Riot: una rivoluzione a parole

Riot è il nuovo album di Izi

Intro, la prima traccia di Riot, quarto disco di Izi, si apre così:

-Bisogna sempre sacrificare qualcuno in una rivoluzione.
-Beh, io preferisco l’evoluzione: istruire i poveri, nobilitare gli operai…


Il disco è una raccolta di tredici tracce che condensano nelle basi trap testi che si pongono come un condensato rivoluzionario-
La citazione d’apertura è seguita a ruota dal ritornello di Al Pacino, featuring con IDK, che è un riadattamento della canzone partigiana Fischia il vento.
Il tema della rivolta permane tutto Riot.

La sommossa del linguaggio

Izi non vede il proprio lavoro come un’invito alla violenza, sebbene l’attualità del 2020 e in particolare le vicende legate al movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti sia stato un propulsore per lo spirito antisistema del disco; si tratta più che altro di un grido degli oppressi contro il potere di destra e repressivo (come in Matrix) e per il riconoscimento dei diritti di tutti.
Lo spirito revanscista che connota il titolo e le prime due tracce non l’unico tema di Riot, che con Miami ladies e Flop riprende argomenti tipici del genere, perdendo lo spirito politico iniziale.
Pazzo (collaborazione con Fabri Fibra) riprende almeno parzialmente il filo rosso del titolo raccontando un isolamento dovuto ad idee che portano lontano dalle istituzioni e dalle cerchie sociali ed amicali. Il disagio che questo status crea è legato a doppio filo con una rivendicazione sociopolitica e ad una netta presa di posizione.
Dopo un altro passaggio di genere, Izi torna al politico in Fraya, dove appare una frase interpretabile come una frecciata politica travestita da scelta lessicale ricercata:

Vorrei solo del Perestorijka come se fosse una droga strana

Parigi, l’ultima traccia dell’anno, è un cammeo tratto dall’omonimo brano del ’79 scritto da Enzo Carella di cui è stato remixato in chiave techno, trap e disco anni ’80 il ritornello, che è una perfetta sintesi di un disco che ha tanti propositi ma, pur essendo un buon disco, è meno sovversivo di quanto prometta:

Io faccio il pazzo
Brucio Parigi per te
Io faccio il pazzo
Ma tu non bruci per me


“Asteroidi” persi nell’universo di Leo Caleo

Ho deciso che per il 2021 (perché, oggi come oggi, preferisco guardare al futuro) il nome su cui scommetterò sarà quello di Leo Caleo. Non ditemi niente, ho ragione io: la conferma astrale circa la vocazione poetica del progetto solista del giovanissimo cantautore toscano sta tutta nella rima implicita sottesa nel nome che porta. E se è vero, come dicono i latini, che omen nomen, allora non posso far altro che confidare nell’allineamento celeste con la sicurezza di chi scommette sulla certezza di riuscita.

La prima volta che ho ascoltato il singolo di Leo – sì, ho la fortuna di avere amici cantautori che fanno belle cose, e che me le fanno ascoltare con anticipo – è successo qualcosa di incredibile al mio corpo: ha cominciato a sciogliersi. Ben inteso, niente di preoccupante; solo quella sensazione di formicolante intorpidimento che solitamente restituisce lo svalicamento delle “porte della percezione” di Huxley, ma senza far uso di alcun tipo di sostanza allucinogena. Sì, perché la musica, quando è bella, è uno dei più potenti stimolatori esistenti in natura, e ascoltare “Asteroidi”, quel giorno, deve aver scatenato in me un party a base di endorfina che mi stese, letteralmente: due minuti dopo aver premuto play, sentivo di essere parte del divano su cui ero seduto e di star colando dalle pareti come vernice fresca, espandendomi come il Mister Bombardini di David Foster Wallace ne “La Scopa del Sistema”, che coltiva nel segreto delle sue paturnie il desiderio di fagocitare e farsi fagocitare dall’Universo.

Oggi, all’uscita di “Asteroidi”, è successo proprio questo: divorando il brano di Caleo mi sono sentito divorare da qualcosa di più grande, di più “universale”; credo sia questa la sensazione che si prova di fronte alla bellezza, quando sa farsi profondamente umana e annullare ogni tipo di distanza fra la potenza e l’atto della nostra auto-realizzazione di esseri senzienti, e sensibili. Commuoversi, dopotutto vuol dire questo: spostarsi da una condizione all’altra, in compagnia di qualcuno che ci ricordi la nostra reciproca appartenenza ad un sistema valoriale ed emotivo che ci supera, e ci comprende.

