Si chiama Mario Pagano, in arte solo Pagano, ed è un cantautore pugliese (quasi) trentenne. “Ryanair”, il nuovo singolo di Pagano, è un vero e proprio viaggio tra jazz e malinconia.
Pagano è una persona ed un artista davvero poliedrico. Di giorno ricercatore universitario in diritto dell’ambiente a Firenze, di sera musicista fra le mura di casa e qualche bar.
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“Per me la musica è principalmente ‘consolazione’, un’arte che deve necessariamente esprimere, accogliere e raccontare le bellezze e le difficoltà del vivere. Stare al mondo non è per nulla facile e se qualcuno o qualcosa può aiutarci a farlo in maniera più leggera, tanto meglio.”
Pagano mescola nel suo pezzo jazz e blues, lasciandosi ispirare dalla grande tradizione dei cantautori italiani. “Le mie canzoni, estremamente ironiche, tentano di raccontare come globalizzazione, lavoro e tecnologie stiano cambiando le relazioni interpersonali, specie quelle d’amore.“
“Ryanair” è un brano da ascoltare live in un bar, seduti in un dehor in una sera d’estate. La musica è leggera e lascia spazio ai sogni. Il testo ci riporta coi piedi per terra e ci fa pensare ai chilometri percorsi per incontrare una persona amata, alla nostra vita divisa fra smartphone e treni.
Ascolta “Ryanair”, il nuovo singolo di Pagano:
Testo:
Siamo fortunati ad esser nati Siamo fortunati ad esser nati in questa realtà E voli low cost, cellulari smartphone E tutto quello che ho, io lo spendo per te Per venirti a trovare Per stare un po’ insieme Per poter sostenere Milano ed Atene, o qualche altra città (o qualche altra città)
È che ad esser leggeri, poi si resta distanti E non si è manco contenti, del lavoro che c’è Perché ad esser sinceri, ti ho trovata a due passi E in questi mondi complessi, voglio semplicità
Ma questa sera, ho apparecchiato anche per te Se passi a cena ho preparato una vita con te Ma non intera, lunga o corta la prendo com’è Ma se si avvera, sogno poi mi sveglio e manchi e non m’illudo più
Mi aspetti agli arrivi Con un cartello E sopra ci scrivi “L’amore è un bordello” e questo è quanto ne so
E piglia sto treno, fai il check-in all’aereo Voglio un cielo sereno ma ho già messo il k-way Sulla Ryanair
Perché ad esser sinceri anche muoversi costa E un’altra serie non basta per sentirti con me E faccio mille pensieri, se ne vale la pena Non lasciarmi Serena, mi trasferisco da te
Ma questa sera, ho apparecchiato anche per te Se passi a cena ho preparato una vita con te Ma non intera, lunga o corta la prendo com’è Ma se si avvera, sogno poi mi sveglio e manchi e non m’illudo più
Hai già dato un’occhiata alla nostra playlist Spotify dedicata agli artisti emergenti? La trovi a questo link.
Il brano celebra l’attaccamento alla vita ed è ricco di similitudini. Nato durante uno strano periodo di lock-down, Tutti uguali è il nuovo singolo dei Canova.
Ad un arrangiamento molto solare ed euforico, si contrappone un testo caratterizzato da una profonda riflessione.
“Persi nella corrente siamo tutti uguali”
A proposito del nuovo singolo il front-man Matteo Mobrici afferma: “Non mi sono mai esposto su temi politici e sociali ma credo che in questo caso si tratti di sensibilità ed empatia apolitica, senza colore e dunque inopinabile.”
Forse non poteva esserci messaggio migliore per anticipare un già attesissimo album. Un messaggio di speranza, nonostante l’insistenza delle incertezze. Un intento propositivo incastonato in un brano ricco di similitudini. Non solo: sono forti i richiami al mondo delle favole. “Gli animali – afferma Matteo – sono sempre stati portatori di messaggi universali”.
“Tutti uguali” è esplosivo. È un concentrato di libertà, un antidoto catartico contro la paura di esprimersi.
“Tutti uguali” – copertina del singolo
Ma ripercorriamo…
Ecco i brani che anticipano l’album della band Milanese.
Lento Violento è un manifesto della pigrizia, anelata, biasimata e raccontata in questo brano stravagante prodotto da MACE e Venerus.
Musica di oggi è un impeto contro l’omologazione e l’ostentazione della propria immagine pubblica. Liberatorio. Soprattutto nel ritornello.
Neverè una ballata che culmina con l’unico assolo di chitarra dell’album. Una storia a tre soggetti, ma non proprio ironica come Threesome.
Tutti uguali: una perla.
Cari Canova, che cosa sarebbe la Musica di oggi senza di voi?
Andata/Ritorno di Lucotto: il primo mini-EP – intervista
Lucotto, al secolo Luca Minchella è un giovane musicista emergente di poco più di vent’anni che, da poco, ha pubblicato il suo primo album dal titolo “Andata/Ritorno”. Si tratta di un lavoro che parla molto di questo artista a iniziare dai testi che sono autobiografici.
