“Divorato” è il nuovo singolo di Dheli

Vi avevamo presentato Dheli in una video-intervista che trovate qui. Impegnato nel progetto “Future Vintage”, dall’attitudine retrò ma sperimentale, Dheli mostra un volto più fragile nel brano “Divorato”. Profondamente introspettiva, l’interpretazione di questo brano deriva da un colpo di fulmine di Dheli che, ascoltandolo per la prima volta da Okke, ne rimane folgorato, tanto da ri-registrarlo.

Brano malinconico, potrebbe essere abbinato ad una fredda e piovosa serata autunnale, in cui emergono moti interiori forti, passati e presenti, inquieti e segnanti. Insomma, quelle sensazioni legate ad un dolore che nel tempo, senza che te ne accorgessi, ti ha divorato.

Domande, dubbi e incertezze portano Dheli a prendersi un momento di riflessione, che si rispecchia in un brano a base di pianoforte e voce.  “Divorato è un uscita volontaria dai binari che stavo percorrendo, forse segno di un’attitudine punk un po’ ribelle che non mi abbandonerà mai” – afferma Dheli. “Divorato è un sincero bisogno di fare ciò che mi piace”, continua il cantautore e producer.

In ogni caso, dopo un brano così evocativo e tendenzialmente riflessivo, Dheli conclude “Tornerò presto a farvi ballare”.

Dheli
“Divorato” è una pausa di riflessione nel panorama “Future Vintage”

Instagram: Dheli, Indielife.it

“Novembre” celebra l’atteso ritorno di Iosonouncane

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Finalmente torna Iosonouncane (al secolo Jacopo Incani), dopo cinque anni da “DIE”, concept album dai contenuti onirici e dai suoni complessi. Già il titolo si presta a numerose ambiguità che parlano di morte (“Die” in inglese), ma anche di rinascita (“Die” = “giorno” in latino e in sardo, lingua madre dell’artista) e di affermazione (“Die” = articolo determinativo femminile in tedesco).
L’artista torna oggi (ieri, mercoledì 18/11), nel nefasto 2020, con il singolo “Novembre”.
Novembre è il tempo dell’attesa e dell’arrivo delle tenebre: i raccolti sono fermi, il buio avanza sulla luce, il tempo preannuncia l’inverno, gli alberi si fanno spogli. È un tempo apparentemente fermo e sicuramente oscuro. Ma è un tempo che, nell’inquietudine della notte, culla la promessa del ritorno della luce. Novembre è il mese dei morti e dei santi, della fine e dell’inizio (è il periodo che precede il Sol Invictus).
Il brano è una dolce e inquietante ninna nanna dedicata a Cristina (che “dormiva sempre meno”) che nel suo seno custodisce i simboli dell’autunno (“la vigna”), l’arrivo dell’inverno (“L’inverno nel seno”) e l’attesa del ritorno alla vita quando la terra darà di nuovo i suoi frutti (“Ma al mattino, nella bocca la terra da arare”).
Cristina ha “tre chiodi nel seno” che forse rappresentano i suoi dolori, le ferite inflitte dagli uomini che più ha amato (figlia un uomo bruciato/un uomo strappato/un uomo condannato e sposa di un uomo lontano/un uomo mai nato/un uomo salvato). 
Eppure Cristina non é sola: ogni giorno il mattino la va a cercare e le scopre la schiena perché Cristina guarda avanti e procede “Fra gli stracci di una strada già piena”.
Cristina è “figlia di un lago”, “figlia del pianto” (acqua = simbolo di fertilità e di vita), “di un piedistallo” e custode di un amore che nutre come il vino che porta nel seno e che trasforma il pasto in festa (“Mangiano bene soltanto a Natale/Soltanto davanti a un bicchiere di vino”).
Sembra di vederla Cristina, che volteggia nel brano e con il brano: a tempo di valzer, al suono di tanti campanellini, accompagnata da un canto struggente, come la statuina di un carillon, eretta sul suo piedistallo, appunto.
Lei danza eterea e carnale, delicata e romantica, in un clima freddo, ma con addosso il sole caldo del mattino: fiera ed illuminata si muove con leggerezza ed elegante destrezza, tra la vita e la morte, l’azione e l’attesa, la gioia e il dolore, la festa e il lutto. 

E proprio sul tema del lutto l’autore raccorda l’inedito “Novembre” alla cover di “Vedrai vedrai” (Luigi Tenco, 1965). I due brani escono insieme, dando vita ad una sinfonia spettrale che procede da un valzer macabro, a una marcia funebre a tamburo battente. Questa scelta rappresenta certamente la volontà di omaggiare uno dei più grandi autori del secolo scorso (al quale Iosonouncane deve molto artisticamente), ma anche di creare un legame simbolico e concettuale tra i due pezzi: dalle promesse di “Novembre”, all’aspettativa che “un bel giorno cambierà, vedrai, vedrai”.
I due brani, infatti, insieme compongono una solenne messa da requiem che celebra tanto la morte dei sogni infranti e dei desideri non realizzati, quanto la resurrezione di ciò che invece verrà/tornerà.