Ecco, io ascoltando “Asteroidi”, oggi, mi sono sentito tanto orgoglioso di far parte di una discendenza umana che ancora sa emozionarsi, emozionando: il brano è una chicca di delicatezza, un’estasi brevissima ma infinita concentrata nella durata radiofonica di una hit gentile, che non ha bisogno di farsi banale e ritornellante per essere unanimamente condivisibile perché autentica, vera, urgente. La spinta della necessità non si fa foga, ma anzi preferisce la via della carezza che pian piano sa sciogliersi nell’abbraccio, prima di esplodere nell’amplesso finale di una coda onirica, frutto di un labor lime attento e di una progettazione studiata e ben lontana dalle sempre più frequentate derive dell’improvvisazione: addosso a Caleo, Giacomo Loré (già noto per le sue collaborazioni con altri nomi forti della scena emergente nostrana) cuce un vestito sonoro rarefatto – quasi smaterializzato – in progressiva apertura verso l’alto, prima di elevarsi nella definitiva esplosione di colori finali.

Insomma, definire “Asteroidi” una canzone di Leo Caleo mi pare davvero riduttivo; mi piace, piuttosto, parlare di “esperienza”, perché questo è stato. E oggi, tra la plastica di un futuro che continua a tentare invano di riciclarsi, provare il groppo allo stomaco che dà l’inesplorato e l’inedito è un lusso che non possiamo permettere di lasciarci scivolar via dal cuore.

Per questo punto su Leo Caleo, per il prossimo anno: perché, ora più mai, abbiamo bisogno di bellezza.

Tiso racconta “La febbre dell’oro”

Tiso è un musicista classe 1992. La febbre dell’oro è il suo nuovo singolo, un brano che racconta la nostalgia di qualcosa che forse non appartiene neanche al passato. Gli abbiamo posto qualche domanda per comprendere meglio l’immaginario evocativo creato dal brano.

Credi di essere legato ad un genere musicale in particolare?

Ciao, guarda è una domanda che ricorre spesso e la mia risposta è sempre che i generi musicali per me non esistono, servono solo alle playlist e alla nostra eterna mania di catalogare. Se “Bocca di rosa” avesse un arrangiamento metal sarebbe un pezzo metal o di cantautorato italiano? Non cambierebbe nulla, solo l’algoritmo di Spotify avrebbe qualche problema in più a collocarla.

La febbre dell’oro è un brano dalle sonorità contemporanee. Com’è andata la fase di produzione?

Il sound è una conseguenza della canzone, MyBestFault è stato molto bravo a cogliere il vestito giusto per il pezzo quando gliel’ho portato ancora grezzo, ma appunto la cosa è venuta dopo. Magari se avessi usato anche solo una parola diversa nel testo l’arrangiamento sarebbe un altro, il sound diverso.

Cosa vuoi raccontare con questo brano?

l brano parla di nostalgia, il mio sentimento preferito. Di due tipi: nostalgia di un passato mitico che non è mai esistito, e nostalgia del presente, che invece esiste, ma noi non ce ne accorgiamo se non quando ormai è già passato, e non c’è più niente da fare.

Quali sono le tue serie TV preferite?

Serie drammatica Mad Men, commedia indubbiamente Friends.

Quali sono gli artisti che hai ascoltato così spesso, da prenderne poi ispirazione?

Beatles, Dylan, Guccini, Battiato, Eiffel 65, Alberto Camerini, Baltimora, Alessandro Barbero, Tintoretto…

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Il futuro ce lo siamo inventato per poter fare progetti inutili e sentirci sicuri. Domani è troppo lontano nel tempo e non faccio mai piani così in anticipo.

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RIFLETTERE (DENTRO UNO SPECCHIO) è il nuovo brano dei Colombo

Fuori dal 30 ottobre 2020 il nuovo brano dei Colombo. Il brano dal titolo Riflettere (dentro uno specchio) è rockeggiante, ma di quei sapori cupi, con riferimenti alternative. Questo singolo è il terzo della giovane carriera dei Colombo, ed è stato prodotto da Emiliano Paris, Gianmarco Pandolfi, Matteo Taddei e Marco Maggini. Fiumi, il brano precedente a Riflettere (dentro uno specchio), è uscito il 24 luglio 2020. Il nuovo singolo dei Colombo mi ricorda la sregolatezza de I Ministri insieme all’oscurità degli Afterhours.