Nasce a Cervaro in provincia di Frosinone nel 1999 e fin da subito i genitori gli trasmettono un grande amore per la musica, che comincia a studiare appena inizia le scuole elementari. Fin dalla prima infanzia, si nutre della musica di alcuni più grandi cantautori italiani come De Andrè, Rino Gaetano o ancora Francesco Guccini. Viene inoltre influenzato dalle sonorità rock degli anni ‘70 e ‘80 in primis Pink Floyd e Dire Straits che trasmetterà a piene mani nella musicalità dei suoi brani.
Al mondo indie, si avvicina durante l’adolescenza ed in particolare verso la nuova corrente Indie/Pop. A questo genere appartiene appunto il primo mini-EP d’esordio “Andata/Ritorno” che è stato completamente autoprodotto.
Andata/Ritorno di Lucotto: L’intervista
Copertina andata/ritorno di Lucotto
Ciao Luca, intanto ti ringrazio per questa intervista e benvenuto su Indielife. Il tuo progetto “Andata/Ritorno” racconta attraverso due canzoni un viaggio che potremmo definire biografico ed è stato autoprodotto. Cosa significa per te questo progetto? ci puoi raccontare?
In effetti, l’Album Andata/Ritorno parla di un viaggio, però sai io mi riferisco ad un viaggio che è più che altro quello che si fa solo con la mente. Quindi la mia idea di Andata e Ritorno è appunto di un viaggio verso quel luogo che in cui stai bene con una persona. In realtà le due canzoni presenti all’interno dell’album Andata/Ritorno parlano di due persone differenti, sebbene l’esito sia stato il medesimo perché in realtà non c’è stata una storia vera e propria. Mi riferisco ad “Andata” con una persona e “Ritorno” con un’altra. Una persona mi ha fatto credere di andare in un determinato posto, mentre alla fine una persona, mi ha fatto tornare inesorabilmente con i piedi per terra.
Poi in realtà c’è anche un altro significato che è quello di poter omaggiare il “There and back again” di Bilbo Baggins, nelle opere di Tolkien. Mi piace il concetto di Andata/Ritorno anche in questo senso.
Il ruolo di Bilbo Baggins sulla scrittura dei testi
La visione del personaggio di Bilbo Baggins, come ha contribuito nella produzione dei tuoi testi?
Lui ha questo spirito avventuriero, che credo bisogni adottare quando si ha a che fare con delle persone, quello che poi può essere un rapporto umano ecc. In questo senso è quello che cerco io nei rapporti con le persone con cui ho a che fare, a prescindere da come finisca il viaggio. Nel signore degli anelli dicono anche “l’importante è quello che ne trai”.
L’influenza della scena indie contemporanea e la musica d’autore
Luca Minchella in arte Lucotto durante un live
Per la tua produzione musicale, c’è qualche artista che porti nel cuore, a cui ti sei ispirato particolarmente?
Si assolutamente. Diciamo che ultimamente ascolto molto Gazelle, ma in generale tutta la scena Indie italiana di questi ultimi anni. Quindi posso dire che mi sono ispirato principalmente a loro.
Ho poi un trascorso musicalmente molto disparato. Ho ascoltato Rock e cantautorato italiano. Per quello che riguarda i testi, ho attinto molto dalle retoriche di De André o ancora Rino Gaetano, anche se naturalmente il mio punto di riferimento è adesso la scena indie.
Gli artisti che hanno influenzato il suo percorso musicale
Qual è stato il primo artista che ti ha fatto innamorare della musica? Questa tua passione come è iniziata?
A dir la verità, ascolto la musica da sempre. Nella culla, già a due giorni di vita ascoltavo De André con mio padre. La passione per De André mi ha fatto nascere l’amore per la musica. Ho ricordi di infanzia, con gli album e i live di De André.
… e qualche canzone di De André che ricordi con particolare affetto?
Di sicuro ti posso dire “Canzone di un amore perduto” che, secondo me, a tutt’oggi è imbattuta, anche se la dichiarazione d’amore , in realtà, non ha un lieto fine, ma è comunque una canzone d’amore intramontabile che non è stata ancora equiparata ad oggi.
I progetti in cantiere nel prossimo futuro
Hai altri progetti nel prossimo futuro? raccontami
Ti posso dire che in questo momento in realtà sono un po’ fermo, ma non musicalmente, nel senso che se si dovessero prospettare delle serate live, dal vivo per questa estate, ci stiamo già lavorando. Abbiamo anche in porto un singolo che doveva uscire in estate, ma non so se ci riusciremo. Ti posso dire che si intitolerà “Tanto vale” e avrà una musicalità un po’ più sofisticata e comunque qualcosa di più incisivo. Però ci sono anche un sacco di altri brani scritti e già musicati, su cui dovrò lavorarci. Di sicuro poi con il tempo, uscirà altro.
Andata/Ritorno di Lucotto: qualche altra piccola “chicca”
Altre curiosità sul tuo album?
Ti posso dire, che tutto ciò che si può leggere dai testi, si può sentire dalla musica è reale, nel senso che non ho usato fantasia, sono tutti fatti che ho vissuto e che ho avuto la necessità di mettere per iscritto.
Per saperne di più su questo artista emergente l’album Andata/Ritorno di Lucotto si può ascoltare su Spotify.
Forti richiami anni ’80, ritmo coinvolgente ed è subito hit estiva: “Instagrammare” è il nuovo singolo del duo Legno featuring rovere.
