Intervista a Leonardo Angelucci: “Non fermiamoci ora”

di Fabio Mancini

Leonardo Angelucci è uno dei cantautori indipendenti più interessanti nel panorama italiano. Autore, compositore, chitarrista, tecnico del suono e produttore musicale, ci ha confidato come la sua musica sia sempre viva, anche in questo periodo difficile per tutta l’arte in generale.

Leonardo Angelucci – Ph Matteo Troiani

Ciao Leonardo, come stai? Parto subito con una domanda scomoda. Come è stato, per un artista attivo come te, fermarsi e non riuscire più a portare la propria musica in giro per tanti palchi e festival?

“Molto difficile indubbiamente. Io vivevo soprattutto di live, con cadenza quasi settimanale, quindi puoi immaginare il trauma sia a livello emotivo che lavorativo. Però diciamo che per indole non sono una persona che si abbatte facilmente, quindi mi sono subito reinventato convertendo il mio lavoro e la passione in versione smart.”

In questo periodo di “fermo”, hai rilasciato alcuni singoli nati da una nuova collaborazione musicale con il produttore Giorgio Maria Condemi. Uno di questi singoli è “Budapest” raccontaci un po’ dove nasce il brano e cosa vuole esprimere.

“Budapest è nata verso la fine del 2019 mentre ero al CET, la scuola autori di Mogol, ed è nata proprio da un sentimento reale che ho vissuto, come la maggior parte delle mie canzoni, ovvero quello della lontananza dalla persona amata. Ovviamente poi mi sono divertito a condire il testo con riferimenti ai viaggi e alle esperienze vissute insieme fino ad arrivare a quelle ancora da vivere, in un finale che è un po’ una dichiarazione di intenti.”

Il videoclip ufficiale di “Budapest” è una produzione video Free Club Factory

Hai sempre vissuto la musica a 360 gradi andando oltre l’essere cantautore, scoprendo anche il mondo della produzione musicale, regia e tutto ciò che gira intorno al questo meraviglioso mondo. Qual è l’aspetto che ti piace di più, e quello che invece ti rimane più difficile.

“Sicuramente l’aspetto musicale è quello che mi viene più naturale e forse mi riesce meglio di tutti gli altri, proprio perché da sempre è il mio mestiere e la mia passione. Quindi la chitarra prima di tutto, poi la scrittura e la produzione. Ma io sono un eclettico iperattivo da sempre innamorato di arte e cultura a tutto tondo, quindi come hai bene specificato nella domanda, mi cimento con buoni risultati anche in altri ambiti come la produzione video, la scrittura, le arti visive (fotografia, grafica, pittura e illustrazione), l’organizzazione di eventi e la comunicazione. Lascio comunque agli altri il giudizio sui diversi Leonardo in questione.”

Ormai sono trascorsi quasi tre anni dall’uscita del tuo ultimo disco “Questo frastuono immenso”. Stai lavorando a nuovi progetti?

“Certamente. Durante il 2020 ho prodotto quattro singoli allo Strastudio di Centocelle, con la produzione artistica di Giorgio Maria Condemi e Gianni Istroni, due dei quali sono già usciti (Henné e Budapest), e due invece sono in uscita per il 2021. Poi sto lavorando già alla scrittura del mio secondo album, attendendo ovviamente albe migliori per pensare alla produzione e all’uscita, con tutto quello che ne consegue, tra cui un tour promozionale in Italia e all’Estero che ho vinto a fine 2019 con il premio Nuovo Imaie alla biennale di MArteLive.”

“Questo frastuono immenso” l’ultimo Album di Leonardo Angelucci, uscito per Alka Record Label con la produzione di Manuele Fusaroli

In questo difficile periodo storico, qual è secondo te la strategia migliore per poter pubblicare e promuovere la musica per un artista indipendente? Quali strumenti si potrebbero utilizzare?

“Lavorare smart, come dicevo all’inizio. Cercare di attrezzarsi il più possibile con le infinite chance che offre il mondo digitale e l’home recording, investendo una cifra irrisoria. Poi una volta fermate delle buone idee di scrittura con dei provini decenti, presentarsi agli addetti ai lavori. Il segreto sta nell’affidarsi ad un team competente e seriamente interessato al progetto, senza rimanere preda dei tanti sciacalli che vogliono solo spillare soldi agli artisti emergenti ed indipendenti. Per questo ho fondato Free Club Factory , un laboratorio creativo di idee, composto da una rete di amici, colleghi e conoscenti professionisti del loro settore, in grado di aiutare gli artisti a coltivare il loro progetto dalla scrittura alla produzione fino poi alla promozione, senza spendere una fortuna.”

Come ultima domanda, vorrei lasciarti carta bianca. Un tuo messaggio all’intero mondo della musica indipendente ed artistico. Grazie!

“Non posso esimermi dall’augurare a tutti immensa fortuna per i loro progetti creativi, nella speranza di incontrarci presto di nuovo sotto e sopra i palchi, nelle radio, agli eventi, in strada, potendo ripensare a questo periodo cupo solamente come un brutto ricordo. Allo stesso tempo dico a tutti di non fermarsi e di continuare a fare musica e a fare arte, perché è quanto di più prezioso possediamo, ma allo stesso tempo è qualcosa di incredibilmente facile da condividere per emozionare. E in questo momento abbiamo bisogno di sentirci parte di una sola emozione.”

Ringraziamo ancora di cuore Leonardo Angelucci, augurandoci che la sua musica e quella di tanti altri artisti non si fermi mai!

