I ‘pezzi’ d’arte di LABADANzky

Da materiali di scarto a sculture vere e proprie

Spesso gli artisti si creano degli alter ego per mantenere separata la vita privata da quella pubblica. Tra questi c’è anche LABADANzky, il quale, sebbene non faccia della propria identità anagrafica un gran segreto e scherzando affermi “non sono Batman“, preferisce non collegarla alla propria produzione artistica.

Lo pseudonimo LABADANzky deriva dalla storpiatura di un soprannome che l’artista aveva da ragazzo. Essendo un neologismo, egli si è anche riservato il diritto di sceglierne l’ortografia optando quindi per una parte in lettere maiuscole e una in minuscole.
Inoltre, definisce se stesso Unpolite art machine perché sfrutta canali non sempre convenzionali per la creazione dei suoi lavori o comunque veicola messaggi meno popolari nel panorama della Street art e dell’Arte relazionale a cui egli afferisce. Già la scelta di definirsi ‘scorretto’ utilizzando un termine scorretto o per lo meno obsoleto – attualmente, nella lingua inglese la giusta scrittura del vocabolo è impolite – è indicativa della volontà dell’artista di liberarsi dalle convenzioni.

In realtà, forse, si possono definire unpolite anche i suoi lavori, in quanto sono realizzati con materiali di scarto e quindi non più adatti agli occhi della nostra società. L’artista stesso dice: “Sono degli abomini tecnologici, non ho la pretesa di pensare che siano belli per tutti“.

La scelta di recuperare oggetti, pezzi di cartone e lamiere può essere collegata alla sensibilizzazione verso problematiche quali l’inquinamento del pianeta, il consumismo, l’obsolescenza programmata…
Questi messaggi, riscontrabili nelle opere di LABADANzky, sono presenti non perché l’artista abbia voluto mostrarli, quanto piuttosto perché, come egli afferma: “E’ sempre facile trovare intorno a noi dei rifiuti o del cartone; io ci ho ricavato grandi sculture“.

I lavori di LABADANzky inizialmente venivano posizionati tra le vie delle città essendo spesso costituiti da semafori, telecamere di controllo o segnali stradali; poi sono assurti a vere e proprie opere d’arte quando, nel 2018, è stata allestita nella Sala Dogana di Palazzo Ducale a Genova la mostra Rest in Pieces.

Il titolo dell’esposizione giocava sull’assonanza tra peace[1] e pieces per indicare che i rottami recuperati ed utilizzati come materiale artistico potessero riposare in pace, seppur in pezzi, negli spazi museali. In questo modo le opere erano protette da atti vandalici, intemperie e giudizi negativi dei passanti.
Le pose di queste sculture simili ad androidi mimavano atteggiamenti umani in modo talmente realistico che sembrava provassero malinconia, noia e stanchezza. LABADANzky, infatti, cerca sempre di dare un aspetto il più possibile empatico o amichevole alle sue ‘macchine’ dotandole di grandi occhi o di piedoni; alcune però, essendo più imponenti di altre, possono sembrare minacciose.

L’artista crea anche sculture e pannelli dipinti ispirati al mondo dell’arte e della letteratura.
Ad esempio, inserisce riferimenti al David di Michelangelo, alla lattina di zuppa Campbell’s di Warhol, al Pensatore di Rodin e alle stampe giapponesi del periodo tra il XVII e il XX secolo.

Tra i protagonisti della letteratura, LABADANzky ha riprodotto Dante e Virgilio rispettivamente in occasione dell’evento Dante Plus 2019 e del Subsidenze Street Art Festival 2020.

Il sommo poeta si riconosce per il rosso dell’abito e per la corona d’alloro; il riferimento a Virgilio, invece, è meno didascalico in quanto, oltre ad essere vestito d’azzurro come nell’iconografia classica e ad avere la propria veste-carrozzeria ricoperta da citazioni tratte dalla Divina Commedia, è rappresentato come un veicolo. Virgilio è una sorta di poltrona mossa da grandi gambe robotiche perché la sua funzione nel poema dantesco è quella di accompagnare Dante aiutandolo a compiere, in questo caso proprio fisicamente, il suo percorso.

In generale le sculture di LABADANzky si ispirano ai primi giocattoli robotici entrati in commercio negli anni Ottanta, quando lui era bambino. In quel periodo la fantascienza per ragazzi era ancora agli albori e veniva quindi trattata con quella che l’artista definisce “una superficialità confortante“. E’ proprio questo aspetto un po’ acerbo e immaturo della tecnologia futuristica di quegli anni che lo affascina e ispira tuttora.