Anche la musica tornerà, e tornerà nella sua forma migliore, il live.
Iosonouncane, infatti, avrebbe dovuto, nei mesi scorsi, presentare in anteprima il suo nuovo album “IRA” attraverso un lungo tour teatrale che, a causa della pandemia, è stato prima sospeso, poi posticipato, infine annullato e ora di nuovo annunciato per il 2021. Intanto ne ha dato un’anticipazione con questo piccolo capolavoro (accoppiata di capolavori) in cui si ritrova (e mancava tanto) la sua poetica intensa e implacabile, disperata e violenta. La sua voce vibra, fragile e calda in “Novembre”, profonda e distorta in “Vedrai, vedrai”. In entrambi i brani si alternano suoni cupi e decadenti e melodie morbide; ritmi serrati e armonie dilatate, creando una narrazione musicale senza tempo in cui risuonano le orchestre viennesi di fine Ottocento, gli arrangiamenti e la cultura radiofonica degli anni ’60 e i sintetizzatori/distorsori dell’elettronica contemporanea.
E allora, parafrasando il ritornello di “Novembre”, si può certamente dire grazie a Iosonouncane: siam felici che tu sia tornato, eravamo certi ci avresti aspettato.

“Andrà tutto bene” ti fidi?

Nel bel mezzo di una pandemia globale, tra indiscrezioni e false verità, il rapper Willie Peyote non le manda a dire a nessuno, nemmeno a chi si prende gioco della gente travestendosi da ipocriti tuttologi a caccia di followers disperati.

Il rapper torinese non si è trovato impreparato neppure questa volta e dopo l’assenza dai social, d’altronde citando Grazia Deledda «le grandi cose si dicono in silenzio», è uscito allo scoperto con il nuovo singolo La depressione è un periodo dell’anno disponibile da venerdì 13 novembre, by Virgin Records/Universal Music – durata 3’37”. Fotografia indiscussa e realista di un vivere confusionale, immerso nelle vere o false informazioni mediatiche, rappresenta a tutti gli effetti la precarietà con cui milioni di italiani stanno vivendo la propria quotidianità. Con l’eleganza metrica che lo contraddistingue, Willie è riuscito a contrastare ciò che lui stesso descrive come retorica primaverile, quel “andrà tutto bene” pronunciata da chi forse qualcosa sta nascondendo ormai da troppo tempo. C’è chi riesce ad evitare di essere ingoiato dalle opinioni e chi invece non vede l’ora di essere chiamato in televisione per confondere ancora di più una popolazione ormai presa dall’ansia. 

La depressione è un periodo dell’anno ma non ci sono più le mezze stagioni
Al giorno ormai quante polemiche fanno qui tutti burloni o Burioni
Nessuno c’ha un soldo, un lavoro, una vita però c’hanno tutti un sacco di opinioni
Con l’acume di Gigi Di Maio e la calma di Giorgia Meloni

L’ironia da sempre ne fa da padrona e anche in questo caso il rapper denuncia chiaramente la situazione citando a giudizio le stagioni. Non si riescono a distingue come la gente, che povera o ricca che sia, trova sempre il tempo per replicare e commentare a chi il camice bianco per timore non osa indossare. Tra decreti e disposizioni la gente non sa più che faccia fare, ma nelle retrovie ci pensano i noti politici a fregarsene e scappare. Polemiche incontrollate, giornali assetati di bizzarre verità, critici e precari intenditori pronti a fare gol a porta vuota. E’ una partita che ormai ha smesso di suscitare interesse con un pubblico esausto ricoperto di gel e mascherine colorate.

Benvenuti in un mondo dove la confusione regna sovrana. Forse è giunto il momento di pensare prima di parlare. Le polemiche rappresentano insuccesso e sconforto, in grado di creare dissidi ed inutili conflitti. Meglio mettersi comodi e lasciar fare il proprio compito a chi ne possiede le giuste competenze. Al silenzio l’interpretazione principale.

Willie Peyote anticipa l’ultimo singolo così: 

«Questo è un brano che ho cominciato a scrivere alla fine dell’estate – ha raccontato l’artista torinese – perché nonostante il tentativo di tutti noi di guardare al futuro con positività, nonostante il vago libera tutti, nonostante la retorica primaverile dell’andrà tutto bene, purtroppo era evidente che le cose sarebbero andate in un’altra direzione. E mentre tutti si accapigliavano in una polemica diversa al giorno, su qualsiasi argomento, io sono sparito dai social cercando di evitare di essere ingoiato in questa fiera delle opinioni un tanto al chilo che quotidianamente peggiora la confusione che già regna sovrana ormai da febbraio. Capisco che ognuno di noi debba sopravvivere a questo periodo, che ci mette a dura prova, come meglio riesce, ma il silenzio non è davvero più un’opzione per nessuno?». 

