Barona, una delle madrine del rap italiano, è un quartiere a sud di Milano, celebrato dal nuovo singolo di Young Rame ft. Marracash.
Se è vero che il luogo d’origine forma la personalità, diventando parte stessa della persona, è indubbio che le periferie sono parte integrante del rapper, dunque del genere che rappresentano.
Il 20 Maggio la Barona diviene protagonista del nuovo singolo di Young Rame e Marracash, che ci portano a conoscere le strade che li hanno cresciuti. In questo featuring si incontrano due diverse generazioni nel luogo che li ha formati, musicalmente e non.
Partiamo dicendo che Marracash, dopo il successo di “Persona”, vive uno dei momenti più gloriosi della sua carriera. Che abbia scelto proprio questo brano per consacrarlo poi, denota l’importanza che la Barona ha nella sua vita. Young Rame invece è un giovane rapper emergente, classe ’98, che sta cercando di farsi strada nel complesso panorama musicale italiano equilibrando bene tecnica, metrica con uno stile fresco e contemporaneo. Le strade che hanno calpestato fino a oggi li hanno uniti in un pezzo rap che ha subito il sapore dell’autenticità.
SONO UN UOMO, SONO UNA PAROLA
SONO UN DUOMO E SONO UNA BARONA
Queste sono le parole che a mio avviso danno subito l’idea di cosa troveremo in questo pezzo. Young Rame e Marracash, Mattia e Fabiano, parlano del quartiere di periferia che li ha cresciuti e ci danno l’immagine di una Barona matrigna. Spietata per alcuni versi e riconoscente per altri, le prime strofe di Young sono colme di passione e voglia di riscatto, degli insegnamenti che il quartiere gli ha dato, e delle sue ambizioni di artista di periferia.
Prospettiva leggermente diversa invece per Marracash, che alla Barona ci torna come uomo maturo e artista di successo. In lui si sente una specie di riconoscenza verso questa matrigna arcigna, a cui però deve molto. Il suo scegliere proprio un rapper emergente della propria periferia sembra essere un modo per sdebitarsi. Il tornare al punto d’origine è un gesto d’umiltà e rispetto che contraddistinguono le grandi personalità, e per quanto si senta spesso parlare di quartiere e strada nel genere, la passione e l’autenticità rendono unico questo progetto. Come la maggior parte dei suoi progetti del resto.
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Disponibile su tutte le piattaforme digitali per Discographia Clandestina, “Cinquecento” è l’EP d’esordio di Renico, cantautore pugliese classe ’97.
Si tratta del progetto con cui l’artista racconta in cinque tracce-immagini una storia “già iniziata”, tra incomunicabilità e consapevolezza, rapporti umani e paesaggi evocativi.
Si può dire che Renico abbia un approccio pop-cantautorale dal forte potere narrativo, un po’ come quello di un romanzo che cattura il lettore già dall’incipit. Infatti a rendere il sound ancor più coinvolgente non manca il groove un po’ americaneggiante tanto caro al chitarrista John Mayer.
Cinquecento è l’EP di esordio di un artista che esprime la sua esigenza di continuare a provare stupore davanti alle cose. Anche quando ti accorgi di aver sbagliato strada e ti senti perso, ma ti ritrovi davanti a un meraviglioso tramonto. Come ci spiega Renico, così è nata “Complanari”, una traccia che offre punti di vista inediti.
Che poi per essere creativi il primo passo è provare a cambiare prospettiva, no?
“Cinquecento” è l’EP d’esordio di Renico
E così Renico ci ha anche spiegato di aver iniziato a a suonare la chitarra perché da bambino “suonava bene il flauto”. Da adolescente poi ha deciso di unire la sua passione per la letteratura con quella per le sei corde.
In seguito ha sperimentato l’autoproduzione con un primo progetto cantautorale.
Oggi Renico mette in musica un’attitudine a metà fra sarcasmo e romanticismo tra corse contro il tempo e un po’ di malcelato cinismo, con l’EP d’esordio “Cinquecento”.
La produzione di “Cinquecento” è stata curata da RafQu (LefrasiincompiutediElena) che ha reso il progetto riconoscibile, fresco e personale.
Dunque possiamo affermare che Renico è un artista che con sincerità e con una chitarra come alleata decide di condividere storie autentiche e perché no, condivisibili.
Noi di Indielife l’abbiamo intervistato: guarda il video della nostra conversazione con Renico!
Mi chiamo Carlo Ravona, sono uno scrittore e voglio farla finita.
Sono qui seduto sul ciglio di un cavalcavia, sotto di me scorre lento un fiume ed intorno vedo solo boschi e montagne. Sono solo, ho scelto questo posto perché è chiuso al traffico. L’asfalto sul ponte ha bisogno di manutenzione e le macchine le deviano tre chilometri a sud. Oggi è domenica e non ci sono nemmeno gli operai. È un giorno perfetto. Come può uno scrittore, una persona abituata a viaggiare con la mente, ha creare nuovi mondi solo con la forza del pensiero, scegliere di abbandonarsi alla disperazione e desiderare di farla finita? Ma l’uomo è un animale strano, è capace di essere forte come una roccia e fragile come una foglia d’inverno. Spesso le sottili differenze appaiono nello stesso istante senza mai riuscire a vederle. Non si sente niente, tranne lo scorrere dell’acqua e il verso di qualche animale che, lontano da me, marca il suo territorio. Quante volte sono stato solo con me stesso, quante volte ho amato queste situazioni per tirare fuori le migliori storie dal mio cilindro magico. Ora mi trovo in una situazione simile e con una vecchia macchina da scrivere sulle gambe, sto scrivendo la fine della mia storia. Lascerò la macchina da scrivere e i fogli dentro la mia auto. La troverà qualche operaio domani mattina, non direi lo stesso del mio corpo. Quello lo affiderò al fiume sotto di me, in questo periodo dell’anno è gonfio e ti può portare lontano. Ho sempre vissuto la mia vita seguendo i miei obbiettivi e devo dire, che mi hanno portato lontano. Sono stato fortunato ed ho realizzato il mio sogno fin dalla pubblicazione del primo romanzo. Ricordo di averlo mandato ad un concorso nazionale senza pretese, lavoravo come dipendente di un supermercato ed avevo vent’anni. Fui spinto dai miei amici ed io, senza aspettarmi nulla, ho inviato il frutto delle mie prime fantasie. Ho sempre scritto per me stesso, dentro di me c’era la voglia di emergere, ma il critico più spietato di un artista è sempre stato sé stesso. Ricordo lo stupore e le lacrime davanti a mia madre quando risposi al telefono ed una segretaria mi annunciava che il mio romanzo aveva vinto e sarebbe stato pubblicato da un importante editore. Avevo scritto un thriller, un romanzo non troppo lungo come vanno di moda in America. Quello che poi sarebbe diventato un prezioso amico e collaboratore, si presentò nel suo ufficio una settimana dopo quella chiamata. Io, un ragazzo di vent’anni con le gambe tremanti, lui un giovane di trenta direttore di una grande