LABADANzky ha sicuramente attualizzato quelle influenze ma è anche riuscito a superare i pregiudizi legati alla Street art trasformando dei veri e propri rottami in ‘pezzi’ d’arte esteticamente godibili e con tanto da trasmettere.


[1] La locuzione inglese Rest in Peace, spesso abbreviata in R.I.P., è utilizzata per augurare un riposo pacifico ai defunti e perciò si ritrova sulle lapidi.

In questi giorni si tiene una mostra personale online di LABADANzky. Per maggiori informazioni cliccate qui.

Link utili: sito web dell’artista
profilo Instagram dell’artista

For the English version: Art ‘pieces’ by LABADANzky

Photo credits: Silvia Cerrati (per l’immagine di copertina); @xnart0 (per la scultura con il semaforo e per quella con la lattina di zuppa Campbell’s), Marco Miccoli @bonobolabo (per Dante), Benedetta Pezzi @benedettapezzii (per Virgil). Tutte le altre immagini sono di LABADANzky Studio.

Art ‘Pieces’ by LABADANzky

From Waste Materials to Real Sculptures

Artists often create alter egos to keep their private life separated from the public one. LABADANzky is one of them: he prefers not to link his factual identity to his artistic production even if he doesn’t hide it so much telling jokingly “I am not Batman”.

The alias LABADANzky comes from the corruption of a nickname the artist had when he was younger. Being a neologism, he also chose how to write it, deciding to have a part in capital letters and another one in lower case. Moreover, he defines himself Unpolite art machine because he uses not so common ways to create his works, or he spreads less mainstream messages in those forms of art to which he belongs: Street Art and Relational Art.

The choice of defying himself impolite, using an incorrect or at least outdated term, is already significative of his will to be free from conventions.
Actually, his works too may be defined ‘unpolite‘ because they are made with waste materials, no longer suitable for our society. The artist himself says: “They are technological abominations; I don’t pretend to think that they are good for everyone“.

The choice of recovering objects, pieces of cardboards and plates can be related to the awareness of problems like planet’s pollution, consumerism, planned obsolescence…
These messages can be found in LABADANzky’s artworks but not because he wanted to spread them, rather because, as he says: “It’s always easy to find around us waste materials or carboard; I made big sculptures from them“.

At the beginning, LABADANzky’s works were set in the streets being often made from traffic lights, security cameras, or road signs. They raised as real artworks when, in 2018, the show Rest in Pieces was set up in Palazzo Ducale in Genoa, Italy.
Exhibition’s title played on the similar sound between ‘peace’ – usually used in R.I.P. sentence on tombstones – and ‘pieces’ to underline how salvaged scraps used as artistic materials could rest in peace in museal spaces although they were made by pieces.

In this way, artworks were protected from acts of vandalism, bad weather, and negative opinions of passers-by.
The poses of these sculptures, similar to androids, mimic human’s behaviour in a such realistic way that it seemed they could feel melancholy, boredom, and fatigue. Indeed, LABADANzky always tries to give his ‘machines’ an appearance as much as possible empathic or friendly making them big eyes or feet. While others, because of their huge dimensions, can seem threatening.

The artist also creates sculptures and painted panels inspired by art and literature’s worlds. For example, he includes references to Michelangelo’s David, to Warhol’s Campbell’s soup can, to Rodin’s Thinker, and to Japanese prints from XVII to XX century.

Among literature’s personalities, LABADANzky portrayed Dante and Virgil respectively in the event Dante Plus 2019 and in Subsidenze Street Art Festival 2020.

Dante can be easily recognised from the red of his vest and the laurel crown, while Virgil is more tough: he is light blue as his vest in classical iconography, and he is covered by quotes from him. He is represented as a vehicle, a sort of armchair with big robotic legs, because in Dante’s poem his function is to guide and help him to make his path, in this case even transporting him physically.

In general, LABADANzky’s sculptures are inspired by the first robotic toys sold in the Eighties, when he was a kid.
In that period, teenagers’ science-fiction was still at the beginning and so it had, as the artist says, “a comforting superficiality“.
It’s precisely this immature side of futuristic technology of those years that still fascinates and inspires him nowadays.

LABADANzky surely updated those influences but he also succeeded in overcoming prejudices about Street art transforming scraps in stunning art pieces with so much to transmit.

There will be an online show these days. For more info click here.

Useful links: Artist’s website
Artist’s Instagram profile

Photo credits: Silvia Cerrati (for the cover image); @xnart0 (for the traffic light android and the Campbell’s soup can one), Marco Miccoli @bonobolabo (for Dante), Benedetta Pezzi @benedettapezzii (for Virgil). All other pictures are from LABADANzky Studio.