Il brano unisce sonorità vintage e contemporanee. Il risultato è travolgente. E non manca una citazione del celebre “In Alto Mare”, di Loredana Bertè.
E così, noi di Indielife siamo riusciti a intervistare il misterioso duo Legno per curiosare nelle sfumature estive del loro nuovo singolo.
Ciao, grazie per la disponibilità. Iniziamo da una domanda che sorge spontanea: i Legno sono un duo un po’ misterioso, da dove deriva questa scelta singolare di non mostrare il proprio volto?
Noi non volevamo nascondere il volto per una questione di identità: abbiamo scelto le scatole come simbolo di un qualcosa in cui sono conservati ricordi e altre cose che non si vogliono tenere in casa. Noi abbiamo preso l’idea degli scatoloni per dare voce alle nostre canzoni. Le scatole hanno comunque degli stati d’animo, come si nota nella copertina di “Titolo Album”.
Quanto conta l’immagine per promuovere la propria musica?
Le scatole nel nostro caso servono per far arrivare principalmente la musica, in un mondo di apparenza. Chiaramente i social servono per far arrivare la musica a più utenti.
“Instagrammare” – Legno ft. rovere
“Instagrammare” ha tutti i requisiti per essere una hit estiva, è questa l’intenzione?
Ogni brano trova il proprio percorso. Non era premeditato ma è nata una canzone piuttosto allegra e ritmata. Saremmo felici se diventasse una hit. Inoltre il brano si pone come un segno di vivacità estiva dopo un periodo estremamente critico che abbiamo dovuto affrontare collettivamente.
Il brano è ricco di groove e vede a partecipazione dei rovere, com’è andata?
Il pezzo è nato a cavallo del lockdown. Scrivere le canzoni è un po’ come andare dallo psicologo però gratuitamente: tiri fuori quello che hai dentro. È nata per trasmettere allegria. La collaborazione coi rovere? Andava fatta. Che poi, legno e rovere…
Nei vostri brani si percepisce un retrogusto di malinconia, ma vi definireste artisti indie?
A: Non ci piacciono molto le etichette. Se parliamo su un piano discografico allora sì, Matilde Dischi è indipendente. Le nostre canzoni derivano da una necessità. Non ci poniamo di scrivere qualcosa che sia necessariamente indie. Si tratta, potremmo dire, di un nuovo pop italiano.
B: Raccontiamo una realtà definita con un certo linguaggio. Di certo Spotify con le sue playlist per necessità etichetta la musica, ma noi diciamo che ci garba far musica!
Cosa mi rispondereste se vi dicessi che mi auguro che la prossima intervista sia faccia a faccia?
Diciamo che in genere nelle interviste togliamo la scatola! La prossima volta allora non solo mostriamo il volto, ma ti facciamo anche provare la scatola, così tu fai la parte di Legno e noi facciamo gli intervistatori.
The Last Dance – Le 10 migliori volte in cui Michael Jordan se la prende
The Last Dance, docu-serie prodotta da ESPN e Netflix, dopo mesi dalla sua uscita, rimane ancora in cima alle classifiche delle più viste di questo periodo.
Michael Jordan, protagonista e produttore, si mostra fin da subito un tipo molto competitivo, sia dentro il campo che nella sua vita fuori. A riguardo, uno degli aneddoti più divertenti raccontati avviene tra il campione e la madre di un compagno di squadra ai tempi del college, Buzz Paterson.
È proprio quest’ultimo a raccontare di quando la madre invitò Michael a casa loro per una semplice partita a carte, dando per scontato che sarebbe stata una serata tranquilla, senza scommesse né soldi, insomma una serata che non avrebbe coinvolto la competizione; ma questo era quello che credeva la famiglia Paterson, infatti Buzz racconta di come trovò Jordan a barare sbirciando le carte dell’anziana madre mentre lei era in bagno, per poter vincere ad ogni costo la partita.
Altra caratteristica molto importante del protagonista, che va di pari passo con la sua competitività, è il suo prenderla sul “personale”, e diversi episodi nella serie lo testimoniano: ad esempio quando durante una partita di allenamento del Dream Team il suo collega e amico Magic Johnson lo prese in giro nella prima metà gara per il suo scarso rendimento, per poi essere di conseguenza umiliato e sconfitto nella seconda parte. Oppure ancora quando durante l’infortunio dell’85 se la prese con i medici dello staff dei Bulls e decise di andare ad allenarsi di nascosto al college contro il loro parere. Infine, quando se la prese con i giornalisti e per vendicarsi decise di non rilasciare dichiarazioni per mesi.
Questi ed altri aneddoti e storie sono presenti in questa doc-serie sportiva, e per poter ripercorrere i momenti più belli abbiamo creato per voi una top 10, buona visione!
I MonMonday, al secolo Mathieu Bequet e Remo Spezza, sono un duo elettrowave italo-belga. In the car è il loro nuovo brano, pubblicato il 22 giugno (video in uscita il 26 giugno). In the car ha un valore particolare per i membri del duo, e in particolare per il cantante belga: viene infatti rievocato un fatale incidente in auto che ha portato via sua madre. Nel drammatico momento dello schianto sul veicolo erano presenti anche Mathieu e Tristan, i due figli della donna deceduta. La canzone, dedicata a Tristan, non tratta però l’incidente in sé, quanto delle differenze mnemoniche tra i due.