casa editrice e sicuro di sé. La prima volta che lo vidi mi andò antipatico, era il classico figlio di papà che non aveva mai dovuto faticare per ottenere qualcosa nella vita. Ricordo che ne parlai con mio fratello, lui come al suo solito si mise a ridere e mi disse di aspettare. Aveva ragione lui, come sempre d’altronde. Dopo quel primo incontro e quel primo contratto, seguirono altri incontri e altri contratti. Quanti anni sono passati, ora ho quarant’anni, sono uno scrittore famoso e molte persone in Italia mi adorano. Lo so dovrei essere felice, non trovarmi qui a scrivere questo mio ….. non so nemmeno io come chiamarlo; Monologo, testamento, pagina di un diario, fate voi per me. Ma ogni cosa è come una medaglia, ed ogni medaglia a due facce. La mia bellissima favola cambiò direzione una mattina di quattro anni fa. Quel giorno lo ricordo come se fosse ieri ed ogni notte lo rivivo, bagnando le lenzuola di sudore e lacrime. Per ironia della sorte, io che ho sempre riempito le mie pagine di incubi e di persone che ne subiscono la loro forza, io che ho impaurito tanti lettori con alcune mie storie horror, ora mi trovo a vivere la vita dei miei personaggi. Mi sembra di vivere in un mio romanzo ma questa volta, non sono io lo scrittore. Non sono io che decido chi vive e chi muore, chi muove i fili e perfeziona la trama. L’artista e qualcosa di più grande e più potente di noi. Devo dire che è un ottimo scrittore, ha inserito il colpo di scena nel momento giusto. Nel grande libro che è la mia vita, quella mattina di quattro anni fa, è il capitolo che fa sobbalzare i lettori dalla sedia. Sono quelle pagine che leggendole senza prendere fiato, ti ripeti che non può essere vero quello che stai leggendo. Eppure è così, nella vita reale succede di tutto ed è per questo che è così bella ed imprevedibile. Nessuno di noi, nemmeno lo scrittore più talentuoso, potrà mai scrivere una storia come la vita.
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Quella mattina mi trovavo nella mia stanza intento a scrivere il mio ultimo romanzo, ero concentrato su quella che poi sarebbe stata la mia storia incompiuta. Sentì di colpo dei rumori provenienti dal bagno. Chiamai mia moglie, convinto che avesse fatto cadere qualcosa. Non mi rispose, nonostante la chiamai ripetutamente. Mi alzai preoccupato e la trovai svenuta a terra nel bagno con i trucchi sparsi sul terreno. Chiamai immediatamente l’ambulanza e andai con loro all’ospedale. Il mio incubo iniziò lì, con mia moglie nel letto di un ospedale ed un medico che, dopo ore di attesa, si presentò da me con il suo vocabolario forbito da termini medici. Lo pregai di essere più chiaro, non volevo bugie e nemmeno giri di parole. La verità, anche quando è pronta schiaffeggiarti duramente, va affrontata di petto. Il medico accolse la mia richiesta e mi annunciò la terribile malattia che mia moglie aveva preso. Un terribile tumore al cervello che si era ingrandito nella mente di mia moglie, nel più totale silenzio. Quella mattina aveva deciso che era arrivato il momento di farsi sentire e scelse lo svenimento per annunciare la sua presenza. Devo ammettere che fu un entrata in scena con stile. Mia moglie iniziò il lungo calvario che quella brutta situazione ti porta a vivere. Operarono d’urgenza e cercarono di togliere la massa tumorale che si era formata. Purtroppo non tutta la massa poteva essere asportata, una parte aveva intaccato delle zone importanti del cervello. Togliere chirurgicamente anche quella parte, avrebbe tolto a mia moglie delle funzioni importanti nei movimenti del corpo. Scelsero di attaccare quello che rimaneva del tumore, con le sedute di chemioterapia. Vidi la bellezza di mia moglie sparire giorno dopo giorno, ma il mio amore per lei diventò sempre più forte. Annullai completamente la mia esistenza, le storie ed i mondi nella mia testa svanirono come una bolla di sapone nell’aria. Mi appellai a tutti, uomini in terra e spiriti religiosi. Contattai i migliori medici e pregai come non avevo mai fatto in tutta la mia vita. Ma quell’essere spietato continuava a divorare mia moglie dall’interno. Si prese subito i suoi capelli, i suoi bellissimi capelli color tramonto. Ci prese in giro, nascondendosi di nuovo e facendoci credere che fosse andato via, ma riapparve proprio quando stavamo iniziando a riprenderci le nostre vite. Il secondo ciclo indebolirono parecchio mia moglie che faceva sempre più fatica a muoversi e recarsi all’ospedale. La vedevo spegnersi e lasciarsi andare ogni giorno di più. Ero rimasto solo io a combattere e sperare per entrambi. Ho passato giorni interi con la testa tra le mani, a tormentarmi se fosse giusto per lei continuare a combattere o sperare che la morte ponesse fine alle sue sofferenze. Mi sentivo un egoista se volevo continuare con le cure e mi sentivo un insensibile se speravo nella sua dipartita il più presto possibile. Quello che ti uccide di più è il dubbio, il non sapere dove muoversi. Ti senti come in un bosco di notte e con la nebbia che ti circonda. Non vedi la strada e non sai dove andare. Un anno durò quella tremenda passeggiata nel buio e nella paura, un anno di declino fino agli abissi più profondi. Quello che era rimasto della mia amata moglie, mi guardò per l’ultima volta dopo un anno esatto dalla scoperta della malattia. Decisi, negli ultimi mesi, di lasciarla a casa. Desiderava lasciare questo mondo nel calore del letto e accanto a me. Io, ormai rassegnato, volevo la stessa cosa. Era diventata pelle e ossa, quell’essere stava rosicchiando gli ultimi brandelli di carne del mio grande amore, ed io lo vedevo cibarsi senza poter fare nulla. Il giorno che la vidi andare via dalla mia vita pioveva e faceva freddo. Era sdraiata sul letto ed io al suo fianco che gli tenevo la mano. Stavo rivivendo la stessa scena che avevo vissuto con mia madre e dentro stavo morendo anch’io. Mia madre lasciò questo mondo a novant’anni, senza molte sofferenze e scendendo nel sonno. Aveva vissuto a pieno la sua vita e andò via guardandomi e sorridendomi appena. Mia moglie aveva trentasette anni, aveva sofferto le pene dell’inferno nell’ultimo periodo e non la vedevo ridere da circa un anno. Vidi il suo respiro rallentare e la presa nella mia mano perdere forza. Quando mi guardò per l’ultima volta, la vidi accennare un sorriso con gli occhi e questo mi fece un male tremendo. Aveva sofferto tanto e sentiva le sofferenze affievolirsi. Eravamo soli e quando vidi il suo petto rimanere fermo, piansi per tutta la notte. Fuori il tempo era peggiorato, una semplice pioggia si era trasformata in un temporale. Chiamai il medico la mattina dopo ed iniziai ad organizzare il funerale. Nonostante la costante presenza dei miei amici, mi sentivo solo e mi ci sento tutt’ora. Ma il destino, quando inizia a giocare, non finisce mai subito.