Buon ascolto!!

Luca Notaro: “Il blues è un modo per esorcizzare il dolore”

Luca Notaro è un giovane musicista partenopeo, con l’attitudine da bluesman. Il suo primo brano in italiano si intitola Blues #5 (Ubriaco di Autostima). Si potrebbe parlare di groove e di ritmi travolgenti, ma anche di vari significati inscritti in una struttura compositiva ben salda. Dunque, si tratta del concetto di self-confidence, a cui si deve l’atmosfera generalmente “ottimista” del brano. Non solo: i virtuosismi della chitarra di Luca Notaro rendono esplicito il concetto di blues come soluzione catartica ed evocativa, in situazioni che possono risultare anche poco piacevoli.

Abbiamo intervistato Luca Notaro per indagare la scelta anticonvenzionale di fare blues in un contesto prevalentemente itpop.

Sei un giovane appassionato di blues americano e rock inglese. Come e quando è avvenuto l’incontro con questi mondi?

Si tratta del primo approccio alla musica. Avevo uno zio che mi ha fatto crescere ascoltando musica di questo genere, uno fra tutti Eric Clapton. Ero inconsapevole di cosa stessi ascoltando, non sapevo neanche i nomi! Eppure sono cresciuto con questo tipo di musica.

Quindi per te, sostanzialmente, cos’è il blues?

Per non cadere nella definizione in sé per sé, il blues secondo me è un modo personale e profondo per esorcizzare il dolore.

Credi che sia difficile proporre un progetto come il tuo quando il blues sembra essere un genere di nicchia?

Probabilmente non esiste neanche la nicchia del blues in Italia! La situazione è difficile, non c’è un terreno molto fertile.

Domanda tecnica: che chitarra è quella che suoni nel video musicale?

È una chitarra (non mia). È bellissima, una Fender Stratocaster anni ’70.

I tuoi tre album preferiti?

Che domanda difficile. Dunque, Little girl blue di Nina Simone; Grace di Jeff Buckley e direi uno di John Mayer, Continuum.

Progetti per il futuro?

Usciranno dei singoli, in italiano. Proverò a conciliare le influenze blues con quelle pop e cantautorali. Ma sarà impossibile non sentire la vena blues! Ci saranno delle collaborazioni con altri artisti emergenti. Stiamo lavorando per unire le forze.

Grazie!

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The Flock, il singolo del grande ritorno degli Everglade

Il 30 ottobre 2020 ha sancito il ritorno della rockband EVERGLADE con il nuovo singolo dal titolo THE FLOCK. La band, con base in Veneto tra le province di Rovigo e Padova, ha pubblicato il primo di una serie di brani registrati nel 2019 e ai quali ha partecipato il chitarrista Enrico Buoso. Questi brani saranno pubblicati in maniera graduale nei prossimi mesi. «THE FLOCK significa “il gregge”, ci spiegano gli Everglade – ed è un brano che parla di tutti quei pensieri negativi che contraddistinguono molte persone della società contemporanea, ai quali noi rispondiamo alzando il volume, perchè non si può vedere tutto nero: in fondo siamo molto fortunati rispetto ad altri in questa parte di mondo.» La band Everglade è formata da Matteo Panin (voce e chitarra), Luca Boscarato (batteria) e Mattia Baratto (basso).  Il loro sound musicale è sempre stato un rock di matrice statunitense, ma ora cambiano direzione e infatti The Flock si presenta un brano più brit-pop rispetto alle loro precedenti produzioni, anche se in fondo si sente che il suono della band ha attraversato le strade del classic rock prima di arrivare sin qui. Questo denota sicuramente un segno di maturità e di apertura a nuovi stimoli musicali della band. Ora gli Everglade ora sono pronti a tutto. The Flock è accompagnato da un videoclip realizzato dalla band stessa in sala prove e con tanto di mascherine. Purtroppo l’attuale situazione pandemica non permette molto spazio di movimento, ma conoscendoli sappiamo che presto torneranno che altre produzioni video di qualità a livello cinematografico come hanno sempre fatto. Singolo e video sono disponibili sulle migliori piattaforme di streaming video e audio e su tutti gli stores musicali. Credits:
  • Testo: Matteo Panin
  • Chitarre: Matteo Panin, Enrico Buoso
  • Batteria: Luca Boscarato
  • Basso: Mattia Baratto
  • Registrato presso l’home studio della band
  • Mix e mastering: Alex Sanguigni @ A Cut Above, London
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Donatello Ciullo ” Abbracciami i pensieri”

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Dopo il successo di ‘Girotondo’, di cui ancora canticchiamo il ritornello, ora Donatello Ciullo esce con un nuovo singolo, dal titolo ‘Abbracciami i pensieri’. 

