Qualche giorno fa (per l’esattezza, giusto venerdì scorso) nel mare magnum di Spotify ho avuto l’occasione salvifica di preservarmi dalla deriva del weekend aggrappandomi a “Udine”, salvagente provvidenziale lanciato da Cigno a tutti i naufraghi dell’indie come me. Insomma, un’ottima occasione per non andare a fondo e rimanere a galla, ma soprattutto per farmi una chiacchierata con uno degli artisti più interessanti che ho scoperto negli ultimi mesi.
Ciao Cigno, sei uno dei miei cantautori preferiti e vorrei che mi dicessi, secondo te, il perché: tre aggettivi che contraddistinguono la tua musica, e uno che proprio senti non appartenerti.
Onirica, rétro, sbiadita. Sicuramente non è coreutica.
Ma tu te lo ricordi il primo contatto con la musica che hai avuto? Portaci lontano: siamo inguaribili nostalgici.
1994. Ero sulle gambe di mio zio, e mi divertivo a passare la mia manina (avrò avuto 2 anni) sulle corde della chitarra suonando solo con la mano destra. Avete presente quel suono di chitarra a corde aperte? Da giù verso su, e da su verso giù. Per ore e ore… Non ho più smesso.
Come nasce un brano di Cigno? Ciò che più colpisce di più è, oltre che la tua scrittura, l’utilizzo dei suoni e il missaggio scelto, per tener sotto redini la continua sovrapposizione di strumenti e sonorità diverse… insomma, qual’è il tuo approccio alla composizione?
Il rapporto è un po’ potenza-atto. Come quando uno scultore sceglie la pietra e vede già la statua nella sua pietra. Ho delle visioni del brano già completo, e ci metto anche più di due mesi per arrivare a realizzarla come l’ho sognata. È frustrante però. Perché a immaginarla ci metti 3 secondi e a farla 3 mesi, bene che ti va. Come si dice: “tra il dire e il fare” …
“Udine” è una canzone d’amore, sì, ma diversa. Tra l’altro, è nata in modo particolare, quasi rocambolesco. Ti va di parlarcene un po’ più approfonditamente
Nasce in un viaggio verso Udine, una città che non si conosce, in cui non si è mai stati, e la si immagina dandole le caratteristiche del proprio disagio interiore. Eravamo stati invitati a Udine dal SofarUdine io e mia sorella Ilenia Bianchi, bravissima cantante e autrice. Durante il viaggio è uscito fuori il ritornello del brano, che ho conservato come nota audio, fino a qualche mese fa dopo che ne ho tirato fuori una canzone. Volevo che il brano avesse un sapore dolce aspro, tipo la cedrata Tassoni, che adoro. Inoltre avevo in mente il ricordo offuscato della sigla di Mc Gyver, non so perché. Chissà se lo danno ancora in tv, ma quando ero bambino e avevo la febbre, era una sicurezza, lo guardavo sempre. E poi c’è l’influenza dei Kino, un gruppo russo anni ‘80. Mi hanno ispirato le loro atmosfere cupe, rigide, fredde che sono molto alienanti se aggiunte alla nostra percezione della lingua russa. Sono pazzeschi. Nel brano poi c’è anche la paura di non essere più entità singole. La consapevolezza di essere ormai divisi indissolubilmente in un’altra persona. C’è l’amore che può diventare un’ecografia di 2 settimane in bianco e nero, con una lucina bianca che lampeggia veloce. Un cuore che va all’impazzata. Una cosa troppo profonda, così profonda che diventa buia come l’abisso dell’oceano.
Un film, una canzone e un libro che, di fronte all’imminente lockdown, non possiamo esimerci dal (ri)scoprire.
Film: Fritz Lang – “Metropolis”. Libro: Georges Ivanovich Gurdjieff – “I racconti di Belzebù a suo nipote”. Canzone: Tom Waits – “Ol’ 55”.
Un tuo pensiero circa il destino della cultura in Italia, paese in cui pare non essere più essenziale tutelare la vita di teatri e cultura.
Qualche giorno fa ho appreso la triste notizia che vogliono chiudere Rai Storia. Io adoro Rai Storia: Barbero, Paolo Mieli, Ponzani etc. Quindi ho avuto un primo momento di desolazione. Poi però mi sono detto: “chiudono Rai Storia, ma non chiudono la passione per la storia”. Finché sarò vivo io e tutti gli appassionati di storia, la storia non morirà. Quindi in qualche modo risolveremo. Creeremo un altro canale. Oppure la vivremo con dei mezzi più moderni: podcast, YouTube oppure le vecchie care conferenze e dibattiti. Questa mia riflessione vale per tutta la cultura in modo generico.
E Cigno, invece, ci crede ad un’umanità nuova, alla fine di questo incubo di Covid e DPCM? O ne usciremo ancora più imbruttiti, soli e ignoranti?
Parafrasando le parole di Umberto Galimberti, penso che ne usciremo uguali a prima. Solo con la grande fame e foga di chi è stato in astinenza per tanto tempo. In astinenza dalla foga del consumismo, in cui tutti, vuoi o non vuoi, siamo intrappolati.