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Senza mia moglie, la mia vita non era più la stessa. Passavo giornate a poltrire a casa senza combinare nulla. Il mio editore, pur capendo la mia situazione, mi assillava per avere qualcosa da pubblicare. Io non riuscivo a scrivere nemmeno la lista della spesa. Mi diedi anche all’alcolismo. La bottiglia riempì presto le mie giornate ed affogò i miei pensieri. Ma i pensieri, come i problemi, sanno nuotare benissimo. Mio fratello veniva spesso a trovarmi e mi aiutò ad uscire dal quel momento di alcolismo. Con il suo aiutò buttai ogni singola goccia di alcol e cercai di riprendere in mano la mia vita. Così avrebbe voluto la mia cara moglie e così io dovevo fare. Lo dovevo fare non solo per me, dovevo rialzarmi per onorarla. Il prezioso aiuto di mio fratello terminò un pomeriggio d’inizio estate. Era metà giugno e mio fratello si recò nel suo posto preferito. Era nato per volare. Aveva sempre preferito le nuvole alla terra ferma. Mentre io, vigliaccamente, preferivo volare con la fantasia, lui voleva letteralmente attraversare le nuvole e fisicamente guardare il mondo dall’alto. Iniziò con il paracadutismo, lo praticò al livello sportivo anche dentro l’esercito. Vinse qualche medaglia e vari riconoscimenti nelle competizioni internazionali. Dopo dieci anni di paracadutismo sportivo, passò agli altri sport come il parapendio. Divenne molto famoso e molte marche del settore lo chiamavano per fargli pubblicizzare il loro prodotti o per farglieli testare. Amava soprattutto le tute speciali con le ali. Mi diceva sempre che con quelle hai veramente la sensazione di volare. Quella mattina si trovava in Tibet, doveva testare una nuova tuta alare ed aveva scelto le montagne del Tibet perché in quel periodo era stupendo sorvolarle. Come ho già detto prima, quando il destino inizia a giocare, lo fa per lungo tempo. Io mi trovavo a casa, al posto della vodka optai per una tisana e cercavo di riprendere in mano il mio libro. Era stata da sempre una mia abitudine, quella di scrivere con la musica di sottofondo. Quella mattina scelsi di accendere la radio e la musica terminò improvvisamente quando ascoltai una notizia straordinaria. La giornalista disse che un nostro connazionale era morto durante un volo con una tuta speciale. Fece il nome di mio fratello che, con gli anni era diventato molto famoso in Itala e nel mondo, ed io avvertì il gelo nelle mie vene. Mi alzai di scatto, andai in salone ed accesi la televisione. Un’altra edizione speciale del telegiornale stava dando la notizia trasmettendo le prime immagini dal Tibet. Tutti confermavano che si era trattato di un incidente e che la vittima era proprio mio fratello. Il resto del mio mondo che ancora si reggeva in piedi, in quel momento, crollò come una vecchia casa durante un terremoto. Avevo ancora in mano la tazza con metà tisana ancora fumante. Gettai nel lavandino il liquido, uscì di casa e andai a comprare una bottiglia di Bourbon al supermercato. Il resto del giorno lo passai a guardare la televisione e a scolarmi quella bottiglia, crollai ubriaco sul divano. Il telefono squillò a lungo ma io non lo sentivo. Ero rimasto da solo, l’ultimo membro della mia famiglia era morto. Come può un uomo rialzare la testa, quando c’era sempre qualcuno pronto a spingerti nelle tenebre. Il giorno dopo mi svegliò il citofono e il terribile mal di testa che ne seguì dopo il risveglio. Era il mio amico e direttore editoriale che, avendo appreso la notizia, si era precipitato a casa mia. Cercai di darmi una sistemata come potevo e gli aprì. Lui vide subito la bottiglia vuota vicino al divano e mi diede uno schiaffo tremendo. Mi buttò sotto la doccia e mi portò fuori a fare una passeggiata. In un bar e davanti ad una tazza di caffè, cercò di consolarmi. Fece appello a tutti i discorsi e a tutte le parole che si usano in quelle circostanze. Mi disse che dovevo riprendere in mano la mia vita perché le persone che mi avevano lasciato, non avrebbero voluto vedermi in quello stato. Tutte belle parole, tutti discorsi che avrei fatto anch’io al suo posto, ma non servivano a ricostruire il mio stato d’animo. Nel mio cuore sentivo solo macerie e grida di dolore. Per la ricostruzione serviva tanto coraggio ed io in quel momento né ero sprovvisto. Buttai tutto al cesso per la seconda volta. Non ripresi a bere solo perché avevo fatto una promessa a mio fratello. Ma mi mancava, così come mi mancava mia moglie. Ogni notte addormentarmi su quel letto vuoto alla mia destra, è come una pugnalata costante al cuore. Dopo vari mesi, passati a vegetare dentro casa, oggi sono venuto qui. Sono esattamente due anni che è morto mio fratello e tre anni che è morta mia moglie. Il mese scorso sono stato al cimitero e gli ho portato i fiori, sarebbe stato il suo compleanno. Oggi invece è l’anniversario di morte di mio fratello e sono venuto qui.
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Non sono mai stato un lottatore, un coraggioso. Mi sono sempre nascosto nei miei mondi di fantasia per evitare la realtà e nonostante questo, ironia della sorte, lei si è presa gioco di me prendendomi a schiaffi. Ho scelto questo posto non ha caso. In questo posto, proprio nel punto dove sono seduto ora, vidi per la prima volta mio fratello volare. Aveva appena compiuto diciotto anni e mi aveva chiesto di regalargli un tuffo nel vuoto. Decisi di assecondarlo, di nascosto dai nostri genitori che ovviamente non sapevano nulla, lo portai in questo posto dove alcune persone si buttavano dal cavalcavia legati solamente da un elastico alla caviglia. Ricordo di averlo visto volare nel vuoto, di aver sentito il mio cuore in gola e di vederlo rimbalzare come una pallina da tennis. Io ero in preda al panico e lui rideva gridando che quello era il compleanno più bello della sua vita. Così come allora, in questo stesso punto, il panico si è preso quello che resta del mio cuore e della mia mente. Mi alzo in piedi e mi tuffo così come fece mio fratello tanti anni fa.
