fratelli. Non aveva amici e non li cercò mai. Amava vagare per le strade della cittadina, raccogliere i cadaveri delle povere creature morte che trovava per strada, per poi seviziare i corpi nel suo nascondiglio. Verso i dodici anni iniziò a prendere gusto all’attività e passò dagli animali morti a quelli vivi. Uno dei suoi fratelli, l’unico che accettò il mio invito a fargli qualche domanda, mi disse che la loro mamma era convinta che Dick è l’incarnazione stessa del diavolo. La spiegazione si troverebbe in una strana voglia che suo figlio avrebbe sulla mano sinistra. Ha la forma di un forcone, proprio quello che Lucifero porta in alcune sue rappresentazioni.

Ovviamente nessuno ha mai creduto a quella leggenda, ma la storia sembra dargli ragione. Dick ha sempre manifestato comportamenti malvagi. Il primo a trovare il suo nascondiglio e ha scoprire la macabra passione di suo fratello fu Kobe il terzo figlio. Lo seguì un pomeriggio estivo e quello che vide lo sconvolse per molti anni. In una modesta casa di legno abbandonata nel bosco, Dick conservava cadaveri smembrati, pezzi di animali perfettamente conservati ed oggetti derivati dai loro scheletri e teschi. Negli anni seguenti i genitori hanno cercato di far visitare il loro figlio da molti esperti, ma Dick è molto furbo ed intelligente oltre che malvagio.

Nessun dottore ha mai riscontrato comportamenti strani e il povero Kobe è passato per bugiardo. Ovviamente Dick, fece sparire tutte le prove dei suoi crimini. Un genio del male, una persona con un quoziente intellettivo fuori dal comune. Ci sono voluti anni prima di poterlo arrestare, anni in cui Dick si è macchiato dei peggiori crimini, facendo quello che da bambino faceva agli animali, alle persone comuni senza un nesso logico. Molti pensano, ed io sono tra questi, che Dick si è fatto prendere dopo tanto tempo passato ad uccidere, perché si era annoiato della sua vita e voleva cambiare. Ho studiato molto il suo caso, per me è come il Santo Graal. Le ultime persone che ha ucciso, ha lasciato sul campo dei piccoli dettagli.

Ha sfidato le autorità ed ha perso quando si è stancato. Ora ha settant’anni e non gli è rimasto molto da vivere, gli hanno scoperto un tumore ai polmoni proprio un anno fa. Anche per questo mi hanno concesso l’intervista. Sarà il capitolo più bello del mio prossimo libro. Sento dei passi, aprono la porta e vedo un uomo apparentemente distinto, la malattia lo sta divorando ma è ancora alto. Barba e capelli lunghi bianchissimi e molto curati.

Molto secco, tanto che il pigiama arancione che ha indosso gli va molto largo. I due poliziotti che lo hanno accompagnato, lo ammanettano al tavolo e se ne vanno.

Rimangono fuori dalla porta. Guardo i suoi occhi e sento un brivido scorrermi dietro la schiena. Ha gli occhi di ghiaccio, nonostante la sofferenza dovuta agli anni e alla malattia, ha ancora uno sguardo gelido come i venti che soffiano al polo sud d’inverno. Non parla, è entrato già da un quarto d’ora e non ha ancora detto una sola parola. Non ha nulla da dire ed è abituato a vivere da solo. Dovrò tirare fuori tutta la mia bravura di psicologo per farmi dire qualcosa d’interessante. Tiro fuori il mio porta tabacco e inizio a girarmi una sigaretta, con tutta la calma che posso.

Se lui studia me, io studio lui. Noto subito un cambiamento nei suoi occhi, ha spostato lo sguardo appena ho tirato fuori il mio pacchetto nero. Prima guardava me, ora guarda le mie mani che girano la cartina con dentro il tabacco. Probabilmente è un fumatore, ha smesso per via del tumore ma gli sono rimasti i baffi e le dita di colore giallo. Provo a rompere il ghiaccio, non ci siamo ancora presentati ma in questi contesti poco importa.

<< Gradisce una sigaretta? >>

lui ritorna a guardarmi negli occhi, i suoi congelano l’anima di chiunque ha la sfortuna d’incrociarli.