Oblio
Mathieu non si ricorda più cosa sia successo. Sa che sua madre non c’è più, ma la sua memoria gli impedisce di ricostruire la dinamica dell’incidente. Tristan, invece, sa benissimo cosa è successo; forse vorrebbe non saperlo, ma i dettagli sono stampati tra i suoi ricordi. Con In the car i MonMonday offrono il racconto di questa discrasia, parlando dell’oblio e del meccanismo di rimozione del trauma che segue un evento drammatico come quella tragedia del 1998. Il pezzo, per quanto triste, non è morboso nel ribadire i dettagli della vicenda, dato che il tema portante è la dimensione del ricordo e della sua impossibilità di fronte a un fatto talmente doloroso da dover essere allontanato e nascosto dalla mente.
Elettronica e post-punk
Dal punto di vista musicale, il nuovo singolo dei MonMonday è debitore della tradizione elettronica anni ’80 (stile Depeche Mode), ma la produzione di Remo Spezza e il mixaggio di Federico Fontana lo avvolgono in un’atmosfera malinconica che ricorda le sonorità post-punk. In the car, a discapito del tema duro che affronta, si presenta come un brano completo se visto nella tradizione cui appartiene, data la sua coerenza stilistica con tutto il lavoro che è in campo elettronico-syntwave negli ultimi 15/20 anni.
Muse folli e rivoluzionarie: la storia delle Groupies
Chi sono le groupies? Nell’immaginario di oggi corrispondono a fan accanite disposte a qualunque follia pur di intrufolarsi nel backstage o nella stanza d’hotel del loro idolo. Nulla di più. Non potrebbe esistere descrizione più limitante. Nonostante sesso, droga e rock’n roll fosse il loro mantra, le groupies – o ragazze elettriche, come le definiva Frank Zappa – sono state muse moderne, modelli di libertà sessuale e icone di moda durante tutta la golden age della musica rock. Fra scandali sessuali, canzoni d’amore (e non) e copertine di magazine, facciamo qualche passo indietro per scoprire la loro storia.
Gli anni ’60, la culla del cambiamento. I movimenti pacifisti, i capelli lunghi, i blue jeans, le droghe psichedeliche. I Beatles facevano da sottofondo allo scontro aperto fra le nuove e le vecchie generazioni. Non rimasero soli a lungo: ad affiancarli arrivarono i Rolling Stones, tallonati da Janis Joplin, Doors, Jimi Hendrix e molti altri. Negli ambienti giovanili si respiravano un fermento e un’eccitazione mai visti prima. Era l’esplosione della controcultura e della beat generation. È questo lo scenario in cui le groupies fanno il loro trionfale ingresso, armate di scollature oltraggiose e di quella spavalderia che alle donne era sempre stata negata. Fino a quel momento.
Come nasce il termine Groupies?
A voler essere onesti, agli inizi degli anni ’60 il termine “groupies” non era ancora in uso. Fu per primo Baron Wolman, direttore della fotografia del Rolling Stone, ad intuire il potenziale di queste ragazze. Bazzicando i camerini e gli studi di registrazione per realizzare i suoi scatti non poté fare a meno di notarle. Ovunque andasse la musica, c’erano anche loro. Capì che rappresentavano qualcosa di più di fans in cerca di contatto sessuale: erano parte integrante del movimento culturale che si stava realizzando nell’industria della musica. Nel ’69 Wolman realizzò un servizio per Rolling Stone. Il titolo dell’articolo, “Groupies and Other Girls“, stampò sulle ragazze del backstage un’etichetta che non si scollarono mai più di dosso.
«Noi non assistiamo allo show: lo show siamo noi»
Groupies and Other Girls – Rolling Stone, 1969
Quando Baron Wolman invitò alcune di loro per realizzare lo shooting ne rimase impressionato: tutte si presentarono vestite come modelle haute couture, per nulla intimorite dall’obiettivo fotografico.
«La prima cosa che mi colpì di queste donne fu che avevano passato un sacco di tempo ad agghindarsi in maniera tanto creativa da non poterci credere» dichiarò. «Avevano mischiato i loro outifit quotidiani con capi e oggetti da negozio d’antiquariato, creando qualcosa di assolutamente unico. Non apparivano mezze nude per sollevare l’attenzione maschile. Erano vestite per dare spettacolo.»
Nomi d’arte accompagnati da lustrini, boa di piume, valanghe di gioielli vistosi, accostamenti stravaganti. Da spettatrici passive del panorama rock si erano trasformate in protagoniste. Erano lì per inscenare la rottura totale con le regole perbeniste che soggiogavano l’immagine femminile, usando come arma la libertà sessuale, l’auto-celebrazione e l’eccesso portato all’estremo, nella vita e nel guardaroba. Da quel momento in poi le groupies cavalcarono gli anni ’70 come modelli e icone di stile, sia in termini di moda che di attitudine. Non solo ispirarono gli outfit da palcoscenico degli artisti stessi, ma riversarono la loro influenza sui grandi stilisti nei decenni successivi.