Ghisle ” Hit Me!”

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Il bolognese Massimo Ghisellini, in arte Ghisle, è un musicista ed autore che ha calcato per molti anni i palchi dei più prestigiosi locali, in veste di chitarrista in svariate cover band. 

Attualmente sta intraprendendo una nuova avventura personale, che lo porta ad incidere canzoni in inglese, dal marcato stile anni ’80.

Ghisle scrive musica e testi dei suoi brani, curandone anche l’arrangiamento ed interpretandoli come cantante e chitarrista.

Fino ad ora, con l’etichetta PMS Studio, l’artista ha pubblicato 5 singoli (Dance, My Love, Celebrate all Night, In Every Place e Hit Me!), che faranno parte di un album in uscita entro fine anno.

È da poco fuori ‘Hit Me!’, il suo ultimo singolo.

Il testo affronta, in chiave molto leggera ed ironica, la tematica del litigio di una coppia, evidenziandone la frustrazione che porta a prendere strade diverse.

Caratterizzata da sonorità tipicamente anni ’80/’90, la base decisamente ritmica vede come protagonisti chitarre funky, suoni elettronici, un basso galoppante (suonato magistralmente dall’amico Picchio G Bagnoli), assoli di moog e chitarra (suonati dallo stesso Ghisle), una sezione fiati (sax Daniele Fabbri e tromba Franco Venturi) e cori di altre due artiste della scuderia PMS (Giorgia Aquini, in arte Jei En e Belen Avila). 

La voce, in linea con lo stile del brano, risulta al tempo stesso delicata ed energica.

La copertina mostra un’immagine di Ghisle e Jessica Carnevali che, schiena contro schiena ed avvolti in abiti di pelle nera, lasciano trasparire, anche nelle pose, emozioni contrastanti: un’espressione più seria e distaccata per lui ed una sorridente e sbarazzina per lei.

Il videoclip, per la regia di Milo Barbieri, vede come protagonisti lo stesso Ghisle e la bravissima e bellissima Jessica.

Lo stile anni ’80 viene ripreso anche dalle immagini e dagli effetti del montaggio, chiaramente rivisitati in una chiave fresca ed attuale. Nel video, che mantiene la contrapposizione già anticipata dalla copertina, si vede la coppia in disco con l’uomo impegnato in movenze contenute e la donna coinvolta in un ballo decisamente più sfrenato. I due protagonisti, che danzano da soli, di tanto in tanto si incontrano e puntualmente discutono. 

Nella parte finale, Ghisle imbraccia la sua chitarra, per lanciarsi in un assolo. Il lungo outro, sulle note del quale si continua a ballare, chiude poi il brano.

‘Hit Me!’ di Ghisle è un brano che ci fa fare un tuffo nel passato, avendo però la capacità di risultare fresco, leggero ed incalzante. Una vera e propria alternanza di strumenti e voci, in un crescendo di emozioni!

Stefania Castino

An Early Bird racconta il suo nuovo singolo “Fishes In The Ocean”

Intervista a cura di Michela Moramarco

An Early Bird è un artista italiano che lo scorso febbraio ha pubblicato un nuovo singolo dal titolo “Fishes In The Ocean”. Il brano ha sonorità indie folk, è caratterizzato da una voce calda e narrativa e ed è a tratti onirico. Il brano racconta di come ci si sente ad essere inconsapevolmente intrappolati nella quotidianità. An Early Bird, nome d’arte di Stefano De Stefano, afferma a tal proposito che l’immagine dei pesci nell’oceano è una metafora della solitudine in un mare di opportunità. Il singolo è il primo estratto da un album di cui ci sono le basi per avere buone aspettative.

Ne abbiamo parlato con l’artista.

Il brano “Fishes in the Ocean” è molto sognante, onirico. Quest’intenzione è stata chiara sin dall’inizio della fase compositiva?

Devo dire che questo aspetto è venuto dopo. Addirittura doveva essere un pezzo un po’ più minimale e poi andando avanti si è evoluto nella forma che si può ascoltare, con i vari sintetizzatori e quindi i riverberi.

Il brano sembra essere adatto ad accompagnare una serie di immagini. Se fosse la colonna sonora di un film, di un cortometraggio, quale sarebbe la trama?

Fondamentalmente la trama sarebbe quella del videoclip musicale. L’immagine dei pesci nell’oceano è una metafora di chi si trova a combattere con l’entità del tempo. Quindi immagino una scena in cui c’è qualcuno che va contro le regole convenzionali, fregandosene di ciò che c’è intorno. Tutto questo verso l’affermazione della propria individualità assecondando la propria voglia di sentirsi libero. Per esempio, l’idea del videoclip consiste nel riprendere persone tendenzialmente anziane che fanno cose inusuali per la loro età, ma per cui si sentono vivi. L’idea quindi è quella che si possa cercare smepre qualcosa di nuovo nella propria vita.

An Early Bird | Fishes In The Ocean (Official Video) – YouTube

Da dove deriva la scelta di cantare in inglese?

La scrittura in italiano non mi convinceva, sin dai tempi in cui ho iniziato. Del resto, non c’è di che stupirsi, ero nella fase dell’ascolto degli Oasis. Ed è su quei testi che mi sono formato e in seguito ho iniziato a studiare e ad affinare la conoscenza della lingua. Erano i tempi in cui si ascoltavano CD e si seguivano i testi sul libretto (ride, ndr). Era una cosa interessante. Quindi alla fine la scelta di cantare in inglese è stata alquanto naturale.  Secondo me l’importante è fare qualcosa che ti fa sentire a posto con la coscienza, che non faccia pensare che ti sei piegato a qualcosa. Vale la pena cambiare e snaturarsi? Secondo me no.