Colourwave: i tropici-synth dei Belau

Colourwave è il nuovo progetto dei Belau

Dopo The Odyssey, il duo synth-pop Belau ha fatto uscire, quest’estate, Colourwave. Il loro secondo disco viene ora ri-pubblicato in versione deluxe.
Già con la sua prima fatica questo gruppo aveva ottenuto riconoscimenti e passaggi radiofonici; il secondo lavoro sulla lunga distanza è un tributo alle atmosfere delle isole tropicali, assumendo tinte ambient e chillout.

Colourwave: sintetizzatori caraibici

L’unione di suoni naturali e sintetizzatori costruisce un tappeto calmo ed avvolgente su cui si stagliano le voci delle numerose artiste che hanno collaborato al disco.
L’effetto è sia rilassante che sensuale e porta l’ascoltatore a scegliere se concentrarsi sulle finezze della produzione e sulla bellezza del cantato o perdersi nell’effetto complessivo che restituisce Colourwave.
Togheter alone, con Belle Doron, o Rapture, featuring Kristine Stubbe Teglbjaerg, sono solo due esempi della capacità di costruire atmosfere e brani unendo vocalità e strumenti elettronici.
Ma in questo loro secondo Lp, i Belau si concedono anche un paio di brani esclusivamente elettronici, cioè Natural Pool e B.E.A.C.H. Qui naturalmente la dimensione tropicale viene un po’ a perdersi sfociando nella pura elettronica, anche se le atmosfere marittime si sentono nell’utilizzo di effetti che richiamano lo scroscio delle onde e i ritmi latino-tribali (campanacci, woodblock e clavette).

Contenuti bonus per un disco d’atmosfera

Infine, essendo una versione deluxe, non possono mancare i contenuti extra: nel caso di questo album, gli ultimi sei brani sono bonus track, tra live, remix e versioni alternative.
Al ritorno sulle scene (e ai mixer), i Belau consegnano un disco che spicca per personalità, una sorta di concept elettronico in cui il leitmotiv non è tanto lo sviluppo di un tema quanto il tipo di emozioni e sensazioni create. Il riferimento al caldo delle isole oceaniche è evidente, ed è rievocato con classe e in modo mai noioso. Colourwave è un disco che merita di essere ascoltato.

Margherita Come va?

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Come va

Il nuovo brano di Margherita Vicario è un toccasana per tutte le donne, un insieme di cliché e di vita reale, un insieme di dubbi, sogni, aspettative, casini, che ogni donna vive quotidianamente senza darlo a vedere o platealmente, con tanta forza e tanta fragilità contemporaneamente.

“Come va” è il titolo del nuovo singolo della cantante romana; Un brano sostenuto visivamente da un videoclip che, come un diario, racconta la giornata di 6 donne (compresa la stessa Margherita), dal risveglio alla sera. Il video, prodotto da Alessandro Elia Walter de Majo e Anemone film, apre le porte al prossimo album di Margherita Vicario “Bingo”, in uscita il 14 maggio.

Orango Tango

Non solo. Prima di questo brano davvero gradevole nel suono e interessante a livello testuale, è uscita una chiccha di Margherita Vicario, dal ritmo molto energico e dal video sprezzante. Si tratta di Orango tango, un brano in cui Margherita Vicario si è messa a nudo sia letteralmente che metaforicamente mostrando le sue opinioni politiche, già note, le sue idee e mettendo in campo il suo modo originale e provocatorio di dire la sua e lottare contro gli stereotipi della società odierna.

Margherita Vicario
Orango Tango – Margherita Vicario

Grande energia e tanto stile nei brani di Margherita Vicario.

“Amsia” è il debutto di UVA. L’intervista!

È uscito da poco il primo singolo di Uva, cantautore e polistrumentista pugliese, classe 1991. Lo abbiamo raggiunto per fare quattro chiacchiere e per farci raccontare il suo debutto.

Facciamo un tuffo nella grande “Amsia” di Uva, un emergente che si presenta con un brano che parla di chi si trasferisce a Milano in cerca di fortuna incontrando spesso grandi difficoltà. Quando i sogni rimangono per tanto tempo chiusi “in una scatola” e ci si trova a condividere appartamento, frigorifero, cibo da asporto e ogni cosa della nostra vita, Uva ci racconta le sue emozioni e ci porta in una dimensione notturna di Milano dove ci si perde facilmente ma si diventa un po’ più padroni di se stessi.

Carissimo UVA, complimenti per il brano. Il tuo nome d’arte, a cosa si ispira?

Sicuramente alla grande confidenza che ho con questo frutto nella sua forma classica, ma soprattutto nella sua variante di bevanda alcolica. Poi mio padre ha da sempre un’azienda di famiglia nell’ambito del commercio di vini e liquori in tutta la zona del sud Italia. Poi è il mio cognome.