L’elastico che Carlo si era legato alle caviglie si tese, lui vide la terra avvicinarsi ed allontanarsi diverse volte. Quando era in aria chiuse gli occhi, poi li riaprì sentendo la voce di suo fratello che lo prendeva in giro. Venne a tirarlo giù il suo amico ed editore insieme alle forse dell’ordine. Era tutto il giorno che non rispondeva e lo trovarono grazie alla localizzazione del suo telefonino. Carlo si riprese dalla depressione e quello che avete letto è la fine del suo ultimo libro. Questa volta non scrisse una storia di fantasia ma volle raccontare la sua esperienza come monito per tutte le persone che soffrono di depressione. Non bisogna mai arrendersi.
“Colpogrosso” è l’album che sancisce l’esordio solista di Alangrime, cantautore indie e pittore di lunga esperienza. Se i suoi quadri sono esplosioni di colori e parole che rivelano un intenso vissuto interiore, le sue canzoni raccontano la stessa storia, ma con sfumature diverse: “Colpogrosso” è come un oggetto che si muove lento nello spazio profondo. si identifica in sonorità trap e pennellate post-rock e grunge, tenute insieme da una fitta trama elettronica. Un lavoro dal sound oscuro e malinconico, eppure pervaso da una calda tenerezza (e da un erotismo non troppo nascosto).
Siamo andati a intervistare Alangrime per scoprire qualcosa di più sul suo disco.
Un donut che fluttua nello spazio: è la copertina di “Colpogrosso“, l’album di Alangrime. Accanto, un’opera su tela dell’artista (fonte: Alangrime.com)
Ciao Alangrime, benvenuto su Indielife! Le tue opere visive sono estremamente vivide, piene di colori. Hanno un impatto emotivo diverso da quello della tua musica, che ha toni molto più scuri, in un certo senso.
Ho correlato musica e arte solo negli ultimi anni, quando ho voluto far sì che viaggiassero su due binari paralleli. Il colore in sé, non è che indichi stati d’animo felici o negativi…a livello pittorico amo la presenza di tanti colori, quindi non mi precludo niente. Mentre con la musica, sì, sono sempre stato affascinato dalla parte più cupa. Io dico sempre che dove non arriva la mia arte – dove non metto il nero, il grigio, arriva la mia musica. Sono le mie due facce della medaglia.
Ascoltando “Colpogrosso”, oltre all’influenza grunge si scorge anche un gusto per la corrente emo trap, quella di artisti come Lil Peep.
Sì, il disco di Lil Peep l’ho scoperto per caso, ed è stato un’ispirazione. L’ho tenuto in macchina per più di un anno. Strumentale e chitarre decadenti nel contesto trap…è tra i generi che ha influenzato l’album. Poi, la mia estrazione non è totalmente rap. Ho cercato di fare mie delle piccole cose che rielaboro alla mia maniera.
Ed infatti, il risultato è estremamente personale. Parliamo dei titoli delle canzoni: tra “@valenappi” e “crudimécrudité”, è chiaro che la scelta non è mai casuale.
Sono molto attento coi titoli. Non sempre rappresentano quello che è il testo, anzi, possono essere un pretesto per capirmi, raccontano un’altra parte di me stesso. Creano un immaginario nell’ascoltatore: ognuno quando legge un titolo si fa il suo viaggio, e questo mi piace. Il titolo “@valenappi“, ad esempio: è il mio modo di iconicizzare Valentina Nappi, come si fa nel mondo dell’arte. Provocare la mente di chi ascolta.
Nel dettaglio, anche dai testi si intuisce la tua attenzione per le parole.
Va saputo dare un certo gusto fonetico. Sono un po’ un nerd, con le parole: mi metto lì, le scrivo, le stravolgo, cambio le lettere. Talvolta, quando una parola storpiata mi piace, la tengo così. L’italiano è una figata. Devi trovare la quadra per rappresentare te stesso sotto forma di parole. Faccio anche molte associazioni di idee assurde che poi per qualche ragione tornano, e va bene così.
Infine, la copertina del disco: la ciambella rosa che galleggia nello spazio. Cosa c’è dietro?
Innanzitutto sono un appassionato di food, amo cucinare e ho sempre scelto i dolci per le copertine dei miei lavori musicali. Per me il dolce è invitante: nel mio mondo, se vedo un album con un dolce in copertina, vado e lo compro. Poi, per formazione artistica amo fare riferimenti erotici, sono un appassionato dell’erotismo. Il donut è uno di questi. Poi lo spazio, gli UFO, le stelle, i pianeti…Negli ultimi quattro anni ho vissuto momenti difficili, ho perso persone importanti. Si tratta di una ricerca, di un contatto, perché lo spazio è quel luogo in cui le cose non finiscono mai. E poi, io sono uno che vuole sempre fuggire. Fisicamente rimango qua, ma col resto, parole, pensiero, tutto, cerco sempre di trovare me stesso e fuggire. Quindi, lo spazio è un luogo in cui ritrovarsi.
“Colpogrosso” è l’album di Alangrime distribuito da (R)esisto, ed è disponibile su Spotify e su tutte le piattaforme digitali.
Se siete curiosi di scoprire di più sul suo lavoro, potete farlo esplorando il suo profilo Instagram o visitando il sito web Alangrime.com
“E Tu Invece Come Stai?” è l’album d’esordio di Spumante. L’album è stato pubblicato lo scorso 5 maggio per Woodworm Label e distribuito da Universal Music Italia.
Il momento storico che stiamo vivendo è quel che è, ma l’artista aretino Spumante ha deciso di regalarci comunque questi dieci brani, perché la musica non si ferma e non deve fermarsi. “Ogni titolo è un ricordo, ogni ricordo è un’esperienza bella o brutta che mi ha formato”, scrive Spumante sul proprio profilo Instagram.
Noi di Indielife abbiamo deciso di fare quattro chiacchiere con lui.
Ciao Spumante, vorrei iniziare con una domanda che potrà sembrare banale, ma in questo momento storico mi sembra d’obbligo: ma tu (invece) come stai?
La risposta a questa domanda è vasta come l’universo, verso gli altri è facile fare questa domanda, ma rispondere a se stessi è veramente un caos. In questo momento sto bene, per quanto si possa stare bene in un periodo del genere. Sono molto felice che l’album sia stato apprezzato, ma ho l’amaro in bocca dati tutti i programmi svaniti nel nulla. Sto bene perché finalmente una parte di me è uscita fuori anche se il futuro è cosi incerto da riderci su. Diciamo che come sempre sono pieno di emozioni contrastanti, ma va bene cosi, mi fanno sentire vivo.
Com’è stato pubblicare il tuo primo album “E tu invece come stai” in questo periodo così strano e difficile? Col senno di poi pensi di aver fatto la scelta giusta o sarebbe stato meglio aspettare? (Che poi, aspettare fino a quando non si sa).