Quando il gioco si fa estremo: calchi di attributi e scandali sessuali
Cynthia Plaster Caster in compagnia di un pezzo della sua simpatica collezione
Sarebbe comunque ipocrita sostenere che rotolare tra le lenzuola del divo di turno non fosse tra i loro obiettivi principali e, diciamocelo, la concorrenza era tanta. Qualcuna aveva anche messo in piedi escamotage particolarmente originali per riuscirci. Avete mai sentito parlare di Cynthia Plaster Caster? Quella che si intrufolò nella stanza d’hotel di Jimi Hendrix e lo convinse a prendere un calco in gesso del suo pene. Dopo il suo ne collezionò molti altri, tanto che organizzò diverse mostre delle sue opere e i Kiss le dedicarono anche una canzone, l’omonima ‘Plaster Caster‘. L’idea di ottenere riproduzioni in gesso dagli attributi delle rockstar le venne parlando con Frank Zappa, che la trovò estremamente divertente.
Conosciamo bene la sregolatezza che caratterizzava gli artisti di quegli anni e non sorprende scoprire che molte groupies si siano rese protagoniste di situazioni a dir poco folli. È il caso della misteriosa groupie dai capelli rossi coinvolta nell’incidente delMud Shark secondo il quale, complice una dose massiccia di stupefacenti, i Led Zeppelin fecero uso improprio di uno squaletto appena pescato dalla finestra dell’hotel in cui alloggiavano, proponendolo alla ragazza come improbabile sex toy. Anche questo episodio fu considerato – contro l’opinione generale – esilarante da Frank Zappa, il quale vi si ispirò per la scrittura del pezzo che porta il titolo di “Mudshark“, appunto.
Fonti d’ispirazione e angeli custodi
Anche senza bisogno di attingere a situazioni stravaganti ed eventi scandalosi, l’influenza delle groupies stuzzicò la fantasia compositiva di molti Dei del rock e del pop. Sono infatti dedicate a loro alcune delle canzoni più famose del periodo: ‘Hot Dog‘ dei Led Zeppelin, ‘Ruby Tuesday‘ dei Rolling Stones, ‘Rocket Queen‘ dei Guns’n Roses, ‘Fat Bottomed Girls‘ dei Queen. E l’elenco è ancora lungo. “Fat bottomed girls, you make the rockin’ world go ‘round“ Questi brani nascevano da un sincero sentimento di affezione. Gli artisti si sentivano compresi e confortati dalla presenza delle groupies che li seguivano con un ardore simile a quello del fanatismo religioso, partecipando ad ogni fase della loro vita artistica e privata: confezionavano per loro abiti di scena, vestivano i panni di amorevoli mogli e madri surrogate durante i mesi passati lontano da casa, fungendo da distrazione e ispirazione.
Groupies: 50 anni dopo
Cosa rimane alle superstiti di questa sfavillante sottocultura? Una marea di fotografie, un lungo elenco di articoli e libri, diversi film – come Almost Famous di Cameron Crowe. E la consapevolezza di aver preso parte a un movimento senza precedenti. Tante oggi si dedicano alla famiglia, sono diventate imprenditrici o hanno continuato a lavorare nella musica, pur rimanendo saldamente attaccate ai ricordi agrodolci della golden age.
Pamela Des Barres, una delle ragazze di “Groupies and Other Girls” immortalate da Wolman, ha compiuto 72 anni. Definita da molti la madre di tutte le Groupies, ne ha certo il merito: vanta tra le sue conquiste personaggi del calibro di Jim Morrison, Mick Jagger, Jimmy Page e Keith Moon. Nel corso della sua vita ha pubblicato ben cinque libri in cui svela le sue avventure scandalose nei backstage. Come le altre ha assistito allo scorrere del tempo che ha tramutato le persone alle quali ha scelto di consacrare anima e corpo in leggende. In qualità di ex groupie ha dovuto affrontare tutte le controversie del caso: accuse a posteriori di anti-femminismo, polemiche circa la mercificazione del proprio corpo. Ma Pamela sorride di fronte a tante parole. «Eravamo tutte lì solo per la musica: io sono stata considerata una puttanella sottomessa agli uomini, ma in realtà sono una donna che ha fatto esattamente quello che voleva nella vita» racconta alle pagine del Rolling Stone cinquant’anni dopo l’articolo che avrebbe fatto la storia. «La gente mi domanda, “Perché hai voluto incontrare questi ragazzi?”. Perché no? Perché non voler partecipare a qualcosa di così importante?»
Pamela Des Barres, la regina delle Groupies: oggi è una scrittrice affermata.
Si intitola “Quarantella” il nuovo singolo di Davide Brienza, rilasciato lo scorso 16 giugno.
Davide è un cantautore vecchio stampo. Ha 22 anni, portati abbastanza male mi dice, e da quattro anni e mezzo vive in cattività a Milano. Di origini lucane, come molti ha scelto di lasciare il suo paese natio per cercare “fortuna” al Nord. Ma quella Terra Amara la porta sempre con sé, nel suo cuore, nella mente e nelle note della sua chitarra.
Il nuovo singolo di Davide Brienza, “Quarantella”, è un brano legato al momento particolare che abbiamo vissuto, alla “Fase 1” di questa nuova storia.
Attraverso la webcam io e Davide abbiamo parlato davvero di un sacco di cose, di musica, di Milano, del sud Italia, di noi giovani. Ma io questa conversazione me la immagino seduti al tavolino di un baretto di provincia, in mezzo a un po’ di birre e sigarette.