I COLOMBO

La Colombo band è presente nella scena viterbese da 5 anni. Sono quattro i componenti della band. La musica indie rock dei Colombo esplode in questo nuovo brano più arrabbiato dei precedenti che sono, invece, molto più vicini al genere indie pop. Il carattere forte che identifica la voce del singolo Riflettere (dentro uno specchio) fa da sfondo a una rabbia espressa dalla generazione dei componenti della band. Un brano che rappresenta moltissimo le nuove generazioni, giovani disillusi dalla vita ma pronti a sfidarla con la loro voce.

IMPARERò A DISCUTERE I MIEI SOGNI DENTRO UN PEZZO, DECIDERE SE TUTTO ABBIA MAI AVUTO UN SENSO

Riflettere (dentro uno specchio) – Colombo

Il brano si sofferma sulle persone e il modo di affrontare la realtà, la vita. C’è un focus particolare sul come si parla con sé stessi che, a volte, pare più difficile che rivolgersi a un altro; Misurarsi con i periodi buii della propria vita, con le proprie paure e debolezze e, spesso, anche con le proprie qualità migliori. Specchiarsi, vedere riflessa la propria immagine e tutti i suoi pregi e difetti, è anche riflettere su sé stessi.

voglio riprendermi ciò che era di me stesso […] e ora sputo la mia rabbia senza chiederti il consenso

Riflettere (dentro uno specchio) – Colombo

Ascoltate il brano Riflettere (dentro uno specchio) a questo link!

Kreky and the Asteroids, “No Apologies” è il nuovo singolo

Kreky and the Asteroids è un progetto nato a Roma nel 2018. Kreky è un cantautore e la band The Asteroids si chiama così perché l’ha deciso il chitarrista. Il progetto ha diverse sfumature anglosassoni ed e per questo molto originale all’interno del panorama musicale italiano. Il nuovo singolo del gruppo si chiama “No Apologies”, un brano che fa pensare un po’ a Bruce Springsteen, un po’ ai Counting Crows. Ne abbiamo parlato con la band.

Iniziamo dalla vostra scelta di cantare in inglese. Da dove deriva?

Grazie a voi! Principalmente deriva dal fatto che sono cresciuto ascoltando musica con testi in inglese. Ma è pur vero che le prime parole che ho buttato su un foglio, qualche anno fa, erano in inglese. Da lì, non ho più smesso e ad essere onesti, dopo aver scritto qualcosa in italiano, posso dire che in inglese mi trovo più a mio agio. Nonostante sia cresciuto in un contesto in cui si parla in sardo e in italiano, ho più padronanza e dimestichezza con l’inglese per esprimere i “fatti miei”.

Com’è andato il processo creativo del brano “No Apologies”?

No apologies è stata scritta prima di andare a pranzo – era anche già in tavola, quindi con relative urla che mi richiamavano all’ordine – in un pomeriggio nel luglio 2016. Ero appena tornato a casa e mi sono seduto sul divano con la chitarra acustica, è uscita spontaneamente. Era il riff che volevo fare e che volevo sentire. Poi l’ho ripresa con i The Asteroids, il mio gruppo, ed è stato piuttosto semplice procedere con l’arrangiamento. Anche perché abbiamo tutti gli strumenti necessari per fare quello che ci pare.

Quali sono i vostri album preferiti?

Album preferiti. Difficile.

Luca: A Perfetc Circle – Mer de Noms

Daniele: QOTSA – Songs for the Deaf

Valentino/Uomo Scimmia: Neil Young – Harvest

Jimmy: Deep Purple – Made In Japan

Kreky – troppo difficile questa domanda.

Secondo voi, quanto aiutano i social alla promozione del proprio progetto?

I social sono un mondo fatto di algoritmi e per poterlo affrontare, bisogna avere gli strumenti necessari. Se sai come utilizzare Facebook, Instagram o Tik Tok, allora significa che sei un social media manager (o un genio), non un musicista. Di solito però se sei un musicista, non sai usare questi programmi, quindi se vuoi essere influente ti servono un sacco di soldi per pagare un social media manager. Ma, se sei un musicista, il 90% delle volte sei un morto di fame. Rispondendo alla domanda: i social, come Spotify, uccidono la musica e non ci aiutano a crescere.

