Millepiani, un’introduzione a “Eclissi e albedo”

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Ci vuol coraggio, nel 2020, a tirar fuori un disco come “Eclissi e albedo”. Quindi, solo per la follia sottesa nella scrittura di un lavoro del genere, merita di essere ascoltato senza farsi deviare dalle decine di inciampi semantici che qua e là, se avrete anche voi coraggio nel gustarvi e farvi fare a pezzi dalle otto tracce del disco, vi troverete davanti.

Sì, perché il primo disco di Millepiani (cantautore di Carrara con tanta esperienza alle spalle) è un almanacco di cose perdute, di parole lasciate in un angolo a prendere polvere da un tempo sempre più liquido, da una società sempre più ignorante e dal nostro dilagante analfabetismo virale, che sembra averci portato via ciò che di più importante e vitale abbiamo a disposizione per mantenerci liberi e sinceri: il linguaggio. Ecco, in un’era fatta di parole vendute come caramelle ai comizi del venditore di turno o nei testi dell’ennesimo cantautore per slogan, Millepiani ci fa riprendere il mano il vocabolario per ricordarci quanto possa essere bello, per una volta in modo non campanilistico ma spiccatamente umanista, riscoprirci italiani.

Contro la Bugia universalizzata e il richiamo della razza (chiamiamolo come va chiamato, che sennò poi ci danno dei buonisti…), Millepiani sembra avere le idee chiare su come risolvere il problema dell’italiotismo (ovvero, l’estrema idiotismo dell’italiano medio orgoglioso di essere tale), dimostrando che per sentirci qualcosa abbiamo bisogno di studiare, e tanto, e conoscere le radici e il senso di un linguaggio poetico e letterario illustre, che dietro ogni parola nasconde un mondo di implicazioni, di discendenze e di parentele capaci di dimostrare che, in fondo, di italiano c’è davvero poco nel nostro essere fieramente italiani.

E così, “Eclissi e albedo” tira fuori grecismi, sofismi letterari, azzardi linguistici degni del miglior bacelliere di parola (come lo definirebbe il buon Guccini): otto tracce dense, a tratti spinose, che rotolano in direzione ostinata e contraria rispetto al mercato di oggi; la produzione ammicca a sonorità moderne, sì, ma solo per dimostrare che il futuro ha un cuore antichissimo: tanto rock e brit-pop a suffragare la poesia di una penna alternativa figlia del miglior cantautorato nostrano, che nel secolo del semplicismo obbligato sfida l’ascoltatore con riferimenti ad Aristotele, a Calvino, ai grandi scrittori russi.

La cosa più bella? Che “Eclissi e albedo” è un disco che si fa mangiare, da tutti. Sì, perché che la cultura sia appannaggio di pochi è un alibi stantio, in mano ai pigri e ai radical chic. L’alta cucina può essere degustata e apprezzata anche senza conoscere a fondo i segreti della molecolarità, ed “Eclissi e albedo” sa arrivare al cuore di tutti (anche di chi, come me, può far fatica a digerirne talvolta le scelte lessicali) perché fondata su quell’umanità che appartiene a tutti; la rifrazione della luce, che rimbalza sugli specchi di una vita caleidoscopica pronta costantemente a cambiare punti d’osservazione, è il centro di un’estetica che si fa etica e poesia: le crepe, le fratture dell’esistenza sono tappe necessarie per abbattere muri, per far sì che la luce possa tornare a filtrare dalle falle aperte di un cervello senza finestre (per dirla alla Battiato).

Insomma, non serve una laurea per ascoltare “Eclissi e albedo” (anche se fa comodo). Non perdetevi l’occasione, per quaranta minuti, di sentirvi un po’ più intelligenti (com’è successo a me), un po’ più umani.

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