<< Non dovrei, ho un tumore ai polmoni>>

<< Allora come non detto. Ne giro una soltanto>>

<< Non ho detto che non voglio, ho detto non dovrei. Sono tante le cose non dovevo fare ma le ho fatte ugualmente, non sarà una sigaretta il problema>>

<< Sono d’accordo con lei>> mi limito a rispondere, mi metto la mia sigaretta tra le labbra senza accenderla e ne faccio un’altra per lui. Mentre mi sporgo per mettergliela in bocca, mi presento. Mi sembra giusto farlo.

<< Buongiorno Signor Dillon, mi chiamo Jeames Cook e sono uno psichiatra>> Allungo la mano con lo zippo e accendo le sigarette.

<< Lo so chi è lei, ho letto i suoi libri ed è molto bravo. Posso anche immaginare cosa ci facciamo in questa stanza>>

Quell’affermazione mi spiazza di parecchio, non pensavo che leggesse i miei libri. Continua a guardarmi mentre aspira una boccata di fumo e tossisce subito dopo. Mi sta studiando, sembro io il paziente e lui lo psicologo. Mi ero preparato tutto un discorso, pensavo di prenderla alla larga per poi arrivare al punto cruciale, alla domanda che avrebbe infiammato il mio capitolo. Ma la sua affermazione ha rovinato ogni mio piano. Non posso tergiversare, butterei al cesso l’unica possibilità che ho di intervistare il mio cliente più prezioso. So che lui si aspetta questo, che io sia diretto e senza preamboli.

Mi ha studiato attraverso i miei libri, probabilmente qualcuno gli ha detto di questa mia visita e si è preparato per l’occasione. Come chi noleggia un vestito elegante per non fare brutta figura ad una festa importante.

Altre boccate di entrambi, le sue seguite da brutti colpi di tosse. La mia ultima boccata è stata profonda, quasi a cercare nel fumo la spinta necessaria. Spengo la cicca nel posacenere precedentemente posto sopra il nostro tavolo e parto diretto.

<< Sei un uomo brillante, hai un intelligenza fuori dal comune, cosa ti ha spinto ad uccidere le persone e nella maniera più spietata? Non dirmi che sei veramente legato a Satana come dicono tutti? >> ho preso forse troppo coraggio, le parole mi sono uscite senza freni. Una parte di me si è già pentita. Pazienza, quel che è fatto è fatto. Lui finisce la sua sigaretta, non sembra sorpreso della domanda, sicuramente l’aveva calcolata. Forse non si aspettava che gliela facessi così direttamente, ma non sembra turbarlo. Sembra rielaborare le idee, si prende il suo tempo. Io attendo pazientemente, nel frattempo chiedo ad uno dei poliziotti se può portarci due caffè. Dick annuisce in segno di gradimento, poi parla per la seconda volta in più di mezz’ora.

<<La prima volta avevo ventitré anni e frequentavo ancora il Collage, non mi scorderò mai quel momento. Non facevo più esperimenti con gli animali da ormai molti anni, mi comportavo bene a tal punto che la mia famiglia pensava fossi guarito. Mio padre disse che i soldi che aveva speso per farmi visitare, furono parecchi ma non spesi inutilmente. Invece non sapevano che ero come un vulcano dormiente. Aspettavo solamente l’occasione giusta. Ed arrivò come un regalo durante il mio ventitreesimo compleanno.

La mia apparente normalità e il fatto che aiutavo, di tanto in tanto, alcuni miei coetanei con gli studi e i compiti, mi aveva procurato molti amici. Decisi di festeggiare in un pub poco vicino il campus con tutti loro. Ci fu un bel casino quella sera, la mia vera natura ancora dormiva beatamente in un angolo nascosto della mia mente. Poi ci fu qualcosa che cambiò radicalmente la mia vita. Non so dirti esattamente perché, sta di fatto che intorno al tavolo eravamo circa una trentina di ragazzi, tutti ubriachi persi. Facevamo un bel casino, in tutto il locale si sentivano solo le nostre urla. Finché non venne il proprietario a dirci che dovevamo smetterla, altrimenti avrebbe chiamato la polizia.

Era un uomo baffuto, non tanto alto e con la pancia tipica di chi beve molta birra e mangia molti hamburger. Molti dei miei amici si alzarono con fare da sfida, pronti ad una rissa. Io li calmai, mi alzai e chiesi scusa al proprietario. Dissi che aveva ragione e che avremmo lasciato il locale non appena pagato il conto.

Pagai tutto io, com’era giusto e andammo a continuare la festa al campus. Molti dei miei amici mi prendevano in giro, dicevano che non avevo le palle, che dovevo farmi rispettare al pub. Era pur sempre il mio fottuto compleanno. Non capivano invece che qualcosa era cambiato quella sera. Qualcosa si era svegliato dopo un lungo sonno.