Possiamo avere uno spoiler sul vostro album?

Spoiler? Non sappiamo quanto sarebbe felice l’etichetta! Possiamo dire che è composto da 8 brani e in 2 canzoni, ci sono ospiti di grande valore. Uno lo sentirete a novembre, sarà il prossimo singolo e non vediamo l’ora di pubblicarlo!

Leggi anche l’intervista a Marasmo!

Intervista a Rudy Saitta

Abbiamo fatto qualche domanda al cantautore siciliano Rudy Saitta, al ritorno sulle scene con “Maria Colombia” dopo l’exploit, qualche mese fa, di “Croissant”.

Arriva l’autunno, arriva l’inverno ma Rudy Saitta rimane sempre e comunque pronto a sfornare un nuovo singolo. Com’è nato Maria Colombia?

“Maria Colombia” è nata un anno fa, dopo aver scritto “Croissant” mi è venuta questa idea, è in effetti una continuazione della narrazione della storia raccontata nel primo singolo. Dopo la fine di una storia importante c’è bisogno di riappropriarsi di sé stessi e di tornare alle proprie origini per poter nuovamente ricominciare.

Rispetto a “Croissant” possiamo dire che è un brano più pop che indie?

Io li reputo entrambi pop, in realtà le classificazioni di genere così nette non mi piacciono mai, diciamo che è più corretto dire che si tratta di popular music.

C’è qualcosa che vorresti cambiare?

Assolutamente no,  è stato fatto tutto con molta passione e divertimento, non cambierei nulla, è il frutto del lavoro con i miei migliori amici (Simone Guzzino e Fabrizio Longobardi) perciò va benissimo così. 

A breve uscirà un EP/album?

No, direi che per il momento mi muovo per singoli e poi vedremo. 

Il videoclip rispecchia sicuramente chi sei e cosa hai visto negli ultimi mesi, molto bello, possiamo dire che la semplicità è un valore aggiunto per gli artisti?

Potete dirlo! Io sono d’accordo con voi, da fruitore apprezzo molto la genuinità di un musicista, le figure troppo costruite e studiate a tavolino mi annoiano. La sincerità e la semplicità sono dei valori che porto con me nella vita di tutti i giorni e anche nella musica.

Si preannuncia probabilmente una nuova chiusura (anche se parziale ed anche se non ancora ufficialmente) secondo te qual è il ruolo degli artisti in questo momento e perché si dovrebbe continuare a far musica senza la possibilità di esibirsi dal vivo?

Il ruolo degli artisti rimane sempre quello, ovvero esprimere i propri ideali e comunicare con il mondo attraverso la propria arte.Non siamo obbligati a continuare a far musica, siamo obbligati a seguire le nostre emozioni e quindi chi si sentirà di pubblicare nuove cose, avrà il diritto di farlo e viceversa chi non si trova a proprio agio in questa forma di comunicazione aspetterà tempi migliori. Mi auguro che il Governo faccia delle riforme anche pensando a tutti i lavoratori dello spettacolo che non si sentono rappresentati e tutelati qui nel nostro paese. La cultura è importante per creare una società migliore, penso che non debba aggiungere altro.

Marasmo: “Fuori” mi ha aiutato ad esorcizzare la paura del nuovo

Marasmo è il nome d’arte di Manuel Marasco, cantautore pugliese classe ’98. Il suo progetto è un marasma di giochi di parole, ricerca di autenticità e la paura delle incertezze. Marasmo è un compositore che vanta anche una buona esperienza nella dimensione live. Il suo nuovo singolo si intitola “Fuori” e canta di un momento di rottura degli equilibri di vita in vista di un cambiamento.

Marasmo ci racconta di più in questa intervista.

Il tuo nuovo singolo “fuori” racconta del sentimento di inadeguatezza e di inferiorità. Come sei giunto alla scelta di raccontare queste tematiche?

Non è stata una scelta: è successo e basta. È stata l’esperienza da fuori sede a farmi imbattere in nuove situazioni e quindi in nuovi problemi; questa canzone è nata dallo sfogo che mi ha aiutato ad esorcizzare la paura del “nuovo”.