Scritto in questi mesi di incertezza sul futuro, il testo lancia un messaggio profondo. Infatti la frase ‘abbracciami i pensieri’ sottolinea proprio quanto sia fondamentale, nel tempo paradossale che stiamo vivendo, il contatto umano e come le persone lo cerchino disperatamente, anche a costo di abbracciare virtualmente gli evanescenti pensieri. Il messaggio è però più ampio, trasversale e senza tempo e ci insegna quanto poco contino, col senno di poi, cose alle quali attribuivamo una grande importanza, quanto divengano invece fondamentali i piccoli gesti e come un abbraccio, se pur virtuale, aiuti a superare difficoltà e delusioni.

“E tu abbracciami i pensieri

fammi scivolare in alto 

bussa forte nel mio cuore

sposta le difficoltà”

La voce profonda e roca del cantautore, che caratterizza tutti i suoi brani, ancora una volta ci sorprende per la grande immediatezza e capacità di trasmettere all’ascoltatore sentimenti e stati d’animo provati.

Le sonorità, delicatamente piacevoli quasi in stile new age e certamente orecchiabili, partono da una base trap, che si evolve però in maniera inaspettata, grazie all’inserimento di chitarre ed archi, a dimostrazione del fatto che la musica è arte ed innovazione, difficilmente imprigionabile in schemi precostituiti.

La particolarissima copertina riporta un disegno rosso su fondo giallo, nel quale si nota in primo piano un uomo senza volto, quasi a rappresentare tutti e nessuno. Accanto a lui un’immagine familiare e significativa, il tavolino di un bar, sul quale sono poggiati una bottiglia ed un bicchiere. Sullo sfondo una finestra, dalla quale si può scorgere il mare calmo solcato da una vela, simbolo di libertà. Un grande occhio attento osserva la scena.

Donatello Ciullo, con ‘Abbracciami i pensieri’, ci ha regalato un momento di lucida consapevolezza ed un grido di ribellione, con la voglia di quel fondamentale contatto umano di cui sentiamo la necessità solo quando lo perdiamo!

Stefania Castino

A LEMON si racconta!

A LEMON

La musica di Alessandro Moncada, in arte A LEMON, è per tutte le persone che amano viaggiare tra i ricordi e assaporare l’arte nota dopo nota. Ho fatto qualche domanda ad Alessandro per saperne di più delle sue scelte e creazioni musicali. Lui è un artista siciliano che conosce bene la musica ma parla di sé con umiltà. É uscita la b sides del suo ep Green e ho colto l’occasione per intervistarlo.

Comincia così l’intervista ad A LEMON

Ciao, sono Alessandro. Adesso vi parlerò del mio progetto A LEMON rispondendo a qualche domanda che mi ha fatto Oriana di Indielife.it.

Da cosa hai preso spunto per il tuo nome d’arte A LEMON?

Più che aver preso spunto da qualcosa ho avuto questa necessità di seguire una sensazione di appropriatezza del nome per il progetto, è un po’ come se fosse il mio nome.

B-SIDES green
copertina B-SIDES green

Quali sono gli artisti e i generi musicali che ti hanno influenzato musicalmente e nella tua vita personale?

Parlare di generi musicali per me è un po’ difficile. Qualche giorno fa ho visto un video di me che ballavo con la canzone Stars dell’omonimo disco dei Simply Red, è un disco che adoro e che ascolto da quando avevo 1 anno. Ho ascoltato molto i Supertramp, soprattutto Breakfast in America, anche Sting, Pink Floyd… Ho anche avuto e ascoltato per tantissimo tempo una compilation di artisti diversi come Elton Jhon, The Supreme, Kate Bush, Modugno… Verso gli 11 anni ho cominciato a cambiare genere. Ho iniziato ad ascoltare hard rock, metal, fino ai 18 anni. Dopo i quali ho cominciato ad ascoltare pop come Lady Gaga, Black Eyed Peas.

Cosa rappresenta per te Green?

Green rappresenta la prima volta che ho messo ordine nelle mie canzoni. Le mie canzoni sono sempre state aperte, in continua evoluzione. Per la prima volta ho dato ordine alle cose, le ho racchiuse in qualcosa di finito e questa sensazione di aver chiuso qualcosa mi fa venire voglia, ancora di più, di sperimentare e fare cose nuove. Il B SIDES rappresenta la conclusione di green che può sempre fare da ponte per nuove uscite.

Come nascono i tuoi brani? Qual è il singolo al quale sei più affezionato?

Le mie canzoni nascono da idee che ho in testa e che cerco di tradurre in registrazioni. Dopo aver registrato le idee iniziali lavoro sul brano finché non completo la base musicale, registrando i vari strumenti, solo allora cerco una melodia per il testo, che deve avere un significato per me e avere un suono che mi piaccia. Il singolo a cui tengo di più sicuramente è The Way Things Are perché, per poco, sarebbe potuta non esistere perché due giorni dopo averla pubblicata mi è stato rubato il computer. Ho perso il progetto e l’ho dovuta rifare da capo.