Ti senti legato ad un genere musicale in particolare?

Sono legato al blues, ma non ho un genere preferito insomma. Sicuramente mi piace mescolare il folk con qualcosa di più elettronico. Anche se poi ovviamente è bello ascoltare tanti generi diversi.

Grazie.

Leggi anche l’intervista alla band Zeromantra.

MITRA pubblica il nuovo brano “Perché ne ho voglia”

Uscito il nuovo video di MITRA dal titolo provocatorio Perché ne ho voglia su Youtube e sulle piattaforme di streaming e pubblicato come di consuetudine per la KML Records l’etichetta discografica di Doc Ketamer.
Spero di trasmettere alla mia generazione e non, quello che é un messaggio di speranza. Ci si può rialzare e sconfiggere i propri demoni. Bastano consapevolezza e speranza.
«Perché ne ho voglia l’ho scritto un anno fa – spiega Mitra in un periodo buio, dove mi sembrava di aver perso tutto. Eppure sono una persona che ha sempre avuto speranza nella vita, ma averla nella musica ai tempi d’oggi, spaventa». Poi l’incontro con il suo producer Doc Ketamer che riaccese in lei questo lumicino. Mitra si è impegnata a fondo per scrivere e trasmettere con la sua musica le emozioni vissute ad un pubblico ormai abituato a finzione e scenari di vita inesistenti. «Tutto questo spaventa molto, ma la paura è anche sintomo di coraggio – continua Mitra – E con coraggio e determinazione mi mostro in questo brano con animo crudo e nudo. L’urlo di uno sclero cantato a Dio. L’autodistruggersi con consapevolezza per quanta amarezza si possa provare. Ma con la speranza che nulla è perduto»
Maria Teresa Mastrodonato, in arte Mitra, è cresciuta a Bitonto, piccola città in provincia di Bari. Ha iniziato a scrivere sin da quando aveva 15 anni, non come rapper ma come scrittrice… Scriveva lettere lunghe chilometri a sua mamma, ai suoi amici, professori e dirigenti scolastici… Poi, poco più che sedicenne, ha conosciuto una piccola donna, con cui ancora condivide la sua vita… E a lei dedicò la sua prima traccia, registrata in cameretta su un beat scaricato da youtube e un microfono di soli 10 euro del negozietto cinese dietro casa. Maria Teresa non ha mai pubblicato nulla fino a 23 anni, ma ha scritto di ogni sua avventura o sensazione con passione e verità. Ogni strofa, ogni rima è basata sull’empatia verso la vita e la connessione della coscienza. Ogni testo è scritto per mantenere in vita un’anima che è sempre più difficile preservare nella società attuale. Ha sempre viaggiato. La curiosità di “andare oltre le mura” non le ha mai concesso una dimora fissa. Quindi, per sua scelta, ha rallentato l’uscita di Mitra. Chi la conosce sa che non esiste pseudonimo migliore per rappresentare quella che è la sua persona. Ha dedicato al mondo arcaico il suo nome, perché la scrittura è una delle armi più antiche: trasmettere la verità in ogni sua canzone, questo è uno dei suoi obbiettivi. Dopo che Doc Ketamer è diventato il suo producer ha iniziato a studiare e prepararsi. Doc le ha insegnato la calma, la respirazione, la pazienza e la perfezione, ha sfruttato le sue capacita senza aver cambiato nulla in lei e Mitra è davvero orgogliosa di quello che è riuscita a fare. Il video di Perché ne ho voglia è stato girato da Domenico Bore Iannucci: «Ci sono flash di me che scrivo a Wester Park, – continua ancora Mitra dove appunto scrissi questa traccia, i tranquillanti fra le mani che, anche se legali, sono un male per la nostra generazione. Non è un tranquillante che placherà la tua rabbia. No. L’addormenta soltanto e quando si risveglia ha più fame di prima. Bisogna affrontare la rabbia con il sorriso! Ricordarci che come esiste il male esiste il bene. Che come ci hanno fatto male, ci hanno fatto bene e bisogna far prevalere il bene ricevuto. Faccia a faccia con lo specchio perché è li, quando siamo in bagno soli difronte lo specchio che togliamo la maschera e ci guardiamo dritto negli occhi» Mitra sta lavorando con Doc Ketamer al suo primo EP e nell’attesa di poterlo ascoltare guardiamo il video di Perché ne ho voglia su Youtube e anche il precedente singolo Squotto il mondo che ha avuto ottimi riscontri di critica e pubblico. Perché ne ho voglia è disponibile anche sui digital stores e piattaforme di streaming di tutto il mondo. Credits
  • Video diretto da Domenico (Bore) Iannucci
  • all lyrics written by Mitra
  • all music written and arranged by Doc Ketamer
  • Keyboards performed by Ernesto Randone
  • Bass performed by Mario Lo Castro
  • Mix and mastered by Still Sound
  • Recorded at HAL5
  • Produced by KML
  • Executive producer Alessio D’Urso
Contatti e Streaming

Tra il buio e la luce

I misteri dell’esistenza nelle opere di Lino Di Vinci

Di Chiara Barbagallo

Le forme circolari hanno sempre avuto un forte legame con la spiritualità e con quello che viene appunto definito il ‘cerchio della vita’. Questo fenomeno si spiega con la continua alternanza tra il giorno e la notte, con il perenne succedersi delle stagioni e con l’eterno flusso di nascita, crescita e morte caratteristico di tutti gli esseri viventi.