Ma si cambia, sì”. Significa che uscire dalla propria comfort zone, induce ad un percorso di crescita. Sei molto giovane, qual è l’esperienza che ti ha portato a sentire l’esigenza di scrivere questo brano?

Allontanarmi dai miei genitori, imparare a cucinare da solo, confrontarsi con nuove personalità artistiche ed iniziare il conservatorio è stato un punto di svolta: questi eventi mi hanno costretto ad abbandonare la mia comfort zone, catapultandomi in una realtà diversa. Affrontare tutto questo mi ha costretto a cambiare, ma facendolo a modo mio, perché in fondo “non si cambia, no”.

Com’è andata la fase di produzione di questo brano dal sound contemporaneo?

Io e Umberto Matera abbiamo arrangiato questo brano per un esame, curando tutte le parti. La pre-produzione di questo brano quindi è a cura di Umberto e risale a due anni e mezzo fa. Poi Pierfrancesco Speziale ha ripreso questo brano curando i suoni, aggiungendo ancora più carattere e limando il sound fino a farlo diventare quello che ora è.

Secondo te è difficile conciliare mondo accademico e mercato discografico?

Difficile sì, ma non impossibile. Purtroppo il mondo accademico è molto indietro rispetto al panorama musicale e poco aggiornato sulle nuove uscite; spesso e volentieri non offre i mezzi necessari per essere competitivi con il mercato discografico odierno, ma c’è sempre la possibilità di informarsi autonomamente.

Quali sono i tuoi album preferiti?

Ascolto prevalentemente musica italiana, spesso emergente, e sono un grande fruitore di musica. Sono affezionato a molti album, quindi non saprei dire qual è il mio preferito. Ultimamente però sono in fissa con “vita vera-mixtape”.

Progetti per il futuro?

Sicuramente ci sono altri brani che non vedo l’ora di far ascoltare. Non mi dispiacerebbe fare un discorso più ampio e racchiuderlo in un Ep.

“Udine”, l’ultimo canto di Cigno: un’intervista rétro

Qualche giorno fa (per l’esattezza, giusto venerdì scorso) nel mare magnum di Spotify ho avuto l’occasione salvifica di preservarmi dalla deriva del weekend aggrappandomi a “Udine”, salvagente provvidenziale lanciato da Cigno a tutti i naufraghi dell’indie come me. Insomma, un’ottima occasione per non andare a fondo e rimanere a galla, ma soprattutto per farmi una chiacchierata con uno degli artisti più interessanti che ho scoperto negli ultimi mesi.

Ciao Cigno, sei uno dei miei cantautori preferiti e vorrei che mi dicessi, secondo te, il perché: tre aggettivi che contraddistinguono la tua musica, e uno che proprio senti non appartenerti. 

Onirica, rétro, sbiadita. Sicuramente non è coreutica.

Ma tu te lo ricordi il primo contatto con la musica che hai avuto? Portaci lontano: siamo inguaribili nostalgici.

1994. Ero sulle gambe di mio zio, e mi divertivo a passare la mia manina (avrò avuto 2 anni) sulle corde della chitarra suonando solo con la mano destra. Avete presente quel suono di chitarra a corde aperte? Da giù verso su, e da su verso giù. Per ore e ore… Non ho più smesso.

Come nasce un brano di Cigno? Ciò che più colpisce di più è, oltre che la tua scrittura, l’utilizzo dei suoni e il missaggio scelto, per tener sotto redini la continua sovrapposizione di strumenti e sonorità diverse… insomma, qual’è il tuo approccio alla composizione?

Il rapporto è un po’ potenza-atto. Come quando uno scultore sceglie la pietra e vede già la statua nella sua pietra. Ho delle visioni del brano già completo, e ci metto anche più di due mesi per arrivare a realizzarla come l’ho sognata. È frustrante però. Perché a immaginarla ci metti 3 secondi e a farla 3 mesi, bene che ti va. Come si dice: “tra il dire e il fare” …


“Udine” è una canzone d’amore, sì, ma diversa. Tra l’altro, è nata in modo particolare, quasi rocambolesco. Ti va di parlarcene un po’ più approfonditamente