Con la tua canzone “AMSIA”, che cosa vuoi trasmettere agli ascoltatori?
Amsia, forse a seguito della pandemia, ha messo in risalto ancora di più il concetto di “vita in scatola”: viviamo la nostra vita fra le quattro mura di casa, che per i fuori sede a volte è più simile ad una scatola che ad una vera e propria casa. Consumiamo cibo, molte volte dentro la sua stessa scatola, come una pizza o il tonno o qualsiasi cosa ci aiuti a portare a casa il risultato. Senza calcolare ovviamente le ore di straordinari su Netflix, in tv guardiamo tutte le nostre fantasie più grandi.


UVA – AMSIA

Come descriveresti la tua musica?
Sicuramente molto intima e dinamica. Mi piacciono molti generi, e molto diversi fra loro, traggo ispirazione da qualsiasi cosa. Per quanto riguarda i testi invece, sono molto critico con me stesso e ci metto tanto a fidarmi di una canzone che ho scritto.

Che ne pensi della musica italiana di oggi?
È una domanda troppo complessa per poter dare una risposta semplice, ma riassumendo direi che sta cambiando.

Progetti futuri? Puoi anticiparci qualcosa sul tuo album d’esordio?
Ah sì, io non sono un fan dell’hype, potrei spoilerarvi qualsiasi cosa, senza remore…per quanto riguarda le anticipazioni, posso dirvi che oggi ho scritto una canzone molto bella 🙂


Zaminga – “Guinzaglio” è il suo nuovo singolo [intervista]

Si chiama Samuele Zaminga, in arte solo Zaminga, ed è un cantautore nato e cresciuto nella periferia sud di Reggio Calabria e trapiantato a Torino.

Lo scorso 19 marzo è stato rilasciato il suo nuovo singolo, intitolato “Guinzaglio” e distribuito da Artist First.

Zaminga

Ciao Samuele. Domanda di rito, un po’ pesante in questo momento: come stai? 

Ciao Marianna. Domanda assolutamente non banale. Al di là dei limiti imposti da questi tempi surreali paradossalmente devo dirti che mi trovo in un momento abbastanza sereno e produttivo. Stanno succedendo tante cose intorno a me e questo è benzina per pensare ottimisticamente al futuro. Quest’ultimo anno di vita mi ha insegnato l’importanza di mantenere sempre un’attitudine positiva agli accadimenti, piccoli o grandi che siano, di tenerli stretti, che non c’è nulla di scontato o dovuto.

“Guinzaglio” è il tuo ultimo singolo. È un brano che hai scritto durante la prima ondata, in pieno lockdown. Lo definisci “un testo di resilienza”, e io sono pienamente d’accordo. È anche un brano che fa sognare un ritorno alla normalità quotidiana, che ci manca anche con le sue banalità e i suoi problemi. Puoi dirci qualcos’altro su questo brano? Come ti sei sentito nel realizzarlo e come ti senti ora a ricantarlo, a distanza di un anno da quel momento? 

Guinzaglio ha avuto una “gestazione” piuttosto veloce, è nata quasi di getto. Il vissuto di allora, manco a dirlo, era un concentrato di apprensione mista a insofferenza. C’era un’urgenza comunicativa di qualcosa di “terapeutico”, che potesse esorcizzare quella sensazione di inerzia soffocante. Al tempo stesso non mi andava neppure di essere troppo contingente. Guinzaglio, infatti, non è una canzone sulla pandemia o sul lockdown, nelle intenzioni è più un monito (a me per primo) a reagire allo straniamento provocato dai traumi vissuti e al tempo stesso ad accettarli come “parte del gioco”.

L’idea di “pisciare sui problemi” (che ha una reference cinematografica) è un immagine forte, forse poco ortodossa ma che in quel momento riassumeva perfettamente il mio bisogno di evasione. Proprio a motivo di questa ricerca di astrazione oggi mi suscita sensazioni perfettamente analoghe, continuo a scorgerci un messaggio attuale e sempre valido. Scrivere canzoni che non invecchiano sta diventando un po’ una prerogativa per me. 

E adesso? Stai lavorando a qualcosa di nuovo?

Certamente. Sto scrivendo nuove canzoni e spero di tornare presto in studio. Intanto siamo in dirittura d’arrivo col video sul quale ci siamo sbattuti parecchio.

Tu sei, come me, un ragazzo del sud trapiantato al nord. Come ti senti a riguardo? Ti manca la tua terra? La tua meridionalità la porti con te nelle tue canzoni?