Lino Di Vinci, artista con all’attivo mostre in vari Paesi del mondo, applica alla propria arte questa ciclicità tipica dell’esistenza umana. Egli, infatti, durante la sua pluridecennale carriera, ha alternato e alterna tuttora periodi in cui si dedica ad opere che lui stesso definisce ‘notturne‘ a quelli in cui realizza lavori più gioiosi e solari. Questa sua scelta, però, non è una semplice ripetizione di stilemi, anzi, è un modo per rinnovarsi in una crescita continua sempre memore dei propri passi.

Il cerchio è solo uno dei vari simboli presenti nelle opere di Lino Di Vinci. Un altro è l’occhio che in realtà comprende in sé ben due forme circolari: l’iride e la pupilla.
Gli occhi, nelle sue opere, sono sovrabbondanti, fluttuanti e aperti nell’atto di osservare lo spettatore e di stabilire un contatto con esso. Alludono alla conoscenza e chiaroveggenza delle figure atemporali che abitano i suoi dipinti, ad una ricerca di verità sulla nostra origine prima e sul senso della vita.

Attraverso la sua arte, Di Vinci vuole porre interrogativi e al contempo stimolare gli spettatori stessi a porsi domande esistenziali. Non suggerisce però risposte in modo da lasciare un senso di mistero.
Forse è anche per questo motivo che i suoi dipinti sono ambientati in spazi indefiniti, lontani dalla realtà quotidiana, adimensionali e ‘sospesi’, quasi onirici, come gli abissi marini o dell’inconscio e lo spazio cosmico. Sono i titoli stessi ad evocare questi luoghi: Viaggio siderale, Persi nell’infinito, Lontano nel tempo, In nessun luogo, Altrove
All’opposto, alcune opere dal taglio circolare sembrano invece ingrandimenti al microscopio.

In ogni caso, si tratta di luoghi o spazi non visibili ad occhio nudo e probabilmente è anche a questo che serve l’inserimento di numerosi organi di senso della vista: a ricordarci che l’occhio in grado di vedere tutto è solo quello della mente e dello spirito.

Oltre ad esplorare ambienti diversi, l’artista sperimenta varie tecniche e supporti, passando dalla tela alla carta, dal metallo al plexiglass.
Ultimamente ha addirittura accostato i suoi dipinti a luci creando le Light boxes, vere e proprie strutture tridimensionali in cui la luce retroillumina le opere che Di Vinci ha realizzato su plexiglass. In tal modo, le sagome polimorfe di quegli esseri che, dal titolo della serie, sono definiti ‘invasori’’ sembrano più vive e quindi più perturbanti.

Il fascino dell’arcano è una costante nei suoi lavori, anche in quelli che trasmettono più serenità; in particolare nella serie Floating colors o negli eterei ed imperscrutabili volti primaverili di alcune opere.

Lo scopo dell’artista è trasporre le proprie emozioni in un processo quasi catartico senza però renderle mai palesi. Egli mostra e contemporaneamente nasconde le sensazioni, i messaggi, affinché tutti gli spettatori, pur con le loro complesse e sfaccettate diversità, possano immedesimarsi e rivedere una parte di sé nella sua arte.

Il linguaggio utilizzato da Di Vinci è, citando il titolo di una sua opera, un vero e proprio ‘codice segreto‘; è però anche un codice universale perché ogni essere umano ha la capacità di decifrarlo.

Link utili: sito dell’artista https://www.linodivinci.com/
profilo Instagram dell’artista https://www.instagram.com/linodivinci/

Photo courtesy dell’artista

Fogli d’ombra: il fascino dello spoken word

Fogli d’ombra è il progetto d’esordio di Anna Utopia Giordano

La musica ha l’enorme pregio di essere polivalente: può fare da sottofondo alla realt. esserne protagonista e dominarla o accompagnare le altre arti.
Anna Utopia Giordano ha scelto di sfruttarne la malleabilità unendo la musica ai propri testi poetici. Fogli d’ombra è un progetto composto da tre frammenti musicali parlati, eterei e surreali, in collaborazione con altrettanti musicisti.

Un Ep onirico tra musica e parole

Giuseppe Fiori ha collaborato in 14 e 15, Leonardo Barilaro ha costruito la struttura sonora di Pattern, Un Artista Minimalista in Entelechia (o sul senso del dovere).
I tre brani hanno in comune la complessità, lo sperimentalismo e la tensione verso l’avanguardia.
La trama dei frammenti è nebbiosa, ma lo scopo di Fogli d’ombra non sembra essere la trasmissione di un racconto, di una narrazione definita. In accordo con la natura poetica dei testi della Giordano, l’ascoltatore sembra essere invitato a seguire il flusso di pensieri ed emotivo proposto dai tre brani/testi.
Fogli d’ombra appare essere un progetto improntato all’immaginazione e all’associazione di pensieri e figure evocate dalle sue parole. Per farlo, l’autrice si appoggia ad un’intelaiatura che unisce poesia e sceneggiatura mescolando figure retoriche e rappresentazioni di situazioni. Su questo telaio quasi teatrale si inseriscono le frasi e i brandelli di poesia, che accostano lirismo e riferimenti ai classici filosofici e letterari, ma anche spunti di attualità e rimandi scientifici.
L’esordio di Anna Utopia Giordano è un trittico a tinte fosche, sensuale e misterioso, ma c’è anche una certa perentorietà nel modo in cui le parole, stentoree, si stagliano sul tappeto sonoro tessuto dai tre musicisti che accompagnano la poetessa/attrice.
Emergono ricordi, angosce, paure, forse addirittura reminescenze biografiche. Questo Ep è un bellissimo mistero, da ascoltare se si è in cerca di domande senza risposte, riguardo il mondo e forse anche riguardo sé stessi.