Nasce in un viaggio verso Udine, una città che non si conosce, in cui non si è mai stati, e la si immagina dandole le caratteristiche del proprio disagio interiore. Eravamo stati invitati a Udine dal SofarUdine io e mia sorella Ilenia Bianchi, bravissima cantante e autrice. Durante il viaggio è uscito fuori il ritornello del brano, che ho conservato come nota audio, fino a qualche mese fa dopo che ne ho tirato fuori una canzone. Volevo che il brano avesse un sapore dolce aspro, tipo la cedrata Tassoni, che adoro. Inoltre avevo in mente il ricordo offuscato della sigla di Mc Gyver, non so perché. Chissà se lo danno ancora in tv, ma quando ero bambino e avevo la febbre, era una sicurezza, lo guardavo sempre. E poi c’è l’influenza dei Kino, un gruppo russo anni ‘80. Mi hanno ispirato le loro atmosfere cupe, rigide, fredde che sono molto alienanti se aggiunte alla nostra percezione della lingua russa. Sono pazzeschi. Nel brano poi c’è anche la paura di non essere più entità singole. La consapevolezza di essere ormai divisi indissolubilmente in un’altra persona. C’è l’amore che può diventare un’ecografia di 2 settimane in bianco e nero, con una lucina bianca che lampeggia veloce. Un cuore che va all’impazzata. Una cosa troppo profonda, così profonda che diventa buia come l’abisso dell’oceano.

Un film, una canzone e un libro che, di fronte all’imminente lockdown, non possiamo esimerci dal (ri)scoprire.

Film: Fritz Lang – “Metropolis”. Libro: Georges Ivanovich Gurdjieff – “I racconti di Belzebù a suo nipote”. Canzone: Tom Waits – “Ol’ 55”.

Un tuo pensiero circa il destino della cultura in Italia, paese in cui pare non essere più essenziale tutelare la vita di teatri e cultura.

Qualche giorno fa ho appreso la triste notizia che vogliono chiudere Rai Storia. Io adoro Rai Storia: Barbero, Paolo Mieli, Ponzani etc. Quindi ho avuto un primo momento di desolazione. Poi però mi sono detto: “chiudono Rai Storia, ma non chiudono la passione per la storia”. Finché sarò vivo io e tutti gli appassionati di storia, la storia non morirà. Quindi in qualche modo risolveremo. Creeremo un altro canale. Oppure la vivremo con dei mezzi più moderni: podcast, YouTube oppure le vecchie care conferenze e dibattiti. Questa mia riflessione vale per tutta la cultura in modo generico.

E Cigno, invece, ci crede ad un’umanità nuova, alla fine di questo incubo di Covid e DPCM? O ne usciremo ancora più imbruttiti, soli e ignoranti?

Parafrasando le parole di Umberto Galimberti, penso che ne usciremo uguali a prima. Solo con la grande fame e foga di chi è stato in astinenza per tanto tempo. In astinenza dalla foga del consumismo, in cui tutti, vuoi o non vuoi, siamo intrappolati.

Alfonso Oliver

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Alfonso Oliver è il nome d’arte di Alfonso Olivo, 34enne e Cantautore Italiano.

Nel 2014 debutta col suo primo album, TUTTA COLPA DELLA MUSICA, e dopo una Tourneè in tutta Italia, nel 2016 incomincia a frequentare l’Ucraina dove – come in vaste zone dell’Europa orientale – la musica italiana è particolarmente apprezzata.

Nell’ultimo triennio la sua carriera è decollata e in estate 2019 Oliver è stato impegnato in un lunghissimo tour, in cui ha toccato festival e teatri delle principali città ucraine, suonando davanti a parecchie migliaia di persone, spesso affiancato da orchestre ed ensemble particolarmente numerose.

Ad aiutarlo il successo del singolo “Mamma”, traduzione in italiano di un brano molto amato in Ucraina, ovviamente a tema materno. 

Pubblicato a maggio, ha ottenuto tantissime visualizzazioni su internet, buone vendite, una costante programmazione nelle emittenti radiofoniche e tanta attenzione dai media: grazie a “Mamma”, Oliver si è spesso trovato al centro di servizi televisivi curati dalle reti nazionali.

Nell’occasione dell’Italian National Day del 2019, Alfonso Oliver è stato invitato dall’ambasciata italiana a Kiev a rappresentare l’Italia cantanado l’inno Italiano in onore della cerimonia.

A Marzo 2020 pubblica il suo secondo Album, UN ITALIANO FIERO, per far capire al suo pubblico qual è il messaggio che Alfonso vuole trasmettere al mondo intero. Orgoglioso di essere italiano, un artista che alla musica ha saputo fin da subito dedicare anima e passione.