È stata una decisione ardua, molti mi hanno consigliato di aspettare, la domanda che mi facevo io era “aspettare cosa”? In questo periodo incerto pensare al futuro è da pazzi, questo album è stato scritto e prodotto nel giro di due anni. Dentro di me sentivo che questo fosse il momento giusto, perché quelle parole dovevano uscire fuori in qualche modo prima possibile, perché se aspettavo troppo sarebbero stati pensieri troppo vecchi e la vita va avanti. L’unico rammarico che mi lascia con un profondo amaro in bocca è stato di veder saltare tutto il tour che avrebbe fatto conoscere le canzoni a più persone. Quindi a due settimane dall’uscita sono contento di aver scelto questo periodo, perlomeno sarà un periodo che rimarrà bene impresso nella storia di tutti noi.
“E tu invece come stai” è un album molto intimo. Credo che la tua interiorità passi benissimo attraverso molti brani (penso ad esempio a Vivo, Paura, Realtà). Cosa ti ha dato il coraggio di esporti così?
Ho sempre prodotto musica prima di iniziare a scrivere testi. Dopo crisi esistenziali e amori finiti, la delusione era troppa quindi ho deciso di mettere in canzone quello che pensavo. Il coraggio me lo ha dato la poca comunicazione che avevo una volta finita la relazione con la mia ex ragazza, mi aveva bloccato ovunque e l’unico modo per farmi sentire è stato scriverle canzoni. Da lì è nata l’esigenza di dar voce a tutti i miei pensieri non solo d’amore ma anche di vita in generale.
Puoi dirci come nascono i tuoi pezzi, da dove trovi la tua ispirazione?
L’ispirazione la trovo dalla vita di tutti i giorni, dai rapporti umani, dalla natura, e dalle mille domande che mi faccio ogni giorno. Tendo sempre a scrivere cose reali, che mi sono accadute, perché scrivere di storie immaginarie non sono mai in grado, ho bisogno di vivere esperienze in prima persona. La musica per me è come l’aria, quindi l’esigenza di descrivere i miei complessi mi ha fatto diventare un cantastorie.
Mi hai detto che in questi giorni finalmente sei tornato in studio. Cosa ci stai nascondendo?
Si, in questi giorni sono tornato in studio con il mio co-producer e amico Stefano Mura, perché la voglia di lavorare a nuove canzoni è tanta, ed entrambi non ci fermiamo un attimo. Alla fine le canzoni di “E tu invece come stai?” sono degli ultimi mesi della mia vita, ma il tempo passa e nuovi pensieri entrano nella testa, in qualche modo devono uscire no? (sorride, ndr)
Si parla molto di come il mondo dello spettacolo in generale e della musica in particolare affronterà la realtà quando l’emergenza si sarà placata. Si parla di concerti in drive-in o addirittura bike-in. Tu cosa pensi che succederà? Come immagini un tuo concerto nel periodo post Covid?
Sai che non ho la più pallida idea? Ne sento sparare di ogni colore tutti i giorni, quelle cazzate di drive-in o bike-in ammazzano lo spirito della musica dal vivo. Quindi preferirei aspettare più tempo prima di esibirmi. Un mio concerto futuro sarà comunque col sorriso, con tanti amici e tante birre. I concerti sono questo, tutto il resto è finzione.
Lo scrittore vimercatese Loris Palmieri presenta “Saat Baar: Una vita, sette morti”, un romanzo psicologico basato sull’alchimia trasformativa e sulla crescita personale; un libro, un viaggio attraverso la consapevolezza e il cambiamento, nonché una riflessione filosofica sul senso profondo della vita.
Si tratta di un progetto autofinanziato e volto a condurre il lettore alla ricerca di un contatto col vero sé. Impossibile non rimanere coinvolti dalla narrazione. L’autore propone infatti anche di individuare trentacinque parole nascoste che alla fine comporranno la morale del romanzo.
Inoltre un profondo pensiero filosofico accompagna il lettore attraverso una storia che è metafora del viaggio dell’esistenza. Dunque si nasce e si muore più volte anche senza accorgersene. Si tratta di un ciclo di morte e rinascita rappresentato dal Saat Baar, pratica esoterica simile all’ipnosi regressiva, ma che in realtà è semplicemente il percorso di ogni essere vivente che nel dolore sperimenta la morte per poi rialzarsi e tornare a vivere più consapevole.
Cos’è del resto il dolore se non una straordinaria possibilità di crescita e evoluzione? Secondo l’autore è la sofferenza che garantisce un’autentica comprensione della propria esistenza.
Trama
Il romanzo è raccontato in prima persona ed è ambientato nella Torino del 1985. Il protagonista, un uomo introverso e in conflitto con sé stesso, cade in uno stato depressivo a seguito di un tragico evento ma un incontro provvidenziale col santone Shamut Muun lo conduce verso la strada segreta del Saat Baar: Una vita, sette morti lo conducono a un ciclo di rinascite fino a un epilogo straziante ma luminoso, dal forte messaggio di speranza e cambiamento.
Saat Baar: Una vita, sette morti
Loris Palmieri ci racconta una storia travolgente, ricca di colpi di scena e dunque da leggere tutta d’un fiato. “Saat Baar: Una vita, sette morti” è disponibile qui.
Dall’otto Maggio possiamo ascoltare un nuovo progetto di Blumosso e le sue “Conseguenze” in musica. Si tratta di un percorso che ha avuto inizio due anni fa con la pubblicazione del disco “In un baule di personalità multiple”.
“Conseguenze” è un album che condensa emozioni e autenticità, paure e riflessioni, note e tonalità di colore inedite. Blumosso, nome d’arte di Simone Perrone, è un artista Pugliese che si definisce un “inventore di canzoni”, che racconta le guerre che ognuno combatte con se stesso quotidianamente.
Le sonorità dei suoi progetti sono in equilibrio fra sperimentazione e cantautorato. I testi sono ricchi di frasi a effetto: dall’ organizzare il dolore (dal brano Ermione) alla delicata dedica del brano Universo Statico.
“Conseguenze” potrebbe essere considerata una raccolta di poesie, di quelle poesie in cui ti immedesimi. Si tratta di versi non proprio facili da memorizzare ma forieri di riflessioni profonde ma anche leggere (e non superficiali).
Blumosso infatti è anche un autore di romanzi che, come ci spiega, potrebbero essere definiti romanzi di formazione. Che sia tutto frutto di un’emergenza espressiva? Di certo Simone Perrone è un artista che ha deciso di non farsi mancare proprio nulla.
E noi non vediamo l’ora di ascoltare un suo live.
Ma adesso, per saperne di più, guarda l’intervista #indiretta!
Blumosso e le sue “Conseguenze” in musica, l’intervista.
Dopo questo progetto che narra storie di vita con ritmi tumultuosi come un mare in tempesta, il cantautore afferma di voler prendere del tempo per riflettere su un nuovo percorso musicale, magari più sperimentale che possa segnare anche una nuova fase dell’esistenza.