La tua musica ha un forte sapore nostalgico. C’entra qualcosa con la chiusura dei brani con effetto dissolvenza?

Non è qualcosa che faccio con coscienza però mi fa piacere che più persone, diverse tra loro, provano sensazioni comuni con queste canzoni. I miei stati d’animo sono correlati all’effetto che queste canzoni producono. Probabilmente il fade-out di alcuni finali favorisce questa cosa.

Essere siciliano influenza la tua musica?

Sicuramente sì. C’è da dire che non sono mai stato interessato alla musica tradizionale tipica siciliana però abitare qui sicuramente mi ha influenzato, in qualche modo.

Con chi ti piacerebbe collaborare per creare un singolo o un album?

Sarebbe pazzesco fare un album con Dua Lipa, ha uno stile che mi piace un sacco perché è un pop estremamente pulito e curato e comunque molto groovy.

A LEMON conclude così l’intervista…

Era l’ultima domanda. Grazie Oriana, ciao!

Grazie ad A LEMON e ad Azzurra di Unomundo! Ascolta l’intervista su YouTube o su Instagram.

Leggi la mia ultima intervista ai NAIMA!

In “Guerra” al fianco di Frambo

Frambo ha la stoffa del campione, e te ne rendi conto appena parte “Guerra”, il suo primo singolo per La Clinica Dischi. E un po’, ti viene anche da invidiarlo, dopo aver letto la sua anagrafica: diciott’anni appena compiuti che ti fanno pensare a quanto tempo tu, anonimo e pigrissimo – almeno quanto me – ascoltatore, hai buttato via dalla finestra. 

Sia chiaro, quello che fa Frambo per la gente della mia età (i 25 già pesano, di fronte a proposte musicali come questa) è neologismo musicale, avanguardia pop; un nuovo modo di interpretare sé stessi, una fonetica geneticamente modificata (ma li sentite gli Psicologi, come cianciugano – scorie dialettali liguri – tutte le parole?!), un’estetica più glamour, più pulp, già cult nel suo essere espressione patinata di un disagio fortemente punk. E’ un punk diverso, d’accordo, che i 25enni come me (impegnati, in qualche modo, a voler definire punk il Vasco Brondi di allora, il primo Stato Sociale o gli albori dell’Officina) forse non riescono ancora a cogliere e comprendere fino in fondo, ma che non per questo possono cassare a priori: non inciampiamo nel rischio di diventare già ora i padri che, nel silenzio delle nostre trincee adolescenziali, abbiamo combattuto e ancora combattiamo. 

“Guerra” è un brano ben scritto, figlio di una gioventù che sembra proiettata verso il futuro: tutta la produzione, sapientemente intrecciata dalle mani esperte di ELLE, suona come un carillon digitale; in un girotondo di colori e riferimenti, Frambo saltella da strofa a ritornello giocando a campana con un flow affascinante che ricorda l’hip hop ma trascende nel melodico (con echi che vanno da De Leo a Calcutta, passando per il santissimo Mac Demarco), grazie ad un timbro che – finalmente! – riesce a lasciare il segno. Frambo ha identità, e a quanto pare possiede nel mezzo vocale (oltreché nell’eleganza di scrittura) la cifra specifica di un’identità già prepotente, nel suo volersi mostrare.

Frambo è il nuovo che avanza, “Guerra” è il primo vagito di un cucciolo già uomo e che presto – ne sono certo – ruggirà a tutta la foresta il suo nome; dal canto nostro, abbiamo il dovere di far da cerimonieri alla Storia che ci cambia e che cambiandoci, in qualche modo, si lascia cambiare.

Saremo padri migliori, o sbaglieremo provando ad esserlo.

Gli ultimi canti del cigno: ballate per una notte stellata

Gli ultimi canti del cigno è l’Ep d’esordio di La ciclabile

Voce, chitarra e tanta, tanta sincerità: questa la cifra stilistica di Michele de Rienzo, in arte La Ciclabile.
Uscito ad inizio ottobre, Gli ultimi canti del cigno è il suo Ep di esordio: quattro tracce che si rifanno all’indie/emo che risuona dal Midwest anni ’90.

Canti della pianura e delle notti da falò

L’intento è dichiaratamente quello di far viaggiare l’immaginazione verso le pianure americane, dove le notti stellate riecheggiano degli arpeggi di una chitarra suonata nel buio, magari davanti ad un falò acceso dopo una serata tra amici.
Inizia proprio così, Gli ultimi canti del cigno, con un arpeggio di chitarra etereo, una malinconica introduzione lunga 3’14” intitolata Penserò io a cogliere il tuo volto in foto.
Solo a partire dalla seconda traccia gli accordi, semplici e proprio per questo bellissimi, accompagnano la voce di La Ciclabile:

E non è mai concesso un eccesso di tempo
per far stare in piedi le carte in un castello
E se mi resta ancora fiato in un’inerzia dico che
in una distopia felice ci vedo noi due.

