Chi mi conosce sa che io, per Ibisco, ho un debole da fanboy da circa due annetti, da quando cioè, prima ancora che il cantautore emiliano (di Bazzano, che non è Bologna e forse, in un certo senso, è posto ancora più punk rispetto al più celebre capoluogo felsineo) esordisse ufficialmente, per motivi vari e canali imprevedibili mi imbattei nell’ascolto “di contrabbando” di “Meduse”, singolo apripista di un disco che oggi esce dalle riserve di Filippo per consegnare alla storia una sontuosissima goccia di splendore che ha lo stesso sapore del tritolo, dello smog e della nebbia padana.
Un totem che svetta con l’imponenza dell’archeologia industriale, “Nowhere Emilia“, rievocando mondi lontani eppure vicinissimi, nella riuscita alchimia di un progetto che sembra saper gestire il miracolo della sintesi senza farlo apparire né forzato né virtuoso, ma piuttosto naturale suppurazione di un qualcosa che è cresciuto sotto pelle, tra gli spifferi del cemento e sotto un cielo che più che un’ambizione sembra diventare – sopratutto in certe città – un limite invalicabile, una coperta che cela le stelle.
Dieci brani che sanno di Bologna, di caos, di anarchia liquida che s’insinua e scivola tra le trame baudelaireane dei nuovi fiori del male, quelli cioè cresciuti di straforo laddove l’asfalto non permette il respiro e l’unica esistenza possibile è quella della resistenza: c’è il disastro giovanile, in Ibisco, ma in una forma che supera l’immanenza della sua generazione per richiamare a tempi vicini e lontani, in un valzer che unisce in passo doppio Ian Curtis e Lindo Ferretti, MGMT e CSI, The Horrors e i primi, ispiratissimi gruppi new-wave della scena nazionale.
Sì, credo che Ibisco abbia tutte le carte in regola per migliorare la nostra contemporaneità, ed è anche per questo che vederlo suonare a La Jungla Factory per Back To Futura e Incontri Esistenziali (tre realtà che, se singolarmente erano già riuscite a far parlare di sé, figuriamoci in combo) ha avuto per me lo stesso valore di diritto e dovere inalienabile dell’ascoltatore moderno: abbiamo il diritto di pretendere musica che vale, ma abbiamo sopratutto il dovere di incoraggiarla ad esistere partecipando, aggregandoci, incontrandoci. Perché, per citare, uno dei precetti fondamentali di Incontri Esistenziali, associazione promotrice della sinergia di BTF e La Jungla Factory:
Ibisco, un disco d’esordio che brucia come la soda caustica e un immaginario poetico che pare attingere a piene mani da Joy Division, MGMT e scena new wave italiana. Quanto siamo andati lontani dagli ascolti che contraddistinguono “Nowhere Emilia”?
Direi ci siate andati parecchio vicino, anche se devo ammettere che la scena new wave italiana ho iniziato a ascoltarla dopo aver già terminato il lavoro sull’album.
Come si avvicina Filippo alla musica? Sembri essere uno che, prima di pubblicare il proprio disco d’esordio, un po’ di “palestra” autorale e musicale l’aveva già fatta…
Ho iniziato a suonare chitarra e tastiere, da autodidatta, intorno ai 13 e mi sono avvicinato al canto con qualche anno di ritardo. La curiosità di scrivere brani nasce intorno ai 18, con le prime band di amici si iniziava ad abbozzare qualche traccia con risultati devo dire abbastanza deludenti. Ho messo a fuoco la questione intorno ai 20-21 anni, forse quando ho iniziato a capire meglio anche chi fossi. È chiaro che un certo grado di soddisfazione non possa prodursi senza una discreta quantità di fallimenti precedenti, è molto importante capire chi non si è.
Poi Bologna, la periferia fumosa, la nebbia della Padana: elementi paesaggistici che diventano, in “Nowhere Emilia”, chiavi di lettura ed interpretazione emotiva, musicale, umana. Insomma, esiste una precisa “geografia dell’anima” nel tuo disco d’esordio?
Assolutamente, il mio disco è situato molto spesso su quell’impercettibile confine che separa scenografia e introspezione, paesaggio e fragilità emotiva. Esiste una moltiplicazione dei luoghi nella misura in cui ognuno ne assorba i rilievi rielaborandoli in chiave inedita.
“Meduse”, “Ragazzi”, “Pianure” e “Chimiche” sono stati i singoli che hanno aperto la via all’esordio. Se vogliamo, sembra esserci anche una sorta di “climax” utile a far esplodere “Nowhere Emilia” con la giusta intensità, ma anche fornendo al pubblico gli strumenti necessari per conoscere le varie anime di Ibisco. Come ti relazioni all’idea di “singolo”, che oggi pare essere l’unica via di pubblicazione possibile in un mercato che mal sopporta l’impegno poetico del “disco”?
Sono grande sostenitore del “disco”, credo sia l’unità minima con cui la musica possa manifestarsi sul panorama culturale ambendo ad avere un certo “peso”. I singoli sono utili soprattutto in termini promozionali, specie per progetti emergenti che necessitino di comunicarsi poco per volta, lasciando al pubblico la possibilità di prendere in un certo senso le misure e crearsi un’aspettativa. Apprezzo molto, dall’altro lato, il coraggio di quegli artisti che non indugino, quando la loro visione glielo suggerisca, nel pubblicare un album senza anticiparne le tracce, mi viene in mente l’ultimo di Cosmo.
In “Tintoria”, recuperi Pasolini certificando l’idea di uno scenario poetico ben preciso. Perché proprio il poeta di Casarsa?
Pasolini è un genio e durante il periodo di produzione del brano capitava spesso che guardassi suoi (rarissimi) video-documenti sparsi per la rete. Essendo “Tintoria” un pezzo fondamentalmente volto a minare il pensiero perbenista, mi è sembrata da subito elettrizzante – per quanto rischiosa – l’idea di inserire un “best of” dei suoi interventi televisivi all’interno della traccia, nessuno meglio di lui avrebbe potuto dare voce a quello spirito anti-moralista.
Chiudiamo con una domanda simpatica, che credo possa essere utile a tutti: dicci i cinque posti preferiti di Ibisco a Bologna, facci una mini-mappa turistica della tua “Dark Bologna” facendoci viaggiare attraverso luoghi meno avezzi ad essere inseriti nei classici itinerari…
Pratello, Petroni, Guasto, Stalingrado, San Donato.