Portare in alto nel mondo la bandiera Italiana attraverso la sua Musica e, quella dei grandi artisti Italiani, è una missione che lo riempie di orgoglio.

“Cantare per i connazionali all’estero e far innamorare sempre piu’ persone straniere della nostra cultura musicale, è una soddisfazione immensa per me”, ripete sempre Alfonso.

“L’Argentina è la Nazione al mondo con piu’ connazionali residenti, ed è mio grande volere, poter fare dei tour in questa grande e magnifica nazione che fino ad ora, purtroppo, ho solo avuto modo di conoscerla attraverso Internet.”

Millepiani, un’introduzione a “Eclissi e albedo”

Ci vuol coraggio, nel 2020, a tirar fuori un disco come “Eclissi e albedo”. Quindi, solo per la follia sottesa nella scrittura di un lavoro del genere, merita di essere ascoltato senza farsi deviare dalle decine di inciampi semantici che qua e là, se avrete anche voi coraggio nel gustarvi e farvi fare a pezzi dalle otto tracce del disco, vi troverete davanti.

Sì, perché il primo disco di Millepiani (cantautore di Carrara con tanta esperienza alle spalle) è un almanacco di cose perdute, di parole lasciate in un angolo a prendere polvere da un tempo sempre più liquido, da una società sempre più ignorante e dal nostro dilagante analfabetismo virale, che sembra averci portato via ciò che di più importante e vitale abbiamo a disposizione per mantenerci liberi e sinceri: il linguaggio. Ecco, in un’era fatta di parole vendute come caramelle ai comizi del venditore di turno o nei testi dell’ennesimo cantautore per slogan, Millepiani ci fa riprendere il mano il vocabolario per ricordarci quanto possa essere bello, per una volta in modo non campanilistico ma spiccatamente umanista, riscoprirci italiani.

Contro la Bugia universalizzata e il richiamo della razza (chiamiamolo come va chiamato, che sennò poi ci danno dei buonisti…), Millepiani sembra avere le idee chiare su come risolvere il problema dell’italiotismo (ovvero, l’estrema idiotismo dell’italiano medio orgoglioso di essere tale), dimostrando che per sentirci qualcosa abbiamo bisogno di studiare, e tanto, e conoscere le radici e il senso di un linguaggio poetico e letterario illustre, che dietro ogni parola nasconde un mondo di implicazioni, di discendenze e di parentele capaci di dimostrare che, in fondo, di italiano c’è davvero poco nel nostro essere fieramente italiani.

E così, “Eclissi e albedo” tira fuori grecismi, sofismi letterari, azzardi linguistici degni del miglior bacelliere di parola (come lo definirebbe il buon Guccini): otto tracce dense, a tratti spinose, che rotolano in direzione ostinata e contraria rispetto al mercato di oggi; la produzione ammicca a sonorità moderne, sì, ma solo per dimostrare che il futuro ha un cuore antichissimo: tanto rock e brit-pop a suffragare la poesia di una penna alternativa figlia del miglior cantautorato nostrano, che nel secolo del semplicismo obbligato sfida l’ascoltatore con riferimenti ad Aristotele, a Calvino, ai grandi scrittori russi.

La cosa più bella? Che “Eclissi e albedo” è un disco che si fa mangiare, da tutti. Sì, perché che la cultura sia appannaggio di pochi è un alibi stantio, in mano ai pigri e ai radical chic. L’alta cucina può essere degustata e apprezzata anche senza conoscere a fondo i segreti della molecolarità, ed “Eclissi e albedo” sa arrivare al cuore di tutti (anche di chi, come me, può far fatica a digerirne talvolta le scelte lessicali) perché fondata su quell’umanità che appartiene a tutti; la rifrazione della luce, che rimbalza sugli specchi di una vita caleidoscopica pronta costantemente a cambiare punti d’osservazione, è il centro di un’estetica che si fa etica e poesia: le crepe, le fratture dell’esistenza sono tappe necessarie per abbattere muri, per far sì che la luce possa tornare a filtrare dalle falle aperte di un cervello senza finestre (per dirla alla Battiato).

Insomma, non serve una laurea per ascoltare “Eclissi e albedo” (anche se fa comodo). Non perdetevi l’occasione, per quaranta minuti, di sentirvi un po’ più intelligenti (com’è successo a me), un po’ più umani.