Il 22 Maggio esce il video di “Sandra e Raimondo”, il nuovo singolo di Giannini, cantautore pugliese che ha scelto la coppia più amata dal pubblico italiano per sostenere una raccolta fondi a supporto del sistema sanitario della sua regione per l’emergenza Covid-19. Tutti i proventi verranno destinati al conto corrente promosso dal governatore Michele Emiliano.
Una grandissima iniziativa che abbiamo voluto approfondire proprio con l’artista.
Hai scelto come titolo del tuo nuovo singolo “Sandra e Raimondo”, icona della coppia italiana. Come mai questa scelta?
In realtà non è stata una scelta ricercata o voluta. Questo è un brano nato senza la volontà di pubblicare qualcosa a tema Covid-19. Avevo ricevuto l’invito da Fabio Alcini di preparare e pubblicare un contenuto live con la volontà di creare dell’intrattenimento soprattutto nel periodo più clou del lockdown. Essendo io un tipo un po’ allergico alle cover, considerando la difficoltà di entrare in un brano per trasmettere emozioni, ho preferito scrivere un testo mio. Mi è uscito di getto e, senza pensarci troppo, mi è tornata alla mente questa immagine. Dovevo scegliere un simbolo che rappresentasse la canzone e, inoltre, volevo far arrivare il concetto di “restare a casa”, quindi mi è sembrata la scelta più indicata.
Il video sarà realizzato grazie al montaggio di vari video che ti sono stati inviati durante la quarantena. Ce n’è stato uno che ti ha emozionato di più?
In realtà no. Voglio essere onesto, mi sono arrivati tanti video simili tra loro. Ho capito che ci sono state delle attività che tutti hanno preferito durante il lockdown: tanti esercizi a corpo libero di ginnastica o lavoro in smart working. Avevo chiesto ad un amico che lavora in ospedale del contenuto da parte di infermieri ed operatori, non con la volontà di fare qualcosa di demagogico o dal consenso facile, ma mi piaceva l’idea di portare un contributo reale, un “dietro le quinte”. Loro, però, sono stati troppo presi dal lavoro che non hanno avuto momenti di leggerezza.
Il video, comunque, visto in carrellata è molto bello, perché anche questa similitudine che si è creata, in fondo, richiama un messaggio importante. Credo che avevamo bisogno di sentirci tutti parte di qualcosa, al pari, tutti un po’ più simili. Nella sua “monotonia” ci ho rivisto il concetto dell’uguaglianza tra tutti.
I proventi verranno poi destinati all’acquisto di nuove attrezzature per i reparti di rianimazione pugliesi.
Stavo cercando una causa da sostenere perché volevo dare il mio contributo e fare la mia parte appoggiando un’iniziativa che mi toccasse più da vicino. Avendo dei contatti con la protezione civile e avendo incontrato in una manifestazione il governatore Emiliano, ho avuto l’occasione di venire a conoscenza di questo progetto che ho trovato magnifico e mi piaceva lanciare il messaggio che tutti possiamo fare la nostra parte, seppur con un minimo ciascuno.
Nella canzone hai descritto una quarantena con leggerezza e tranquillità. Hai mostrato una coppia che nella “reclusione” ritrova il piacere di stare insieme, infatti mi ha colpito molto la frase che dici: “Restare a casa. Mi piace perché posso star con te”. Tu come l’hai vissuta questa quarantena?
Io l’ho vissuta molto bene. Ho accettato la situazione e mi sono dedicato a tutte quelle cose che non avevo avuto il tempo di fare. Ho scritto tanto, ho fatto il punto della situazione sul disco e sulle prossime idee. Tutto questo mi ha permesso di lavorare con calma, senza fretta e non accavallando i compiti. Ho sentito proprio il piacere di sedermi, pensare a ciò che stavo facendo e concedermi il lusso di prendermi una pausa. Per il resto, poi, ho fatto quello che hanno fatto un po’ tutti: ho guardato diversi film e ho letto.
Ritornando al brano voglio sottolineare che ultimamente mi piace molto l’idea di voler trovare il lato positivo delle situazioni, il bicchiere mezzo pieno, perché, anche in momenti come questo che stiamo vivendo, si può trovare la positività, la possibilità di fermarsi, porsi delle domande e rallentare il tempo. Credo inoltre che, soprattutto in un periodo come questo, le persone hanno bisogno di essere intrattenute, sorridere e staccare per un attimo la mente facendola viaggiare. Pertanto la musica per me deve avere anche una connotazione positiva, regalare una sensazione di leggerezza e accendere delle sensazioni.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Avevo programmato l’uscita del disco in primavera e dopo diverse riflessioni, ho deciso di farlo uscire subito dopo l’estate perché sento il desiderio di promuoverlo e farlo ascoltare anche dal vivo, visto il tanto lavoro di due anni che c’è dietro. Spero davvero che si possano ricreare presto delle situazioni, anche ristrette, così da avere l’opportunità di raccontare di persona il disco. Ho in programma, inoltre, di far uscire ogni due mesi un nuovo singolo: ci sarà uno a luglio e un altro a settembre.
Lasciamoci con un augurio!
Auguro a tutti di uscire fuori ma restando a casa. Userei una frase storica per dirlo meglio: “un piede avanti e uno indietro” che in questo caso però si trasformerebbe con “un piede avanti e uno a casa”,per godersi meglio tutto il buono che può arrivare e che sono certo arriverà.