Ciao Davide, come stai? Per chi non ti conosce, ti va di parlarci un po’ di te?Com’è iniziato il tuo percorso musicale?
Ciao Marianna. Sto bene, un po’ scombussolato dagli ultimi mesi ma sto bene. Io sono un “cantastorie” ed un operaio del mondo della cultura. Ho iniziato a suonare all’età di 12 anni grazie a mio padre, anche lui musicista. Ho poi iniziato a studiare in maniera privata, anche se ho mollato quasi subito. Evidentemente per la mia indole irrequieta, che è quella che mi porta a scrivere, non sono mai riuscito ad andare d’accordo con gli istituti di didattica. Ho iniziato a studiare quella che era la musica popolare americana, la musica folk di protesta, il folk revival degli anni ’60 e ’70 e poi quella che è stata la corrente del revival blues degli anni ’80. Prima infatti scrivevo in inglese e con la band che avevo a Rionero in Vulture suonavamo principalmente solo musica inglese.
Poco prima di salire su a Milano ho invece iniziato ad approcciarmi alla musica italiana. Sono partito da chi era più vicino come sonorità a quella americana, quindi De Gregori, Bennato, Capossela. Da Edoardo Bennato sono poi passato al fratello Eugenio, avvicinandomi così alla scuola dei cantori popolari del meridione. Amo la musica popolare, mi piace lo studio della musica popolare. E poi con il lavoro dell’associazione Terra Amara, che si occupa di territorialità, siamo andati a scavare un po’ nella nostra zona.
Mi parli un po’ di questa associazione?
Terra Amara nasce a Rionero per “colpa” di mio padre, stanco di vedere la comunità giovanile del nostro territorio un po’ disgregata. Nasce con la consapevolezza che i ragazzi del Meridione per forza di cose scappano dalla propria terra d’origine, ma lo fanno senza coscienza in merito al danno che recano al capitale culturale ed umano del territorio. Nasce quindi dall’idea di voler riaggregare i giovani delle piccole comunità rurali e creare dei ponti con le città urbane, dove c’è un fervore culturale diverso. Si occupa quindi della ricerca della territorialità e della valorizzazione del patrimonio culturale di tutta la penisola, e non soltanto del Meridione.
E infatti, il primo progetto che abbiamo realizzato durante la quarantena si chiamava “Quarantine – Rotte culturali dal tuo divano“. Abbiamo scelto 16 regioni con le quali abbiamo dei contatti ed abbiamo raccontato tutte le realtà regionali che lavorano sul territorio. Il nostro obiettivo è quello di far capire che lo spostamento è importante per l’incontro ed il confronto con nuove realtà e nuove persone, ma non bisogna dimenticare che si viene da un determinato posto. Se si è ciò che si è, è perché si è nati in quel posto lì.
Ascolta “Quarantella”, il nuovo singolo di Davide Brienza direttamente da qui:
“Quarantella”è un pezzo insieme sarcastico e un po’ incazzato. Ci racconti com’è nato?
“Quarantella” è un giro di riflessioni sul momento quasi surreale che abbiamo vissuto. Quindi sì sicuramente è sia un po’ sarcastico che incazzato. Nessuno di noi nel vecchio continente si sarebbe mai aspettato che tutto questo potesse accadere, perché viviamo in una sorta di bolla di sicurezza e pensiamo che tutto accada in Africa, in Sud America, in Medio Oriente. Quello che è successo ci ha insegnato che non è così. E ci ha insegnato il valore della semplicità, che io ho sempre espresso nei miei brani. Una semplicità che mai nessuno si è filato, soprattutto in una città come Milano. Abbiamo perso i sorrisi delle persone, sempre nascosti dietro le mascherine. Ma possiamo ora sfruttare questa occasione per soffermarci sugli sguardi delle persone, sugli occhi. Io mi sono reso conto che gli occhi delle ragazze sono molto più belli da quando ci sono le mascherine.
Poi “Quarantella” è un brano per metà sarcastico e per l’altra incazzato perché tutti abbiamo sempre pensato al lockdown ma senza capire realmente perché ci fossimo rinchiusi in casa. L’abbiamo fatto per non far crepare i nostri vecchi, che morivano davvero intorno a noi. Inizialmente pensavamo soltanto al fatto che non si potesse uscire, non si potesse suonare, che c’era la polizia per strada. Poi inizi a sentire che il nonno di un tuo amico è morto, che è morta una signora nel tuo condominio, e capisci che è tutto reale.
Sicuramente però c’è stata una logica del terrore, nata dal fatto che in Italia non eravamo assolutamente organizzati per affrontare una situazione del genere, non eravamo pronti. Per questo ero incazzato. La parte sarcastica era invece vedere tutti i miei colleghi e i miei amici che stavano lì a menarsela sui social, a dire di volersi tutti bene, mentre fino a qualche mese fa ci scannavamo tra di noi (ride, ndr). Abbiamo perso gli spazi pubblici, quegli spazi di cui non ne abbiamo mai capito l’importanza. Come non abbiamo mai capito l’importanza della comunità e l’importanza del lavorare insieme. Per questo ero incazzato.