In viaggio con Narratore Urbano – “POST”, Volume 1. [Intervista]

“Si chiama Alekos Zonca il giovanissimo cantautore di Torino conosciuto da tutti come Narratore Urbano. Ed è un genio assoluto, oltre che un grandissimo talento.”

Così vi avevamo presentato Narratore Urbano in un nostro vecchio articolo, pubblicato in occasione dell’uscita del suo singolo “25MAG”.

Narratore Urbano

Ora Narratore Urbano è tornato con un album bomba, figlio del periodo assurdo che da un anno a questa parte tutti stiamo vivendo. Si intitola “POST” ed è un album pubblicato in capitoli.

Il Volume 1 è stato rilasciato lo scorso 19 marzo e contiene al suo interno tre singoli: Zenzero, Articolo 1 (feat. Protto) e 25MAG.

Godetevi la nostra intervista a Narratore Urbano: un viaggio fra Torino, la musica e la pandemia.

Ciao Ale, forse non è il periodo giusto per fare questa domanda ma io voglio rischiare: come stai? Come trascorri le tue giornate in un’ennesima zona rossa?

Ciao a voi di Indielife. Nessun rischio. Diciamo che è un periodo relativamente tranquillo, sto imparando a sopravvivere nella mia solitudine, accontentandomi di sentire i miei amici al telefono, e stando in compagnia del mio gatto Marsala e della mia musica, contrariamente a quanto accaduto durante il primo Lockdown di un anno fa. Avere un progetto a lungo termine aiuta parecchio a non pensare al resto, a ciò che ci circonda, e questo forse è un bene… anche se ho un po’ paura se penso all’idea di rassegnarmi. 

Da cantautore emergente come stai vivendo questo periodo di blocco totale? C’è ancora speranza per la musica e la cultura in Italia, “la Repubblica oligarchica fondata sulla disoccupazione”?

Purtroppo tutto il settore musicale sta soffrendo una crisi senza precedenti soprattutto a livello underground, ovvero il luogo dove nascono i progetti che saranno il domani della musica. Non nascondiamocelo: la cultura e l’arte sono sempre stati all’ultimo posto nelle priorità di tutti i governi che si sono avvicendati. Forse per mancanza di fondi, più probabilmente perché un popolo ignorante è decisamente più facile da governare. 

La questione pandemica è stata solo un catalizzatore per un processo già avviato da tempo in tutto il settore dello spettacolo. Ho sentito italiani confondere le discoteche con i club live e i musicisti con i milionari. Non è proprio così. Le cose stanno diversamente e prima ci sarà un’inversione di rotta, prima potremo pensare a debellare il virus dell’ignoranza. E di conseguenza anche quello meno metaforico che ha ormai invaso la nostra quotidianità.

Ci racconti qualcosa in più su di te e sul tuo percorso artistico?

Ho iniziato a suonare a 16 anni, in una delle band della scuola dove andavo a Pinerolo: facevamo cover degli Oasis e degli U2. Poi, una volta avviato il mio percorso universitario, ho cominciato a frequentare Torino e la sua scena, dapprima come chitarrista in due gruppi, poi come cantautore solista.

Narratore Urbano

Il nome Narratore Urbano nasce dopo un concerto, sempre a Pinerolo, con i miei amici e colleghi The Lansbury. Luigi, il loro batterista, si è riferito ai miei brani come a delle vere e proprie “narrazioni urbane”. L’espressione mi piacque e decisi di farla diventare una dichiarazione di intenti, un nome da usare per potermi definire meglio davanti al pubblico. A luglio del 2019 ho iniziato a collaborare con Fabrizio Pan (frontman dei Melody Fall e produttore di Pan Music Production) registrando i miei primi singoli , ovvero “1939” e “Zucchero Filato“.

A Marzo 2020 ho rilasciato il mio primo EP, Fine delle Trasmissioni. Purtroppo il release party, previsto all’OFF Topic per il 5 Marzo è saltato a causa del primo grande DPCM. Dopo un periodo di crisi ho ripreso il progetto a Settembre con alcuni live (Bunker per Sofà so Good, Blah Blah, Diavolo Rosso ad Asti e Joshua Blues Club a Como). Attualmente sto lavorando al mio primo album: POST

Il 19 marzo è uscito Il Capitolo 1 di “Post”, un album sviluppato appunto in capitoli pubblicati con scadenze diverse. Ci racconti qualcosa di questo tuo lavoro?

POST è un album a capitoli. Nasce dall’esigenza di raccontare il cambiamento, le contraddizioni e le difficoltà di questa nuova era che ci ha colto del tutto impreparati. Sarà un viaggio sia attraverso gli eventi di questi anni dimenticabili, sia attraverso la giungla di emozioni e sentimenti spesso difficili da esternare in altro modo. Il tutto lungo un percorso interiore di consapevolezza. 