Alcuni di loro lo capirono mesi dopo, pagando con la loro vita. Ma questa è un’altra storia. Passarono due giorni da quella festa, i dolori da post-sbornia passarono e così tornai nuovamente al pub.

Mi sedetti al bancone e pagai due birre, una per me ed una per il proprietario. Mi scusai nuovamente e facemmo un brindisi al mio compleanno oramai passato. Non c’era molto movimento quella sera, le poche persone che sedevano intorno ai tavoli, avevano gli occhi fissi sulle finali NBA che stavano trasmettendo in televisione. Ne approfittai per scambiare due chiacchiere con l’uomo baffuto che aveva invitato me e i miei amici ad andare via dal suo locale. Tra un sorso e l’altro, appresi che si chiamava Alex Deaver era originario del Mississippi, si era trasferito con sua moglie Jennifer circa dieci anni prima. Aveva venduto la fattoria di famiglia e con i soldi ricavati, aveva aperto il pub a Chicago.

Dopo anni di lamentele, aveva assecondato sua moglie che non sopportava più la vita di provincia, desiderava vivere in città. Avevano solamente un figlio maschio di undici anni, tra risate e ammiccamenti, giuravano che ci stavano provando ad avere una femminuccia. Io risi con lui. Non viaggiava mai con la macchina di sera, ci vedeva poco e preferiva prendere i mezzi pubblici. Abitava a quattro isolati, così mi offrii di dargli un passaggio. Mio padre mi regalò una Cadillac usata quando venni promosso. Lui accettò il passaggio a patto che smettessi di bere altre birre, era un po’ apprensivo come tipo.

Gli feci una promessa solenne, mi scolai l’ultima che avevo ancora in mano ed attesi pazientemente che finisse di pulire il locale. Buttai uno sguardo al televisore, i Lakers avevano vinto di nuovo con una tripla proprio sulla sirena e si erano portati in vantaggio. Ora conducevano le finali per 3 partite a 2. In macchina la radio trasmetteva una cover rock di un vecchio pezzo blues.

Alex sembrò apprezzare molto, d’altronde era un uomo di colore cresciuto nel Mississippi, era la musica della sua infanzia. Il quartiere dove abitava era molto tranquillo e residenziale. Abitava in un palazzo non molto alto, al secondo piano. Ci salutammo calorosamente con una stretta di mano. Mi disse che era dispiaciuto per l’altra sera e di come ci aveva trattato. “Sei un bravo ragazzo” aggiunse poco prima di scendere dalla mia macchina. Io ringraziai, lo vidi aprire il portone prima di ripartire lentamente. Il grande giorno arrivò una settimana dopo. Continuai a frequentare il pub e instaurammo un buon rapporto. Quella sera sapevo che sarebbe rimasto chiuso, lui e sua moglie erano da soli.

Il bambino era andato dagli zii e loro volevano una serata tutta per loro. Così comprai un dolce ed una bottiglia di vino italiano e mi presentai a casa sua introno alle dieci di sera con la scusa di portare i migliori auguri di pronta guarigione alla signora che non stava molto bene. Alex ne fu emozionato, nessuno degli altri clienti aveva avuto un atteggiamento così gentile nei suoi confronti, nemmeno i clienti che frequentavano il pub da dieci anni.

Mi fece entrare e mi presentò a sua moglie che sedeva febbricitante sul divano con una coperta addosso. La pregai di rimanere seduta, di non scomodarsi e così fece. Alex portò i miei doni in cucina ed iniziò a tagliare il dolce. Tornò qualche minuto più tardi con un piccolo vassoio a rotelle. Su di esso c’erano tre piccoli piatti e tre bicchieri con il vino. Mangiammo tutti il dolce e assaggiammo il vino. Io feci finta di bere, al contrario di Alex e Jennifer che fecero un bel sorso.

Attesi che il potente sonnifero fece effetto, poi andai in cucina e con un coltello e del sale iniziai il mio divertimento. Certamente legai prima i miei preziosi amici e li imbavagliai per non farli urlare. Erano talmente contenti della sorpresa che gli avevo fatto, da non notare che non mi ero mai tolto i guanti. Lo stupore mischiato al dolore, quando iniziai a praticare piccoli tagli sul corpo di Alex, fu per me una goduria estrema.