Premesso che amo la città che mi ospita sono una persona molto fiera riguardo alle proprie origini, con un forte attaccamento alle radici. La nostalgia per la mia città è in ogni caso una compagna fedele da sette lunghi anni, ma è anche ciò che ogni volta rende più intenso il ritorno. In Guinzaglio ho menzionato le onde del mare non a caso, proprio perchè la loro perseveranza esemplifica perfettamente quell’ambizione di cui parlo nel ritornello a sapersi sempre adattare ai cambiamenti senza subirli. C’è quindi sicuramente una connessione mentale coi luoghi che sanno di casa. Anche questo spirito di adattamento credo che noi meridionali ce lo portiamo dietro tutta la vita. Non possiamo farne a meno, come col pacco da giù.

Se pensi ad un futuro senza chiusure e restrizioni, dove ti piacerebbe suonare?

Considerando che sul fronte live causa covid il progetto è rimasto ai nastri di partenza in questo momento il palco del MI AMI o quello del pub sotto casa per me sono la stessa cosa. Mi piacerebbe comunque partire da dove tutto è nato, Reggio e Torino, credo di doverlo a tutte le persone che mi hanno supportato nel muovere i primi passi in questo nuovo percorso. Roma e Milano? Un sogno.

Abbiamo inserito “Guinzaglio” nella nostra playlist Spotify dedicata agli artisti emergenti.

Samba, pizza, bossa e agonia. Benvenuti dai Selton

La casa è una e se ci organizziamo bene, tutti facciamo l’amore.

Benvenuti è uscito il 16 aprile ed è il quarto album del gruppo italo-brasiliano dal genere ‘imprevedibile’, i Selton.
A casa loro c’è spazio proprio per tutto. Amore, critica, lacrime, malinconia, sorrisi, Italia, Brasile.
Chiunque tu sia e comunque tu sia, sei il benvenuto.

Non che ci sorprenda la cosa, perché a Daniel Plentz, Eduardo Stein Dechtiar e Ramiro Levy è sempre piaciuto fare grandi mix di situazioni, suoni, lingue, generi, fin dai tempi di Banana à Milanesa – uno degli album più originali che siano mai stati creati – o Saudade.

Anzi, a dirla tutta, loro stessi si descrivono così:

HELLO WE ARE SELTON, THREE BRAZILIANS EXPERIMENTING WITH MUSIC, LIVING IN MILAN AND WRITING THIS SENTENCE IN ENGLISH BECAUSE WE LOVE THE BEATLES.

La cosa che non cambia mai è il loro essere, senza alcun’ombra di dubbio, grandi musicisti.  

Tutti benvenuti a casa mia

Di sicuro è un album che rimane coerente con la complessità del gruppo – che si descrive come un melting pot – ma è anche un disco diverso, più riflessivo e “riflettuto”, per così dire.

Selton, Benvenuti
Selton

Ed è così che si presenta questo nuovo album, come un calderone che mischia non solamente sonorità molto diverse – che vanno dal pop, alla bossa nova e alla samba, con parti rappate alternate a melodica – ma anche argomenti di varia natura.
Emblema dell’influenzare e dell’essere influenzati, ci regalano un disco che è una vera e propria perla.

Ma poi “Benvenuti” dove?

 “Il punto di partenza è il benvenuto da saper dire e dare agli altri e che noi stessi diamo all’Italia, anche se sembra paradossale. Benvenuti è un invito all’apertura mentale, a non porsi contro qualcuno o qualcosa di diverso, perché l’incontro è l’unico modo per andare avanti” spiegano i Selton stessi in un’intervista.

In un’Italia in cui paroloni come ‘famiglia’, ‘tradizione’, ‘valori’, sono all’ordine del giorno, abbiamo bisogno di celebrare non solo qualcosa che oggi è vietato più che mai, ma anche qualcosa che è alla base dell’essere dei Selton, l’incontro.

Criticano aspramente e amano alla follia un’Italia che è diventata, nella loro Loreto, casa. E non è strano perché l’Italia – perché Milano – sa essere la casa più bella del mondo, in cui però ti capita di trovare vicini ottusi ogni tanto. Non c’è da gridare, c’è da aprire la porta, in una casa di ringhiera in centro, anche a coloro che hanno paura del diverso.
C’è da sorridere e dar loro il benvenuto, per far vedere che, spesso, la tradizione passa attraverso il cambiamento.

Intervista ai Selton – All Music Italia

Ci insegnano che diversità, inclusione, influenze diverse, non sono sinonimo di perdita di identità – concetto intorno al quale gira tutto il disco – ma di costruzione di qualcosa di nuovo e prezioso. “L’incontro non ti toglie nulla, aggiunge” come dice Daniel. Per questo Benvenuti è una specie di esperimento: nuovi musicisti, nuovo produttore, nuovi featuring.