Prima di essere alla fine della corsa è una poesia cantata da lontano, un racconto scritto all’alba dopo una notte di amore, nella solitudine felice di chi spera di rivivere dei momenti felici.
Nella terza traccia, Congedo, la voce lascia di nuovo spazio alla sola chitarra, in una sorta di post-rock senza batteria e senza esplosioni di distorsori. Uno shoegaze senza testi malinconici, perché non è tristezza il sentimento che si vuole comunicare, ma pace, contemplazione.
Divinazione è una coda in pieno stile indie che porta a termine l’Ep. Torna la voce e la poesia delle atmosfere strumentali si arricchisce di quella dei versi, semplici ma mai scontati, regalati all’ascoltatore dalla penna di La Ciclabile:

Il mio spirito si logora come la sigaretta che fumavi nel cortile della scuola
o sotto un porticato acceso di risate familiari,
che a pensarci mi ripeto “c’è di peggio”

Il rispetto delle cose semplici

La musica contemporanea, in particolare nel mainstream italiano, è ormai una gara di produzione. Grandi nomi sfornano bellissime e curatissime basi messe al servizio di cantanti che riescono ad arrivare in radio e guadagnarsi una fama più o meno meritata.
Non ha senso, in una recensione di musica indipendente, discutere se questo meccanismo sia giusto oppure no. Vale però la pena di sottolineare il fatto che c’è moltissimo anche fuori dal circuito del grande pubblico e che tanto di quello che circola nelle nicchie merita almeno un ascolto.
Gli ultimi canti del cigno, di La Ciclabile, non è un Ep rivoluzionario, ma ha due pregi che oggi sono sempre meno valorizzati: il rispetto e la semplicità. Il riferimento è chiaro (e dichiarato): il Midwest anni ’90, la musica indie; la struttura dei brani è essenziale: chitarra e, a volte, voce. Ma qui essere scarni è un pregio. Usando un verbo da talent, La Ciclabile “arriva”. Arriva il suo interesse per una musica che magari non vende ma a lui piace e arriva ciò che quelle sonorità hanno rappresentato per lui.
Lui si fa testimone di queste sonorità e le fa sue, le plasma e plasma la sua poetica su di esse senza eccessi e senza concessioni, solo con rispetto.
Gli ultimi canti del cigno non è, insomma, un “grande disco”, ma è un Ep sincero. E questo, ad oggi, è già tantissimo.

LO ZIO ARTHUR

Lo zio Arthur aveva un detto “Uccidili tutti e lascia che sia Dio a giudicarti” sfortunatamente una fredda mattina di dicembre lo fece davvero. Ma devo partire dall’inizio, altrimenti non capireste chi era lo zio Arthur.

Arthur Gein era il fratello di mia madre, nato e cresciuto a Plainfield in Wisconsin e non si è mai mosso da lì tranne quando lo Zio Sam lo chiamò per andare a fare la guerra in Europa. A sentire mia madre, non ebbe un’infanzia tranquilla.

Era il fratello maggiore e l’unico maschio, si subì tutti i rudi insegnamenti di mio nonno sul lavorare la terra e allevare il bestiame. Avevano una grande casa con molto terreno poco fuori la cittadina, passavano tutto il giorno a lavorare la terra ed accudire i tanti animali. La scuola era un peso che lo zio si lasciò a dieci anni, il nonno era convinto che non gli serviva a nulla. Lui era cresciuto senza ed era venuto su benissimo.

Fortunatamente la nonna riuscì ad imporsi sull’istruzione delle due bambine, la mamma e la zia. La mamma diventò chimica, mentre la zia riuscì a studiare letteratura ed ora è una scrittrice affermata e vive a New York. Ci manda sempre una copia dei suoi romanzi per posta, con tanto di dedica. Tutt’altra storia fu la crescita dello Zio. Il nonno lo svegliava alle cinque della mattina, aveva dei modi rudi e la totale mancanza d’affetto.

Lo buttava letteralmente giù dal letto, gli concedeva qualche fetta di bacon con uova e un succo d’arancio per colazione e poi se lo portava in mezzo ai campi. All’ora di pranzo, nelle giornate tranquille, aveva già arato non so quanti ettari di terreno e sistemato il bestiame. Gli animali del nonno consistevano in cento mucche da latte, cinquanta pecore e non so quanti altri piccoli animali come tacchini, conigli etc. Insomma un bel da fare per il nonno e per lo zio che non ebbe mai il tempo di farsi degli amici o uscire con delle ragazze quando entrò nell’adolescenza.