Si parte dal Vol. 1 che racconterà il trauma. “Zenzero“, traccia di apertura, descrive la discesa dell’Arte a Torino, che come una ragazza vaga attraverso le strade della città consapevole di quanto questa scena musicale e questa città abbia da offrire. Quest’entusiasmo viene però stroncato dal primo Lockdown, raccontato attraverso un delirio/sfogo in “Articolo 1“. La domanda che ci siamo tutti posti almeno una volta è “Ne siamo usciti davvero migliori?”. Questa ha trovato la sua risposta più efficace a pochi giorni dalla fine della prima quarantena, per l’esattezza il 25 maggio 2020, con l’assassinio di George Floyd, evento che da il nome a “25MAG“. 

Posso già anticipare che il secondo capitolo riprenderà la riflessione a partire dall’estate del 2020, con il delirio delle riaperture e dalle contraddizioni, sviluppate nel brano “Gagarin”, per iniziare una nuova riflessione interiore: Ha senso cercare le risposte nel nostro passato? Magari nella nostra infanzia o nella nostra adolescenza? Queste domande troveranno risposte nei brani “Video8 (Autunno 2003)” e “233 Gradi Centigradi” che vedrà la collaborazione di un’artista e amica che stimo tantissimo, Rossana De Pace

Mi sento di aggiungere che tutto questo non sarà solo un lavoro musicale. Ad esempio con Carlotta Anguilano, fotografa, stiamo sviluppando una storyline parallela che racconta attraverso Instagram i riferimenti culturali di POST. Con Chelo ci stiamo concentrando sulle copertine, mentre con il videomaker Edoardo Giuliani e l’attrice/modella Gaia Morellato stiamo creando un lungometraggio che sarà anch’esso parte del progetto POST

Quando finalmente tutto sarà finito dove ti piacerebbe poter suonare? O con chi ti piacerebbe collaborare? 

Oltre alla collaborazione con Rossana e con Protto (in “Articolo 1“) sono previsti altri due featuring all’interno dei capitoli 3 e 4 (ma non voglio spoilerare ancora nulla). 

Mi piacerebbe poter ripartire presentando POST proprio nel luogo dove ho lasciato tutto in sospeso, ovvero l’OFF Topic

Ho tantissime collaborazioni tra i miei sogni, sicuramente con artisti della scena come gli Igloo, i The Lansbury, Anna Castiglia, Irene Buselli, Francamente e perché no gli Atlante.

Se dovessi sognare più in grande (ma qui si parla di sogni nel cassetto difficilmente realizzabili nell’immediato) ovviamente mi piacerebbe un giorno collaborare con Vasco Brondi, Murubutu, Rancore e gli Eugenio in Via di Gioia. Anche se è troppo presto per parlarne, che cos’è un artista se non un gran sognatore che non si è ancora arreso? 

Grazie mille!

Ghemon. E vissero feriti e contenti. Un realistico lieto fine.

Ghemon torna con il botto.
Dopo aver partecipato all’ultimo Festival di Sanremo con l’inedito Momento Perfetto, il cantante pubblica il suo ultimo disco a solo un anno di distanza dal precedente, E vissero feriti e contenti

Momento Perfetto (Official video) – Ghemon

Ghemon crea un album optando su scelte ragionate e sulla consapevolezza. 

Spieghiamoci meglio

Non ci sono grandi spaccature rispetto al passato. Questo disco è coerente con lo stile musicale del cantante e con il pop soul/pop funk italiano a cui è arrivato nel tempo e di cui è fiero portavoce insieme ad altri pochi, riconoscibili, artisti.
Tuttavia, la produzione ha riconosciuto i trend più elettronici tipici dell’ultimo anno e li ha consapevolmente inseriti all’interno del “progetto Ghemon”. 

A differenza di molti altri album usciti ultimamente, queste nuove ricerche di suono non vengono mai percepite come esagerate rispetto ad un percorso intrapreso. Ogni singola traccia, per quanto possa essere diversa dalla precedente, segue un filo conduttore che fa percepire una certa omogeneità.

Tutte le anime di Ghemon

«Ho spaziato tra tanti generi diversi, cercando di costituire l’elemento di unione. Ho potuto esprimermi non solo come cantante e autore, ma anche nella produzione e supervisione artistica. Al mio settimo disco sono finalmente io, al completo» spiega il cantante in diverse interviste.

Ci sono tanti generi, tantissime sonorità, strumenti musicali, beat e sfumature diverse, unite mirabilmente in un’identità unica e dinamica. Perché, benché si tenda sempre a pensare che sia qualcosa di fisso, non è così. 

Siamo tutti in costante evoluzione e serve tutto per arrivare a sentirci davvero noi. Philip Roth diceva: «Noi siamo, dopotutto, la somma delle nostre esperienze» ed è proprio quello che ci mostra Ghemon in questo disco.

Track 1

L’album si apre con una voce che, come in una di quelle musicassette che ci piacevano un sacco da bambini e ci raccontavano le favole, inizia dalla fine di questa storia.  

Il suo era stato un cammino lungo e pieno di sorprese, un viaggio fatto di magnifiche rivelazioni ma anche lastricato di ostacoli. Finalmente però era arrivato alla sua personale cima. 
Si mise con le gambe incrociate e le mani sulle ginocchia per ammirare dall’alto l’intera città che si dispiegava davanti ai suoi occhi ascoltando con attenzione la pace di quel momento di solitudine scoprì però di essere in compagnia. 
Tutta la gente che aveva incontrato nella vita, tutte le forme che aveva assunto e le persone che era stato, i mostri che aveva sconfitto e gli amori che lo avevano protetto, erano lì accanto a lui. 
E da lì in poi vissero feriti e contenti.