Per di più, si completa del tutto durante la pandemia e per questo si lega bene anche al discorso Covid, celebrando una vicinanza che oggi ci fa sempre più paura.

C’è un discorso complesso dietro tutto il disco, che è ben strutturato e studiato. Un discorso fatto di speranze per il futuro a 360 gradi, che non è il futuro di alcuni, ma è quello di tutti gli esseri umani indistintamente.
Anche perché poi

Italiano, brasiliano, essere umano
Cuore pulsante col destino tracciato dalle frontiere storte disegnate a mano

Tracklist pt 1

Benvenuti è il primo disco dei Selton completamente in italiano, diviso in 11 tracce. Ogni canzone appare come una stanza, un particolare, un oggetto d’arredamento, un umore, all’interno della loro casa.

Partendo da Benvenuti, di cui abbiamo ampiamente parlato e che fa da apripista impostando il mood dell’album, passiamo a Sigaretta in mano a Dio, canzone un po’ diversa, allegra e orecchiabile più che mai. Arriviamo poi all’ironica Karma Sutra, in featuring con Margherita Vicario – perfetta per il ruolo che le hanno assegnato. Il karma gioca un ruolo fondamentale in questa bossa nova: un Ramiro che dopo essere sparito e aver fatto lo stronzo emotivamente distaccato, viene piantato in asso da Margherita, esattamente dopo aver capito che era quella giusta.

Selton // Karma Sutra w/ Margherita Vicario (Benvenuti a Casa Mia The Sitcom Ep.2)

L’amore è un tema ricorrente in quest’album. A volte è dolce, come nel caso di Vieni a dormire da me, che parte semplice, quasi chitarra e voce, cresce e diventa più pop, inno all’amore, serenata sotto casa in quel di Loreto.

A volte è più complicato e tragico, e lo spiegano bene in I piatti, che è in grado di creare un’atmosfera incredibilmente reale, intimistica, “domestica”, direi: è un lui che muore di lunedì, tra i piatti da lavare e il gatto, che poi gli manca, insieme a lei, triste ma anche arrabbiata, lei “bella come sei”.

Tracklist pt 2

Dopo Intermission: panorama, un intermezzo musicale e parlato, troviamo Campari di musica, con Bixiga 70, dichiarazione di intenti, storia di come si vive di musica ed ironica “critica alla critica” che ti fa venire voglia di saltare sul divano e urlare “parlate male di me! Parlate pure di me!”.

Il tutto è seguito dalla spassosissima Pasolini, contestazione allo pseudo-intellettualismo, tipica tendenza dei nostri tempi che si basa sul principio dell’aggiunta della citazione colta per avvalorare un discorso privo di contenuti e se non so cosa dire, cito qualcuno per non stare zitto.

Anche la critica è qualcosa che il gruppo italo-brasiliano sa fare bene.
In Fammi scrollare, featuring Willie Peyote ed Emicida, si critica il nostro modo di vivere, perennemente impegnati a fare scroll sullo schermo di un telefonino. Ormai non puoi dire che hai un’idea se non la posti, non puoi dire che hai una vita se non la mostri e la dimostri.

Selton e Willie Peyote
Selton e Willie Peyote

Il finale è dolce. Si finisce con la cover di Estate di Bruno Martino, insieme alla rapper Priestess – che qui canta (e come canta!) – partendo dalla versione dell’inventore del bossa nova, João Gilberto, e con Temporeggio.

Selton e Priestess
Selton e Priestess

Benché non sia stata scritta durante la pandemia, si adatta bene. Il protagonista finale è il tempo che scorre, come una cascata, come aria, che a volte ci scivola tra le dita.

E se non sapete come impegnarlo, donate 30 minuti ai Selton, perché vi assicuro che ne vale totalmente la pena.

Una sbirciata nel diario di Leo Lennox

Leo Lennox è un artista particolare, con una storia particolare che ama racontare nei pezzi che scrive, veri e propri “ready made” di una realtà che si fa canzone attraverso l’arma tagliente della parola.

Lennox affonda le radici della propria ispirazione nel rap, certamente, ma non è certo un caso che numerosi nomi noti del cantautorato nostrano abbiano a più riprese sottolineato come la canzone d’autore sembri oggi ritrovare la sua germinale forza espressiva e poetica proprio nelle rime dei rapper; “Diario”, in questo senso, assomiglia ad una confessione che sa di invettiva, e che segna ancor più il distacco minimo che intercorre tra le parti sopracitate, impegnandoci in un “aggiornamento” dei nostri strumenti critici utile a non vincolare ciò che è a ciò che appare.