Hai presente la sensazione che provi quando la donna che ti piace, accetta il tuo invito e finalmente a fine serata si spoglia nuda davanti a te prima di farlo? Quella era la sensazione che provai quella sera e tutte le volte che mettevo fine alla vita di una persona. L’inesperienza e l’eccitazione mi fecero commettere un piccolo errore. Soprattutto con Jennifer. Volevo divertirmi mettendo del sale sul sangue, ma non sapevo ancora praticare le ferite giuste, così praticai dei tagli troppo profondi e morirono dissanguati prima di avere il tempo di divertirmi un po’.

In futuro non commisi mai più quegli errori. Ricordo una delle ultime vittime, riuscii a scuoiarlo per metà che ancora era vivo. Fu un capolavoro. Però le sensazioni che provai la prima volta che uccisi, non le dimenticherò mai. Il primo cadavere non si scorda mai, un po’ come l’amore>>

finisce il suo raccapricciante racconto e mi guarda compiaciuto, come se avesse raccontato una barzelletta ed io avessi riso di cuore. Sinceramente non so come continuare, mi ha spiazzato. Non è la prima volta che ascolto il delirio di questi pazzi, ma nessuno aveva gli occhi divertiti come i suoi. A questo punto non credo sia opportuno continuare la conversazione. Ho tutti gli elementi necessari per scrivere il mio capitolo ed ho bisogno di aria fresca. Credo che andrò in vacanza al mare per terminare il libro. Mi alzo e faccio segno alle guardie che la conversazione è finita.

Abbiamo finito entrambi il caffè, lui si fa ammanettare senza problemi e con fatica segue i passi delle guardie che lo stanno riaccompagnando in cella. Io ringrazio personalmente il direttore per questa opportunità che mi ha dato esco e mi godo l’aria fresca e il sole. Stavo letteralmente soffocando in quel posto. Prendo la macchina e torno a casa a studiare gli appunti che ho preso.

Sono passati due mesi da quando ho intervistato Dick Dillon, ho finito il libro e dopo una settimana dalla pubblicazione, hanno già esaurito la prima edizione e mandato in stampa la seconda. Il direttore del manicomio criminale mi ha chiamato questa mattina, Dick è morto nella notte. Sono partito per raggiungere i miei genitori, ho una copia del mio libro e voglio lasciarlo a loro. Non ho mai lasciato i miei libri sulle loro tombe, ma questo è un libro importante per me e per loro. Ho davanti i loro nomi: Alex e Jennifer Deaver.

<< Ciao papà, ciao mamma. Scusatemi, lo so che non ci vediamo da tempo, ma dovevo finire il libro. Sta andando molto bene, vi ho portato una copia per voi. Mi hanno chiamato questa mattina, finalmente è morto. A quest’ora la sua anima starà bruciando all’inferno insieme al suo amico Satana. Ora spero di riuscire a dormire bene, dopo tanti anni me lo merito. Questa notte per la prima volta dopo tanto tempo, non ho sognato quella tremenda notte. Volevo dormire dallo zio Michael, volevo giocare con Jim. Dopo un po’ di capricci vi ho convinto e dopo la cena sono andato via con gli zii. Le vostre ultime parole sono state “Non far arrabbiare lo zio, altrimenti quando torni le prendi”. Ora vado, devo andare a New York per presentare il libro. Vi voglio bene.

Clementi Simone

Immagini prese da Google Immagini

LAMETTE: videointervista al duo lo-fi

Il duo Lamette propone musica a metà strada fra le sonorità lo-fi e l’hip-hop. Costituito da Nevada (Vasco Cassinelli) e Stian (Cristian Pinieri), è un progetto che singolo dopo singolo si sta affermando all’interno del panorama Indie Italiano. Il loro pubblico è in crescita e gli addetti al settore  li hanno già accolti con interesse tra le fila dei nomi caldi delle playlist editoriali, raccogliendo buoni consensi. I due ragazzi piacentini, classe ’98, si conoscono alle superiori e da lì iniziano ad approcciarsi al mondo della produzione e  della scrittura dei loro primi testi. 

Dal 9 ottobre possiamo ascoltare il nuovo singolo del duo, dal titolo “Zucchero filato”. Il brano, autoprodotto, pubblicato con Aurora Dischi, ha un sound fresco e un ritmo coinvolgente sin dal primo ascolto. Racconta di un innamoramento fatale, quasi inaspettato.

In questo video i Lamette rispondono alle nostre domande.

Lamette

Guarda anche la videointervista a Leonardo Zaccaria!