Sono le undici di sera in una piccola città di provincia. Le strade sono vuote, la maggior parte delle persone si è nascosta in casa e si distrae con la televisione. Dall’orizzonte un uomo solitario cammina dritto nelle strade buie, fa freddo ed apparentemente non ha nessuna meta. Il vento che soffia forte, gli taglia la faccia. Lui cerca di coprirsi come può e continua a camminare. Non ha una fissa dimora, non più ormai. Da circa dieci anni, la strada è la sua casa. Non ha rimpianti e continua a camminare con passo lento. Si trascina a fatica. Ogni tanto torna indietro con la mente, senza mai pentirsi di nulla. La vita è una, con i suoi alti e bassi. Il nostro compito è viverla a pieno e prendersi quello che dà. Quel compito lui l’ha svolto fin troppo bene. È arrivato a sessant’anni camminando sulle alte vette del successo, conoscendo l’ingannevole benessere dei soldi per poi precipitare in anticipo, nelle infuocate lande dell’inferno. I suoi occhi hanno visto tutto e il contrario di tutto. Il bene e il male combattersi ed allearsi in un breve lasso di tempo. Il buono e il cattivo camminare a braccetto, mescolandosi tra la gente comune. Lui ha fatto parte della festa per molti anni, indossando tutte queste maschere per i propri bisogni. Non si è mai pentito di nulla ed ora, in questa gelida notte di metà febbraio, ha un solo ed unico pensiero. Trovare un rifugio per la notte. Il vento fischia intorno al suo viso malamente coperto, penetra nel corpo e gli divora le ossa. La sua nobile cena era costituita da un panino con la mortadella ed un cartone di vino. A pranzo a digiunato, il freddo ha deciso di guastare i suoi piani fin dalla mattina, portando in strada poca gente. Ha camminato per tutto il giorno, chiedendo l’elemosina nei punti centrali della città, ottenendo poco e niente. Ma lui è abituato, conosce bene i giorni di magra come quello. Ci sono state giornate intere dove non ha mangiato nulla. Tira su il colletto del suo cappotto sudicio e continua a camminare. I suoi vestiti logori continuano a coprirlo alla meglio dal freddo pungente di quella notte buia. Le strade di periferia sono sempre le meno illuminate e le più pericolose. Ormai più nulla gli fa paura, è diventato lui una di quelle persone che la gente evita per paura. Fa tutto parte del rovescio della medaglia. C’è stato un tempo in cui lui schifava ed evitata la gente che dormiva sotto i ponti, pulendosi la coscienza ogni tanto lanciandogli qualche moneta. Ora i ponti sono un lusso che raramente può permettersi. Nessuno se lo immagina, ma anche tra i barboni c’è una gerarchia da rispettare. È un mondo parallelo con le sue regole. Per avere un posto coperto da una coperta e da un ponte, devi batterti. Sfidare uno dei barboni che ha il posto da anni e batterlo. Il mondo è un giungla, ma il mondo dei senzatetto è un po’ come l’Africa. Ogni leone ha il suo territorio ed un altro leone per ottenerlo deve battere il suo rivale in battaglia. Spesso le liti degenerano e molte persone si fanno veramente male. È capitato che ci scappasse il morto, ma raramente si arriva a tanto. I morti catturano l’attenzione delle forze dell’ordine e con loro in giro a ficcare il naso, tutto è ancora più complicato. Sono appena dieci anni che sta in strada, un lasso di tempo breve nel loro mondo. Ci sono persone che sono in strada da trenta o più anni, altre che ci sono sempre state, abbandonati da piccoli prima ancora di capire che sono nate. Nell’ambiente lui non è visto di buon occhio, molti non lo considerano uno di loro. Un tempo era ricco e quindi non possono considerarlo un senzatetto autentico come loro. Strano come questo concetto è espresso benissimo anche tra i ricchi.
L’indifferenza veste abiti diversi, ma esprime sempre gli stessi concetti. Un tempo poteva comprarsi la stazione centrale e organizzarci una festa privata, ora ci va per chiedere l’elemosina. La vita è capricciosa e gli piace giocare. Quello che ti dona nell’arco di anni, te lo toglie nel giro di una notte simile a questa. Ti siedi intorno ad un tavolo con quattro amici o così dovrebbero essere. Un paio di partite, molte sigarette ed il bicchiere sempre pieno. Quando ti alzi però non possiedi più nulla. Non hai più neanche una moglie che, trascurata da tanti anni, scappa con il l’insegnante di ballo più giovane di lei. Riesce a toglierti metà del patrimonio che ancora non si sono presi le banche o gli amici del poker. Qualche rara macchina in cerca di sballo gli passa vicino ma le ignora, così come chi guida ignora lui. Perché è un invisibile, uno dei tanti fantasmi che passeggiano per la città. Durante il giorno qualcuno si accorge di lui, gli lascia qualche spiccio e con esso la speranza di mettere qualcosa sotto i denti. Ma quando scende la sera e la luna subentra al sole, la corta memoria delle persone si scorda di lui e di quelli come lui. Non prova rancore per loro, un tempo anche lui di giorno regalava banconote mentre di notte chiudeva a chiave la sua villa perché aveva paura degli invisibili.
Cammina ormai da due ore, senza sapere esattamente dove si trova. La notte rende le strade tutte uguali e i quartieri luoghi misteriosi e sconosciuti. Una grande luce in fondo alla strada attira la sua attenzione, una piccola stazione della metropolitana che non è stata chiusa bene. È una di quelle fermate di periferia, sporche e poco considerate. Ai suoi occhi è una reggia, proprio come lo era la sua casa quando aveva i soldi. Un sorriso nascosto dal colletto del suo cappotto sporco appare improvvisamente. Forse lassù qualcuno lo ama, nonostante tutto. Decide di entrare e di guardarsi intorno in cerca di un posto dove riposarsi. Non potrà dormire a lungo, la prima corsa partirà tra meno di tre ore. Decide di recarsi nei bagni, lì le porte si possono chiudere a chiave e non dovrebbe essere disturbato. Non esiste il servizio pulizia in quella stazione. Durante il tragitto, vicino ad un cassonetto dell’immondizia, ha trovato un paio di grossi cartoni. Saranno il suo materasso e la sua coperta. Si sdraia a terra e prende sonno immediatamente. La stanchezza è tanta, come i metri che ha percorso.
Nel sonno, il cuore affaticato decide di andare in pensione. Il vecchio signore diventa a tutti gli effetti un fantasma, mentre il suo corpo viene trovato il giorno dopo da un vigilante che si era recato in bagno.
Storia delle radio libere in Italia ovvero le 45 canzoni che hanno segnato un’epoca
La storia delle radio libere in Italia, va di pari passo con l’avvento della comunicazione libera. Siamo a metà anni ‘60. A quell’epoca, la RAI aveva il monopolio sulle frequenze non solo televisive, ma anche radiofoniche. Il 1968 era alle porte e ben presto sarebbe successo qualcosa di straordinario, non solo in Italia, ma anche in Europa e nel mondo.
Da Nord a Sud, la voglia di cambiamento nei giovani era tanta e la radio sarebbe presto diventata voce di un’intera generazione. Oggi come allora, c’è ancora bisogno di fare il pieno di musica, nonostante siano trascorsi la bellezza di 45 anni.
In occasione di questo importante anniversario, le principali radio hanno dato vita al progetto “I love my radio” che prenderà il via il prossimo 18 maggio e durerà tutta l’estate.
Che aspettiamo? Percorriamo insieme la storia delle libere in italia dagli anni ‘70 fino ad oggi.
La nascita delle radio in italia: gli anni della radio pubblica
Prima di parlare delle radio libere, è opportuno tornare indietro e precisamente ai primi 30 anni della radio, quando era ancora considerata un bene pubblico. Allora la radio era gestita da enti pubblici. Prima da URI, che diverrà qualche anno più tardi EIAR e poi RAI, che nel 1954 inaugurerà anche le trasmissioni televisive.
La radio tra gli anni ‘20 e ‘50: l’avvento del fascismo e la seconda guerra mondiale
La radio arriva in Italia nel 1924, quando il 6 ottobre l’URI (Unione Radiofonica Italiana) inaugura per la prima volta le trasmissioni. La voce del primo annuncio è quello di Maria Boncompagni che presenta un concerto operistico, le notizie sulla borsa e il meteo.