L’idea di “Quarantella” nasce invece fra le mura spaccate e i calcinacci de Labrutepoque, uno spazio culturale in zona Città Studi a Milano. Il titolo l’ho preso proprio da Giorgio Serinelli, il proprietario del locale, che ha curato anche la fotografia del video. Il testo si è poi evoluto sul tavolo del “Covo”, la mia ex casa di Milano, chiamata così perché era un po’ il ritrovo di tutti. Al tavolo di quella casa si è sviluppato poi tutto il processo di scrittura, ma sicuramente l’idea del brano è nata a Labrutepoque. “Quarantella” è a metà fra la quarantena e le tarantelle che si fanno pe’ campà. Il testo l’ho scritto in qualche notte insonne, perché a me piace scrivere di notte.
Come dici nel tuo nuovo singolo “siamo solo di passaggio e adesso paghiamo il nostro dazio”. In effetti questo periodo ci ha portato a ripensarci come individui, a pensare che forse non tutto ci è dovuto. Che siamo ospiti su questa terra e non padroni. Pensi che questo periodo ti abbia portato a cambiare o a ripensare qualcosa di te stesso, come artista e come persona?
Nei mesi precedenti alla peste, da dicembre fino all’8 marzo, ho vissuto un periodo di stanchezza fisica e mentale. Se hai bisogno di me sono difficilmente reperibile, puoi trovarmi solo nei locali. Sono sempre in giro perché amo quello che faccio, amo la musica. Fare il “musicante” e l’operaio culturale è una missione, non un mestiere. Ma mi sono reso conto che avevo bisogno di un periodo di stop, anche se non avrei voluto che si fermasse proprio tutto il mondo (ride, ndr).
In realtà però non mi sono ritrovato a rivalutare la mia posizione come cantastorie o come operaio del mondo della cultura. Ho “potenziato” in un certo senso i miei pensieri ed i miei presupposti per fare questo lavoro, ovvero il bisogno di un contatto vero con le persone. Tutto quello che faccio lo faccio di persona, amo il contatto sociale. Ma erano tutte cose che pensavo già prima.
Per quanto riguarda gli altri, credo che la peste, il virus, ci sia sempre stato e siamo noi, come dico nella mia canzone. Sappiamo prendere informazioni solo da topi mobili come questi (indica il cellulare, ndr). Ci eravamo dimenticati di essere individui, che sappiamo farci il pane da soli, che fuori c’è un mondo. In realtà molte delle cose che ho scritto le sentivo già, hanno preso forma a causa o grazie a quello che è stato il momento. Sono abbastanza convinto del fatto che stiamo pagando il nostro dazio. Mamma natura ci sta dicendo di fermarci, di rallentare. Anche se credo che non impareremo niente da quello che è successo.
“La luce tornerà ma di me che ne sarà?”. Questo virus ha messo il mondo in pausa, e anche se la musica non si è fermata perché tantissimi artisti hanno prodotto dei brani nell’ultimo periodo, di fatto la musica è ferma. O per lo meno la musica dal vivo. In un nostro articolo abbiamo parlato dell’esempio del bike in. Tu che pensi che succederà? Come pensi si potranno svolgere i concerti?
Sinceramente non ho molta voglia di parlare di questo, ma ti dico che non penso che per ora i concerti si potranno fare. O comunque tutti i big hanno già spostato i concerti al 2021. Io credo che i live si potranno riprendere solo quando ci sarà un vaccino. Tu andresti, che ne so, al concerto di Tiziano Ferro, insieme al tuo ragazzo o ad una tua amica, ad un metro di distanza l’uno dall’altro e con la mascherina, senza poter bere una birra? Secondo me non ha senso. Io non andrei a un mio concerto con la mascherina.
Grazie mille!
Puoi trovare “Quarantella”, il nuovo singolo di Davide Brienza, sul canale Youtube dell’artista.
Alla domanda “Qual è lo strumento più venduto al mondo?” le risposte sono semplici: chitarra, pianoforte, violino. Quello che non tutti sanno è che in realtà non è così! Blues, country e rock sono indizi per dedurlo e la risposta non è poi così difficile, ma certamente inimmaginabile… Per scoprilo ci tocca fare un passo indietro fino al 1821, quando Christian Friedrich Ludwig Buschmann lo brevettò.
Uno strumento a fiato
Un corpo centrale chiamato comb, due placchette porta ance– sottili lamine solitamente d’ottone o di bronzo al fosforo, ma anche d’acciaio- e i gusci esterni: l’armonica a bocca è uno degli strumenti più utilizzati di sempre nella produzione musicale. Blues, country, rock, ma anche folk e musica classica; il suono inconfondibile dell’armonica a bocca si fa strada nei più disparati generi!
Il suono viene prodotto dalla vibrazione creata al passaggio dell’aria sulle ance e fuoriesce grazie al guscio metallico che funge da cassa di risonanza; le note, invece, vengono prodotte soffiando o aspirando dallo stesso foro. I tipi di armonica prodotti possono essere divisi in due gruppi: diatonica e cromatica. La prima consente di suonare solo le note della tonalità per cui è accordata; la seconda consente di suonare tutte le dodici note per ogni ottava.
C’era una volta il West
La diffusione dello strumento più venduto al mondo risale al XIX secolo, tuttavia è spesso associata al mondo West americano, soprattutto poiché utilizzata in numerosissime colonne sonore di film western, uno su tutti C’era una volta il West (di Sergio Leone) in cui, addirittura, uno dei personaggi è soprannominato Armonica in quanto suonatore dello strumento.
