“Colpa tua” di BOETTI, analisi di un senso di colpa, intervista

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Boetti ritorna prepotentemente sulla scena con il nuovo singolo, “Colpa Tua“, uscito il 13 ottobre per Manita Dischi e .Belva. Il tema è quello del senso di colpa, che viene analizzato dall’artista da un’altra prospettiva. Dalla prospettiva delle tre entità che hanno da recriminargli una manchevolezza, un passo falso.

Ne abbiamo parlato con BOETTI.

Intervista a BOETTI su “Colpa tua”

Ciao Boetti! Come stai? Sappiamo che “Colpa tua” è il primo tassello di un rinnovato percorso artistico. Perché hai scelto proprio questo come primo brano?

Tra tutte le canzoni che avevo a disposizione ho voluto pubblicare la cosa più lontana e diversa in assoluto rispetto al primo disco. In soli due anni sono successe così tante cose e sentivo di essere cambiato così tanto che avevo bisogno di creare uno stacco netto tra il prima e il dopo. Prima, per esempio, tutta l’estetica (copertine dei singoli, visual promo etc.) era in grafica digitale, adesso è interamente fotografia analogica. E potrei continuare con mille altri esempi. Volevo che la gente rimanesse spiazzata a sentirmi passare dalla chitarra elettrica all’autotune, ma tranquilli: le altre tracce non sono tutte così “anomale” come questa.

Dal punto di vista musicale, ci sono sicuramente influenze nuove rispetto a ciò che avevamo sentito tempo fa. Com’è cambiata la tua musica nel tempo? 

È cambiato il mio modo di scrivere musica. Ho imparato a togliermi i riferimenti a cui solitamente mi aggrappavo, in primis gli strumenti musicali. Un musicista medio come me, se si siede al pianoforte o imbraccia una chitarra tirerà fuori qualcosa di più o meno prevedibile a livello armonico, quindi di conseguenza melodico e vocale. Mi capita sempre più di scrivere mentre guido o cammino: inizio a canticchiare qualcosa senza preoccuparmi della tonalità e solo dopo aver fissato l’idea passo a cercare le note sullo strumento. Il processo diventa ancora più variabile nel momento in cui apro il programma di registrazione sul computer, che mi dà la possibilità di usare i più disparati strumenti musicali. Insomma, mi sono liberato da alcuni paletti.

Il tema di questo nuovo pezzo è il senso di colpa, che è qualcosa con cui, volenti o nolenti, dobbiamo fare i conti tutti. Pensi che per te sia stato un motore per migliorarti oppure ti viene voglia di scappare quando senti il dito puntato contro? 

Il senso di colpa, in quanto “senso” – sensazione, è qualcosa di soggettivo e interiore, ma non così altruistico come sembra. In qualche modo proviamo dispiacere per aver fatto soffrire qualcuno senza sapere se quella persona effettivamente si senta ferita o tradita, magari non pensa nemmeno a noi. Questo circolo vizioso diventa uno specchio riflesso, un cortocircuito che in maniera un po’ narcisistica riconduce comunque tutto al nostro ego. Però averlo indagato, scrivendolo, senza vergogna né paure, ha sicuramente aiutato ad approfondire l’analisi di me stesso.

I personaggi con cui ti interfacci sono fondamentalmente divisi in tre parti all’interno della canzone. Ti va di parlarcene? 

Quando ho iniziato a pensare al secondo album mi sono promesso che non avrei più scritto qualcosa in maniera non chiara, mascherando i concetti con artifici retorici incomprensibili. Sono voluto tornare a un’essenzialità anche nella scelta dei vocaboli, chiamando ogni cosa con il suo nome: “chemio” è “chemio”, non ha senso trovare altre immagini per descriverla. Proprio per questo motivo credo che queste nuove canzoni parlino da sole. Il mio privato non è straordinario rispetto al privato di qualsiasi altra persona e contiene al suo interno gioie e dolori, alti e bassi: la fine di una relazione, la perdita (di vista) di molte amicizie con l’età che avanza e le vite che divergono sia a livello di stili di vita che di città in cui si abita; parlo della malattia di un genitore da figlio unico che vive lontano dalla casa natale. Ma non sarò sicuramente il solo, anzi mi sento più fortunato della media. Le distrazioni al giorno d’oggi sono tante (alienazione dovuta al lavoro, dipendenza dalla tecnologia) e sentivo il bisogno di rimettere al centro l’intimità, il privato delle nostre vite.

“Non ti odieresti davvero se avessi cura di me”. Parli di un senso di colpa che è anche a tratti fisiologico, perché a volte è necessario partire e lasciarsi qualcosa alle spalle. Sei d’accordo?

Ho un rapporto strano con le emozioni, nel senso che mi chiedo spesso se quello che provo dentro lo riesca a trasmettere anche all’esterno, alle persone a cui dovrei dimostrare amore, gratitudine o quando semplicemente devo delle scuse. Il fatto di scriverle, queste emozioni, di certo non aiuta, perché è un po’ come se io le provassi, esaurendole, attraverso le canzoni.

Ad oggi pensi che la musica valga il senso di colpa che a volte hai sentito?

Non sono la persona più tatuata della storia, anzi. Ma c’è una frase di “Piazza Grande” di Lucio Dalla che mi ha sempre colpito per la sua potente semplicità e anche per il fatto che ritorna solo una volta, pur essendo un verso del ritornello: “quel che sono l’ho voluto io”. Prima di andarmene da Bologna, dove ho abitato per tanti anni, quella frase me la sono fatta tatuare sull’avambraccio, perché rispecchia a pieno il modo in cui cerco di condurre la mia vita: senza rimpianti, perché qualunque cosa accada sarà il frutto, (o meglio) il prezzo delle mie scelte.

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