In quello stesso anno, prenderà il controllo della radio Manlio Morgagni, un fedele di Mussolini che trasformerà la radio in un potente strumento di regime. Nel 1928 arriva la svolta: URI diventa EIAR (Ente Italiano per le Audizioni radiofoniche). Da qui in poi, la radio comincia a diffondersi su tutto il territorio nazionale. Questo avviene grazie all’introduzione sul mercato a fine anni ‘30 di radio alla portata di tutti.
A partire dal 1943, con la caduta del fascismo, iniziano a diffondersi le prime radio dell’Italia libera. Nascono Radio Napoli, Radio Roma, Radio Bari e soprattutto radio RAI. Trasmettono inoltre nell’etere, radio estere come la BBC e radio Mosca che portano le ultime news sulla seconda guerra mondiale ovunque.
Nel 1949, EIAR diventa ufficialmente RAI che decide di restaurare il mezzo proponendo al grande pubblico rubriche culturali oltre che di attualità.
La radio tra gli anni ‘50 e ‘70: il boom economico e le contestazioni giovanili
Tra gli anni ‘50 e ‘60 assistiamo ancora ad altre innovazioni tecnologiche: nasce la filodiffusione che permette la trasmissione radiofonica in stereofonia e il transistor che permette alle case produttrici di realizzare radio più piccole ed economiche. La radio quindi entra ufficialmente nelle case di tutti gli italiani o quasi.
A fianco di tantissime trasmissioni di cultura e musica classica, appaiono anche i primi programmi adatti ai più giovani. Gianni Boncompagni assieme a Renzo Arbore diventa il pioniere di una serie di trasmissioni di successo, dedicati a questa fascia. Sono gli anni di Bandiera Gialla, Hit Parade e Alto Gradimento. Nonostante ciò, il 1968 portò un vento carico di novità e la vecchia radio di Stato fece fatica a stare dietro alle tendenze dei più giovani.
Storia delle radio libere in Italia: gli anni ‘70 – ‘80
Negli anni ‘70 i tempi erano pronti per le prime radio private. Sono gli anni di piombo e delle contestazioni giovanili. Nuovi linguaggi, nuovi costumi e nuove tendenze hanno cambiato per sempre la società e i giovani di allora erano alla ricerca del ritmo giusto che scandisse le loro giornate.
Il 10 marzo del 1975, con la prima trasmissione di Radio Milano International (ora R101), prendono il via le radio libere. Le frequenze allora, erano monopolio dello Stato. Per questo motivo le prime radio facevano fatica a decollare o venivano sequestrate dalla polizia postale.
Nel 1976, con la sentenza della corte costituzionale, le radio sono libere di trasmettere e nel giro di pochi anni nascono più di 1000 radio su tutto il suolo nazionale. In questo periodo infine, iniziano anche a trasmettere radio estere come Radio Capodistria, Radio Montecarlo e Radio Svizzera Italiana.
Le radio libere e la politica
Le crescenti contestazioni contro la politica e i continui attentati delle Brigate Rosse, favoriscono la nascita di emittenti radiofoniche “politicizzate”. Nel 1976, nascono radio popolare e radio radicale e nel 1977, per poco meno di un anno trasmetterà a Terrasini, un piccolo paesino della provincia di Palermo, Radio Aut.
Gestita e autoprodotta da Peppino Impastato, Radio Aut era utilizzata come canale di denuncia contro la mafia, ed in particolare contro il boss “Gaetano Badalamenti”. Nel programma radiofonico “Onda Pazza a mafiopoli”, Peppino Impastato faceva satira contro “Tano Seduto”, come veniva scherzosamente chiamato il boss Badalamenti.
Radio Aut ha interrotto ufficialmente le trasmissioni con l’assassinio di Peppino Impastato, ma il suo breve operato è entrato nella storia Italiana e Radio Aut è diventata una leggenda.
Storia delle radio libere in Italia: i protagonisti
Numerosi personaggi di spicco, agli albori della loro carriera, sono passati dalle radio libere. Da Vasco Rossi, a Gerry Scotti, Fiorello, tantissime star quando non erano ancora famosi, si sono “sporcati le mani” facendo i disc jockey nelle radio locali.
Vasco Rossi
Non tutti sanno che Vasco Rossi, è stato Dj di Punto Radio, una piccola radio di Zocca, in provincia di Bologna dal 1976, fino alla fine degli anni ‘70, quando decise di buttarsi verso la carriera da cantante solista.
Claudio Cecchetto
Claudio Cecchetto è noto come produttore e talent scout. Ha lanciato artisti come Jovanotti e Max Pezzali, ma nel 1975, all’inizio della sua carriera, era DJ a Radio Milano International. In seguito è approdato a radio 105. Nel 1978 è diventato conduttore televisivo della nascente Telemilano 58 e negli anni ‘80 ha condotto programmi di successo come Discoring e Festivalbar.
Amadeus
Amadeus, prima di diventare un conduttore televisivo affermato e condurre Sanremo 2020, negli anni tra il 1984 e il 1986 è dj di Radio Verona ed in seguito di Radio Blu. Durante il Festivalbar del 1986 grazie a un incontro fortunato con Claudio Cecchetto, diventa uno dei conduttori di punta di Radio Deejay fino al 1994. Il resto è storia.
Gerry Scotti
ha iniziato la sua carriera come conduttore radiofonico nel 1975 a Radio Hinterland Milano2. Nel 1979, conduce per tre stagioni a Radio Milano international e nel 1982 arriva a Radio Deejay, dopo essere stato chiamato da Claudio Cecchetto. Diventa uno dei dj di punta e a metà anni ‘80 diventa un volto noto a Deejay television. In anni più recenti, con l’acquisizione di R101 da parte del gruppo Mondadori, Gerry Scotti ha ripreso l’attività di conduzione.
Questi sono solo alcuni degli esempi più illustri, quello che è certo è che per tanti personaggi della musica e della televisione, la radio è stato un vero e proprio banco di prova.
Storia delle radio libere in Italia: il progetto “I love my radio”
Siamo arrivati nel 2020. Sono passati 45 anni e da quel lontano 1975, l’Italia non è stata più la stessa. Con l’arrivo della televisione e del web, la radio ha faticato a stare al passo del più seducente mezzo dal tubo catodico. Nonostante tutto, la radio è sempre riuscita nonostante tutto a restare al passo coi tempi. Dalle frequenze, è arrivata sul web e poi sui social, vivendo una seconda giovinezza.
In questo contesto nasce “I love my radio”, il primo grande evento cross mediale che permetterà agli ascoltatori e non solo, di votare la canzone preferita tra 45 canzoni che più di ogni altro hanno segnato un’epoca.
Nonostante tutto, per quanto il Coronavirus possa avere almeno in parte cambiato la nostra vita di tutti i giorni, la musica non si è fermata e troverà sempre un modo per rendere speciale le nostre giornate.