Non staccava mai, quel tipo di lavoro non aveva ferie o giorni di riposo e la sera era troppo stanco per fare qualsiasi cosa. L’unica attività che gli concedevano era la messa domenicale. La nonna li portava ogni domenica a messa, presso una chiesa luterana poco vicino al centro. Veniva anche il nonno, la religione era l’unico potere concesso a sua moglie, per tutto il resto era lui il capo e decideva lui. Il nonno aveva un corpo massiccio, il fisico piegato ed irrobustito da anni di lavoro e per finire il quadro, i modi rudi e la gentilezza sotto le scarpe.

Suo padre era partito a vent’anni da Dublino per rifarsi una vita in America e dopo anni di duro lavoro aveva comprato quel pezzo di terra nel Wisconsin dove costruì tutto. La nonna era cresciuta a Plaintfield, in una famiglia molto simile a quella che avrebbe creato con il nonno. Anche suo padre era padrone e quando la nonna conobbe e successivamente si sposò con il nonno, gli venne naturale assecondare tutte le richieste di suo marito e trasformarsi in una serva.

All’epoca le donne non avevano molti diritti, come non li avevano le persone di colore o altre etnie e piccole comunità. Ma dentro lo zio Arthur stava crescendo un pericoloso demone, il buio si stava impadronendo della sua mente provata dalla dura vita e la mancanza di affetto. La svolta in negativo venne quando lo zio uscì per la prima e l’ultima volta dal Wisconsin, aveva vent’anni e lo stato aveva bisogno di tutti i ragazzi maschi giovani perché si era cacciata in grosso pasticcio in Europa che noi tutti conosciamo, la Seconda Guerra Mondiale. Quello che vide lì, fece avanzare quel tremendo buio. Quando tornò, verso la fine del 1945, il suo comportamento peggiorò drasticamente. Divenne sempre più silenzioso e nel poco tempo libero, si isolava per molte ore. Scoprirono successivamente che il tempo in solitudine, lo passava a torturare dei poveri animali.

L’esercito gli diede due medaglie al valore per aver completato delle missioni pericolose e segretissime. Ma non menzionarono tutte le torture sadiche che lo zio praticava ai prigionieri per farli parlare. Non dissero nemmeno della luce nei suoi occhi sadici che aveva ogni volta che veniva chiamato per far parlare un prigioniero tedesco. Era il migliore nel suo campo. Sotto i suoi metodi, nessuno riusciva a resistere. Lui però li finiva sempre, anche dopo che avevano parlato e si divertiva a farlo nei modi più disparati. Godeva letteralmente nel sentire il dolore altrui.

Aveva scoperto completamente il vaso di pandora, il buio aveva preso completamente possesso della sua mente e non poteva più tornare indietro. Una fredda mattina di dicembre, verso la fine del ‘47, ci fu il capitolo finale. Quella mattina, la mamma e la zia erano fuori. Andavano al college e vivevano a circa cinquanta chilometri dalla loro casa. Avevano scelto entrambi lo stesso college, la zia frequentava la facoltà di letteratura, mentre la mamma aveva scelto quella di chimica. Rispetto alla zia Jennifer, la mamma era da sempre più brava con i numeri.

Lo zio Arthur, che non aveva una carriera scolastica a cui pensare, aveva sempre le stesse giornate davanti ai suoi occhi. Quella mattina mancavano esattamente quindici giorni al natale, il nonno tormentava ancora di più lo zio. Faceva freddo, la neve era già alta un metro per le strade e gli animali soffrivano il doppio. Ogni bestia che moriva di freddo, erano soldi che il nonno perdeva. Anche se Arthur era ormai grande, il nonno continuava a tormentarlo ed a picchiarlo con bastoni, quando lo vedeva fare qualcosa di sbagliato.

Non ricordo molto bene qual è stato il fattore scatenante, i racconti della mamma e della zia su quel giorno, sono molto confusi e dispersivi. Si nascondono entrambe dietro al fatto che non c’erano ma la realtà è che tutta la famiglia si vergogna di quello che è successo. Secondo i dati in mio possesso, cioè secondo i racconti dei vicini di Plaifield che hanno risposto alle mie lettere, il nonno vide fare allo zio un movimento totalmente sbagliato che portò alla morte di un vitello. Quel vitello morto scatenò la rabbia del nonno che inveii contro lo zio nel peggiore dei modi. Parolacce mai dette prima, schiaffi e percosse con tutti gli oggetti che aveva a portata di mano, si abbatterono contro Arthur che non si ribellò mai.

La nonna, sentendo il trambusto, uscì di casa per calmare suo marito che, malato di cuore, poteva subire un coccolone da un momento all’altro. Quella del cuore fu una scusa per difendere il suo povero figlio maschio. Stranamente il nonno ascoltò i consigli di sua moglie, ordinò allo zio di tagliare un po’ di legna e andò dentro per riposarsi qualche minuto sulla poltrona in salotto.

Arthur si recò dritto dietro alla casa dove c’era la montagna di legna da spaccare. Non disse nulla per tutto il tempo, com’era nel suo stile ma a differenza degli altri anni, aveva uno sguardo diverso. Aspettò che il nonno si addormentasse sulla poltrona, la nonna era uscita per fare delle commissioni e lo salutò portandogli una tazza di caffè.