Il rap, la canzone d’autore e la poesia vivono un rapporto di incelabile e reciproca appartenenza, e la nostra chiacchierata con Leo servirà di certo a convincervi che di fronte a voi non avete l’ennesimo stereotipo del genere più ascoltato dalla Gen Z in Italia ma un intelletto ben attivo e curioso, che farà parlare di sé.

Ciao Leo Lennox, partiamo da una domanda biografica. Dicci da dove vieni, qual’è stato il tuo percorso musicale fin qui e dove sei invece diretto da ora in poi.

Ciao Indielife! Grazie per l’opportunità. Sono nato nel 2000 in Umbria, da genitori pugliesi che hanno deciso di fare rientro in provincia di Bari quando avevo 8 anni. Il mio approccio con la musica nasce dalla mia esigenza di scrivere. Ho iniziato a comporre i primi testi all’età di 13 anni, un po’ per gioco e un po’ perché percepivo di dover mettere su carta i miei pensieri. Il rap mi è sembrato sin da subito il genere più immediato affinché le mie rime potessero arrivare all’orecchio dell’ascoltatore. Tuttavia il mio stile si sta evolvendo e abbraccia sonorità sempre più diverse tra loro che spero mi portino ad affermare una mia dimensione stilistica, contaminata dai generi che più mi stimolano.

Qual’è il primo ricordo che hai di te a contatto con la musica? Da dove nasce, il tuo rapporto con le sette note?

I primi ricordi che ho della musica sono strettamente legati ai miei genitori. Ricordo bene gli innumerevoli viaggi in macchina con in sottofondo la musica blues e jazz di Pino Daniele e Nina Simone, molto amati da mio padre, e i numerosi e affascinanti CD di Vinicio Capossela e Vasco Rossi, artisti preferiti di mia madre. Mi hanno sicuramente segnato, magari inconsciamente e credo che saranno per sempre una parte di me.

Hai da poco cominciato a lavorare con l’etichetta indipendente Revubs Dischi: cosa vuol dire oggi lavorare in un etichetta e rimanere, comunque, indipendenti? Come si rimane, secondo te, indie nei fatti e non nelle parole?

Oggigiorno essere indipendente può avere molteplici significati. Per me, sicuramente, è un’attitudine e un modo di approcciare la musica. Prima dell’entrata in Revubs Dischi, la mia etichetta, ho sempre concepito la musica e tutto ciò che ne consegue in maniera autonoma, seppur con l’aiuto dei miei producers e del mio piccolo team. Essere indie per me significa in primis avere una propria concezione dell’arte, dunque rimanere indie oggi è sicuramente sinonimo di una autonomia artistica e intellettuale.

Parliamo di “Diario”. Raccontacene la genesi.

“Diario” è un brano che nasce sul finire dell’estate scorsa. Era un momento di estrema instabilità per me, sia dal punto di vista artistico che personale. Quando V5K, il mio producer, mi ha inoltrato lo scheletro della produzione musicale ho subito sentito l’esigenza di raccontarmi in maniera molto profonda e di lasciare spazio ai miei pensieri. Ne è scaturito un brano estremamente intimo e genuino, ricco di quella naturalezza e spontaneità che trovi nelle pagine di un diario.

Sembra che la scrittura, per te, abbia un valore fortemente terapeutico, e che “Diario” sia una vera confessione rabbiosa, a denti stretti. Ci sbagliamo? Come vivi il tuo rapporto con la scrittura e sopratutto, quando capisci che la canzone che stai scrivendo sarà “quella giusta”?

Il mio rapporto con la scrittura è fortemente terapeutico. Mi piace definire la mia penna come l’unica “arma” di cui dispongo per proteggermi da tutto ciò che mi turba. Amo il rapporto di intimità che viene a crearsi tra me ed il foglio quando mi accingo a lasciare andare tutti i miei pensieri, senza filtri. È per questo motivo che non c’è mai una canzone giusta e sbagliata secondo me. L’unico scopo è quello di poter essere libero e poter parlare al mondo circostante, con la più totale sincerità e spontaneità. Spero che chi mi ascolta percepisca questo.

Lasciaci con un consiglio: un disco da ascoltare stasera, per scoprire qualcosa di nuovo.

Sono un grande ascoltatore di musica e mi piace spaziare tra vari generi. Il disco che mi piacerebbe consigliare in questo momento è sicuramente “Jeannine” del rapper francese Lomepal, un bellissimo viaggio musicale.

AND THE BEAR [miscelatore analogico] – Intervista

Si chiama AND THE BEAR, definito come miscelatore analogico, ed è il progetto di Alexandre Manuel, polistrumentista francese che dal 1998 vive nelle Marche.