Feriti e contenti

Nelle quattordici tracce successive ci facciamo trasportare dalla musica e dalle parole all’interno di diverse situazioni, come se Ghemon ci stesse raccontando una storia.
Ci sono brani che hanno un legame più forte con l’hip hop, come Piccoli Brividi, in cui canta con tutta la consapevolezza di chi ha sofferto ma che ora ha voltato pagina, oppure come Tromp L’Oeil, per chi inganna gli occhi e, a volte, anche il cuore.

Troviamo poi uno splendido tappeto di fiati e chitarre che portano a soluzioni più strettamente funky, stile Non Posso Salvarti, o ad altre più pop, come Nel Mio Elemento o come Momento perfetto

Pezzi sulla stessa lunghezza d’onda sulla ritmica, in cui piano e voce sono i protagonisti sono Tanto per non cambiare, una storia d’amore problematica e Puoi fidarti di me

Tuttavia, Ghemon spazia tra i generi e troviamo brani reggae come Difficile, ed altri che sono un mix di suoni elettronici come La Tigre, o Infinito, in tutte le sue contraddizioni, in cui «Tu mi fai piangere e ridere fino a non respirare. Tu che per me sei infinito all’infinito».

Titoli di coda

Mi sono attaccato alle mie insicurezze perché il loro volto mi era famigliare, ma è arrivato il tempo di lasciare andare.
È arrivato il tempo.

Comunque la vogliamo mettere, il vero protagonista del disco di Ghemon è Giovanni stesso. Un se stesso non autocelebrativo, ma che ci racconta tutto ciò che vede intorno a lui.
Un Ghemon che sa riconoscere i suoi meriti, perché a volte staccarci da ciò che ci fa male ci terrorizza e può sembrarci una vera e propria impresa.

Talvolta ci troviamo ad essere così impauriti dal lasciare andare da ritrovarci immobili a soffrire perché è l’unica cosa che pensiamo di saper fare.
Beh, non lo è, e Ghemon ce lo dice forte e chiaro.

È un invito a trovare la forza e il coraggio di fare il primo passo.
Perché alla fine del cammino – un cammino doloroso, difficile e pieno di pericoli; un cammino sorprendente, rivelatorio – la vista è splendida. Tutte le cose che ti appartengono, tutto ciò che ti ha cambiato, rimane sempre con te.

E forse il vero lieto fine non è quello in cui non si hanno ferite, ma è quello in cui si impara a sorridere anche in mezzo al dolore.

Soffia il vento da “Nordest”: qualche domanda a Blumosso

Blumosso è uno dei nomi che seguiamo sempre con maggior piacere, noi di Indielife.

Idee chiare, poetica definita da una consapevolezza della tradizione che sa farsi futuro, voce adatta a timbrare l’ascolto fin dai primi trenta secondi di “Nordest”, il singolo di ritorno del musicista pugliese e primo passo di un trittico che, nei prossimi mesi, darà corpo ad un nuovo, attesissimo EP.

Abbiamo fatto qualche chiacchiera con Simone, per farci un’idea di quale sia il suo punto di vista su diverse cose.

Eccoci Blumosso e che piacere averti qui, su Indielife. Senti, so che non sopporti più di buon grado né la parola “emergente”, né la parola “cantautore”. Se il motivo del primo rifiuto lo capisco (con l’esperienza che hai sulle spalle, inevitabile che certe paroline oggi infastidiscano: ma poi, “emergere” rispetto a cosa?), sul secondo vorrei capire meglio. Ci spieghi, nel dubbio, il perché di entrambe le reazioni allergiche che le due paroline ti scatenano?

Ciao! Mi preme precisare che la mia presa di posizione di fronte a questi due termini non è dovuta al volersi autoproclamare migliore di altri o robe del genere. Semplicemente, nel primo caso, indipendentemente da quello che ho fatto, credo di avere un età (33 anni) in cui il termine “emergente” attribuito alla mia persona sia inappropriato. Emergenti sono gli artisti che si affacciano al mondo della musica con i primi lavori. Io sono più un “cantautore sfigato”… ops… ho detto cantautore… scherzo; in questo periodo vedo l’uso di questa parola ovunque, anche per chi fa trap, ed io, da artista attempato quale sono, nostalgico della vecchia scuola cantautorale quale sono, ne rimango un po’ turbato. Sempre ben predisposto però ai cambiamenti dovuti ai tempi, mi avvalgo in questo caso della facoltà di preferire, per il momento, altri appellativi (come ad esempio musicista), e non “cantautore”. 

La scrittura, tu, l’hai declinata in diverse forme e modalità. Dalla canzone alla poesia, fino ad arrivare al romanzo: ma quale rimane il tuo medium preferito? E soprattutto, quando capisci di aver scritto qualcosa che vale la pena consegnare ai posteri? 

Non lo capisco, e forse è sempre stato questo il mio problema! Scherzo anche qui (ultimamente mi sento simpatico); credo che il punto di partenza sia guardare negli occhi te stesso, quando sei solo, a casa, e dire: “Ti piace quello che hai fatto? Ti soddisfa?”. Questa è la base di tutto. 

Quali sono, secondo Blumosso, gli ingredienti essenziali per fare musica nel modo giusto, oggi. 

Non esiste, secondo me, un modo giusto di fare musica. Esistono le note musicali e “il tuo modo” di sentire quelle note. 

Con “Nordest”, in qualche modo, segni uno stacco dal passato. Non esiste percorso che inizi a metà strada, e anche in questo brano si avverte tutto il carico poetico di un’estetica precisa, che non perde la sua vena profondamente nostalgica. E’ saudade, quella che si respira nella tua musica? E cosa vuol dire per te questa parola, da amante del Portogallo quale sei? Oppure siamo noi, che dobbiamo ormai trovare a forza la malinconia in ogni cosa? 