Era il momento perfetto per attuare il suo diabolico piano. Si portò l’accetta nella mano sinistra, era mancino e su quel braccio aveva più forza, entrò in casa senza fare rumore e si fermò qualche secondo proprio dietro al nonno che russava rumorosamente. La testa, in gran parte nuda per via della calvizie, attirò l’attenzione dello zio per qualche minuto. Un sorriso sadico si disegnò sul volto provato da anni di soprusi, poi le mani si mossero con l’accetta ben ferma e un colpo secco divise in due la testa del nonno. Il sangue e altro materiale organico schizzò fino al soffitto, lo zio iniziò a ridere senza smettere nemmeno un momento.

Aveva avuto la sua vendetta, dopo anni passati peggio che in carcere, aveva eliminato la persona che gli aveva rovinato la vita. Ma questo non bastò ad Arthur che in preda ad un euforica pazzia, prese il fucile da caccia del nonno, un numero enorme di cartucce e si recò con la macchina nella piazza centrale di Plainfield.

Lì c’era un edificio più grande degli altri che ospitava un supermercato e l’emporio del vecchio David, amico del nonno e di tutta la famiglia. Salì sul tetto usando le scale antincendio e iniziò a sparare a tutti i passanti che in quel periodo camminavano per le strade della città, in preda allo shopping natalizio. Si scatenò il panico immediatamente, prima dell’arrivo delle forze dell’ordine lo zio uccise venti persone nei primi venti minuti.

Non so quanti poliziotti ci vollero per fermarlo, aveva una buona mira e sotto il suo fucile ci finirono anche quattro o cinque di loro. Alla fine venne colpito da un tiratore scelto della Guardia Nazionale. La tragedia finì su tutti i giornali statali e su qualcuno nazionale, la cittadina divenne famosa e tutt’ora molti turisti si recano lì per guardare da vicino la terrazza dove mio zio sparò. Perché ho deciso di scrivere questa storia? Perché per me lo zio Arthur è un idolo.

Sono un pazzo? Sì probabilmente. Mia mamma ha sempre capito che in me scorrevano i geni malati dello zio, fin da bambino mi ha fatto visitare dai migliori medici e mi ha rinchiuso in diversi istituti dopo che, per gioco, all’età di dieci anni ho tagliato la pancia ad un mio compagno di classe. Per sua fortuna non è morto, la maestra intervenne in tempo. Entrò di corsa in bagno dopo aver sentito le urla strazianti del mio amico.

Alla domanda “perché lo hai fatto?” risposi semplicemente che volevo studiare il corpo umano da vicino. Ma ora nell’istituto psichiatrico dove vivo, si è scatenata una rivolta ed io ho deciso di raccontare questa storia per emulare il mio eroe. Fuori c’è un gran trambusto, io sono salito sul tetto, il sole è alto ed è una giornata primaverile. Ho preso questo quaderno ed una penna dall’ufficio del direttore ed ho iniziato a scrivere.

Sotto di me ci sono molte persone, parecchi giornalisti locali e qualche parente preoccupato. Ho sempre avuto il sogno di eguagliare lo zio Arthur, volevo renderlo fiero ma non sapevo come fare. Negli istituti come questo siamo perennemente sotto osservazione ed è difficile attuare qualsiasi piano. Così mi ci è voluto molto tempo ed ho dovuto pianificare tutto.

La parte più difficile è stata rimediare un’arma da fuoco, l’occasione è avvenuta quando il mio compagno di cella mi ha detto che il nostro direttore è appassionato di caccia ed ha una collezione di fucili nella sua casa, proprio di fronte all’istituto di cui è anche il proprietario. Non restava che alimentare la rabbia degli ospiti fino all’epilogo di oggi, quando ho finto di essere stato aggredito da un’inserviente senza motivo.

Erano mesi che facevo circolare le voci che ci picchiavano senza ragione e soprattutto che volevano venderci ad una società che sarebbe stata peggio del nostro direttore. Feci leva sui nostri diritti e altre stronzate simili, siamo tutti pazzi qui dentro ma non del tutto scemi. Approfittai del casino e mi recai, senza essere visto da nessuno, nell’ufficio del direttore dove presi le chiavi per aprire la bacheca con tutti i fucili che teneva in garage.

Ora sono arrivato alla fine del piccolo quaderno, spero di aver illuminato la memoria di mio zio con questo racconto e di renderlo orgoglioso con quello che sto per fare. Ho già caricato il fucile con le cartucce che di solito si usano per gli uccelli migratori, penso che il primo a cadere sarà quel giornalista ciccione che sta mangiando avidamente il suo sandwich mentre tutt’intorno a lui si sta scatenando il finimondo. Ci vediamo all’inferno ciccione!

Clementi Simone

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