Il suo primo album si intitola “This Is The Darkness I Used To Tape” ed è stato pubblicato il 12 marzo 2021. Si tratta di un lavoro molto ben fatto, costituito da 8 brani che rapiscono. “

“L’album nasce con la voglia di sperimentare liberamente tutta la strumentazione che avevo
accumulato: synth, sequencer, filtri e distorsori per chitarra e voce, ma anche ukulele e strumenti a
percussione di vario tipo”.

Così AND THE BEAR definisce il proprio album, un disco dove ad un mix particolare di suoni si legano dei testi che rimandano a quella che è la nostra voce interiore. Il tema principale è quello della paura, trattata in ogni sua forma. Anche se le canzoni sono nate prima della pandemia, ascoltato oggi questo album riporta ancor di più alla mente un senso di smarrimento generale, ma diventa anche un compagno di viaggio capace di darci sollievo.

This Is The Darkness I Used To Tape
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“This is the Darkness I Used to Tape”, questo è il titolo del tuo primo album. Ci racconti un po’ com’è nato?

In questo album c’è tutta la mia voglia di esplorare, sperimentare senza limiti, né paure. Per la prima volta mi sono ritrovato da solo a pensare ed arrangiare i pezzi. Sin dall’inizio ho voluto mettermi a nudo, esplorare sentieri a me sconosciuti come il mondo dell’elettronica che mi ha sempre affascinato ma con non avevo mai lontanamente sfiorato nelle mie composizioni. L’unica premessa per me quasi infrangibile era di “non usare il computer” come base / traccia in playback; proprio per mantenere la dimensione live che aveva tanto influito sull’evoluzione dei pezzi. 

Cosa ti ha portato a scegliere di cantare in inglese?

La mia è stata una scelta naturale. Diciamo che è la mia lingua madre “musicale”. Ho scritto qualche testo in francese e anche in italiano ma mi mancava questa dimensione “sconfinata” nella modulazione della voce che l’inglese mi permette e che mi piaceva mantenere in questo progetto. 

“Last Goodnight” credo sia il più dolce brano del tuo album. È come una ninna nanna. La sua dolcezza e le sue note lasciano davvero tanto spazio ai sogni, staccandosi dalle paure e dall’esorcismo dei propri demoni che caratterizzano a mio avviso gli altri pezzi. Cosa ti ha ispirato, nel realizzare un brano del genere?

Aaah ti ringrazio per questo tuo commento hai colto perfettamente il senso di questa canzone che chiude l’album. Nei testi dei brani ho voluto affrontare il mondo delle paure nel modo più vasto del termine, scavando anche nell’intimo quasi arcaico. La chiave di lettura è molto cupa ma non è pessimista. Le paure sono parte di noi, sono strutturali. Mi ritengo una persona ottimista tutto sommato e avevo bisogno di un’apertura finale che fosse come una primavera anche se le parole di questo testo non regalano momenti dolci in modo così gratuito. Insieme a me canta la mia compagna Elisa che è stata sempre attiva in tanti miei progetti artistici e spettacoli. E’stata trascinata in studio per la prima volta e non si è tirata indietro. Alla prima rec è andata e abbiamo tenuto la sua prima traccia. Bello.  

Il tuo album è un mix di sonorità dolci e di elettronica. Ti sei ispirato a qualche artista in particolare per questo lavoro? 

Sono le canzoni di Thom Yorke and company che mi hanno spinto a prendere la chitarra in mano per comporre i miei pezzi. Credo sia uno degli artisti viventi che più di ogni altro ha saputo fare convivere atmosfere dolci insieme a sonorità dissonanti e rabbiose. Sicuramente tutto questo ha costituito il terreno fertile per i miei pezzi. Senza ovviamente poter essere comparato a lui… parliamo di un extra-terrestre! 

Questa non è una vera e propria domanda. Vorrei semplicemente ringraziarti per avermi portata in questo viaggio introspettivo fra oscurità, musica e sogno. A prescindere da questo periodo pandemico, credo proprio che “This is the Darkness I Used to Tape” sia una bella colonna sonora per la vita. 

Hai detto tutto, ti ringrazio dal profondo di cuore.

Abbiamo inserito “This Is The Darkness I Used To Tape” nella nostra playlist Spotify dedicata agli artisti emergenti.

Indielife Magazine n°5 – Aprile 2021

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E’ uscito il numero di Aprile del nostro magazine in versione scaricabile dedicato interamente agli artisti emergenti italiani.

In questo numero: Ioemiofratello, Coma_Cose, Anna Nani, Reef I e Rènton, Mico Arigò e molto altro

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