Credo comunque che in “Nordest” lo stacco si noti più a livello produttivo. Dai prossimi brani in poi si noterà di più lo stacco, anche a livello compositivo. Perché paura mi fa non cambiare mai. Di saudade credo di aver parlato ampiamente in passato. Certo se uno d’indole è fatto in un certo modo, poi credo sia normale che certe peculiarità emergano se non sempre, spesso. Parliamoci chiaro: dobbiamo trovare malinconia in ogni cosa perché siamo una, due… tre generazioni d’insoddisfatti. Chi più chi meno. E poi, c’è da dire anche che siamo cresciuti con ‘sta cosa della poetizzazione della malinconia. Ma la vera malinconia, quella reale, disagiante, spossante; quella che non sta nelle canzoni o nei film o nei libri. Quella che di poetico non ha proprio nulla. 

Un terno di brani che, nel giro dei prossimi mesi, porterà alla pubblicazione di un nuovo EP. Per i tempi di oggi, sembri andare di fretta! Scelta di resistenza, in direzione ostinata e contraria, oppure intuizione di marketing? O magari, entrambe le cose…

Scelta dovuta al fatto che ho delle cose da dire e le voglio dire. Serve a me stesso, per stare a posto con me stesso. Per stare in equilibrio. E per trovare qualcosa di buono in questo modo di portare avanti le nostre esistenze (pre e post COVID) che mi piace sempre meno. La musica è la mia evasione. 

Oggi sembra che gli artisti abbiano sempre più paura a pubblicare album: tutti procedono per singoli, cercando di combattere contro la paura di essere irrimediabilmente dimenticati. Come mai, secondo te? E questo sovraffollamento del mercato italiano è segno di ricchezza o di grande confusione?

È segno di questa morbosa “voglia di apparire”, di cercare protagonismo. Ed è anche colpa di chi ha abbassato il livello. Viviamo un tempo mediocre, fatto di società mediocri, e la musica è lo specchio della società: mediocre. 

Tutti procedono per singoli perché il sistema prevede quello. Non è che si ha paura degli album, è che non si ha la voglia (perché non serve). 

Io personalmente, faccio l’album, ma perché piace a me. Mi piace proprio: pensare le copertine, la tracklist. È un processo per me stimolante. Ed io cerco stimoli. 

Chiudiamo con la più cattiva delle domande: un’opinione altamente impopolare che oggi, qui, sei costretto a rivelare di condividere solo per i lettori di Indielife.

E che problema c’è: l’intero sistema musica moderno mi fa cagare ma, purtroppo, non ho i soldi per comprarmi una navicella e andare a far musica su Marte

OK: recensione dell’ultimo album di Gazzelle

Come ti senti Gazzelle? La risposta la si trova nel suo terzo album per Maciste Dischi: OK.

Un tipo di risposta che si da quando la vita non va male ma nemmeno in modo fantastico, e Flavio ha raccontato questo periodo con le 11 tracce di Ok.

Essere tristi e malinconici fa parte un po’ di tutti noi in questo periodo di confinamento fisico ma anche spirituale, fatto di giornate tutte uguali, di un eterno ritorno del tempo in cui la musica ha una sua parte.

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I brani

Il primo singolo Destri, in radio per tutto l’autunno, è una ballad pop, un tormentone che si lega a doppio filo con Però, che ricalca le stesse sonorità e ripetizioni verbali.

Un boost sonoro nuovo, molto anni ’90 e non nego che la mia canzone preferita è Lacri-ma. Una canzona ricca di troncamenti, uno stile che ricalca un po’ quello degli Zero Assoluto, come Gazzelle romani e malinconici, con cui ha collaborato nella canzone Fuori Noi.

L’album inizia con Blu, una cantilena fatta di up e down, quasi un pianto malinconico fatto in musica, come la tristezza che “Nei giorni neri, però/Rimane come una scia”. Il leitmotiv dell’intero album è la fine di un amore che si riversa in tutti gli oggetti, gli sguardi e i suoni e ovviamente le parole.

La title track OK, è il simbolo dell’incomunicabilità di coppia, quando l’amore si spegne in 2 sillabe. Tra synth “Pezzaliani” e ripetizioni a prova di radio OK è il punto centrale di questo album, dopo una crescendo positiva delle canzoni precedenti che discende con 7 e Belva.

L’unico feat in questo album è con Tha Supreme musicalmente eleva il blue-mood di Flavio, avvolgente e liberatoria, Coltellata è breve ma lascia il segno, perché si riascolta che è un piacere.

Scusa è la consacrazione di Gazzelle alla scuola vascorossiana, con il classico “eh” , una ballata chitarra e voce che si spezza con i synth ma poi torna alla voce di Flavio. Infine il romanticismo, il male d’amore e le suonate alla luna, sono racchiusi in Un po’ come noi, una canzone di fine, fine concerto e fine di una storia.

Questo album inizialmente non mi ha del tutto convinto, non mi è sembrato un terzo album ma un terzo punk, un post-post punk di Flavio. Un po’ perché non c’è stata una particolare crescita personale dell’autore, mi è sembrato più un insieme di classici alla Gazzelle. Nell’ascolto più approfondito ho trovato una certa ricercatezza nella composizione e nell’usare il suono delle parole più che il loro significato. 

Di Gemma Laquintana