Tra gli armonicisti più celebri ci sono sicuramente Alice Cooper, Bono Vox, Robert Plant e Brian Jones e Bob Dylan che con il Premio Nobel per la Letteratura, ha contribuito all’affermazione dello strumento nel mondo del rock!
Il Basket in Giappone non è mai stato considerato uno sport di prima categoria, almeno fino a quando nel 1992, il Dream Team Americano proveniente dall’NBA vince la medaglia d’oro alle olimpiadi di Barcellona. Ed è proprio in quegli anni che Shonen Jump, una delle riviste di punta per ragazzi, sta pubblicando il manga di Takehiko Inoue che lo renderà famoso in tutto il mondo, il suo vero e proprio cavallo di battaglia: SLAM DUNK. La serializzazione dura ben sei anni, terminando nel 1996 in concomitanza con la chiusura della serie animata iniziata solo 3 anni dopo la prima pubblicazione del manga nel 93 spinti con tutta probabilità, dalle vendite raggiunte dal cartaceo proprio in corrispondenza delle olimpiadi.
Slam Dunk in Italia, fra edizione cartacea ed animata
In Italia la prima edizione del fumetto vien pubblicata nel 1997 ma la fama ed il successo di questa opera arriva intorno agli anni 2000 con la versione animata passata su MTV e ricordata dai fan per il particolare stile di doppiaggio che rimane una piccola perla in mezzo a prodotti censurati e riadattati. Questo fa dell’anime di SLAM DUNK un prodotto ottimo? A mio avviso no, ma prima di affrontare questo argomento credo sia giusto capire di che cosa parla l’opera originale e perché bisogna mettere a confronto questi due media per capire il mio punto di vista.
Prima di tutto però c’è da dire che Slam Dunk, secondo gli editor di Inoue, non avrebbe mai avuto successo proprio perché negli anni 90 il basket in Giappone era pressoché sconosciuto. Gli proposero quindi un gag manga sui teppisti ed è per questo che inizialmente appare più scanzonato e caciarone andando a diventare uno degli spokon di punta solo proprio nel 1992 dove l’autore comincia a spingere dando davvero il meglio di se.
Piccoli accenni di storia per chi vuole saperne di più
La storia comunque è abbastanza semplice: Hanamichi Sakuragi è il tipico teppista che non ha voglia di impegnarsi ne a scuola ne tanto meno in altri contesti extrascolastici: è un ragazzo con un passato non troppo semplice che viene spesso richiamato a causa di risse con altri gruppi di studenti fin dai tempi delle medie. Con lui è presente la sua fedelissima “armata Sakuragi” composta da amici che dopo le medie si sono iscritti tutti al liceo Shohoku.
Si, Takehiko Inoue decide di ambientare la storia che vuole raccontare ai tempi del liceo. Ed è proprio qui che il nostro protagonista dai capelli rossi conosce Haruko Akagi, ennesima ragazza che fa breccia nel suo cuore e che lo convince ad iscriversi al club di Basket. Per impressionarla e fare colpo Hanamichi si atteggia anche se non ha mai preso in mano un pallone ed anzi, il basket lo odia proprio perché alle medie viene scaricato da una ragazza perché innamorata di un giocatore della sua scuola.
Ed è già dai primi capitoli che si può vedere la passione per il basket dell’autore perché da una semplice spiegazione di cosa sia un Dunk si può intuire quanto sia legato a questo sport:
“ Sai che cos’è un Dunk?” “ Slam Dunk vuol dire essere una stella del basket, saper giocare in modo da incitare la folla e quando la paura dell’avversario fa concentrare tutta l’energia in un canestro… quello si chiama Slam Dunk. “
Dalla realtà alle pagine inchiostrate
L’influenza che l’NBA ha avuto sull’autore si può notare chiaramente a partire dalla divisa dello Shohoku e dei licei che fronteggerà nel corso della storia che, di fatto, sono liberamente ispirati alle divise utilizzate nel campionato americano: Lo Shohoku veste i colori dei Chicago Bulls, il Ryonan quelli degli Utah Jazz, lo Shoyo quelli dei Boston Celtics ed il Kainan quelli dei Los Angeles Lakers.
Anche i personaggi presenti nella storia sono ispirati a giocatori realmente esistiti o, addirittura, sono presenti vere e proprie azioni avvenute sul campo dell’NBA, posture, e situazioni similari.; due esempi sono Hanamichi che è in tutto e per tutto Dennis Rodman mentre il tiro di Paxson in gara 6 nel 1993 contro I Phoenix Suns viene ripreso in un momento cruciale ma che non voglio rovinarvi se deciderete di approcciarvi al manga o all’anime.
E’ qui però che arriva il vero e proprio scoglio. Perché la versione animata non è un vero e proprio capolavoro così come lo è la sua controparte originale?
Adattamento e Doppiaggio del tutto inaspettati
Come già accennato, il successo vero e proprio arriva negli anni 2000 quando la serie animata approda su MTV all’interno della fascia “Anime Night” che, a quel tempo vantava già titoli di spicco: Cowboy Bebop, Trigun, Golden Boy o Master Mosquiton.
La fortuna principale che vanta Slam Dunk per quanto riguarda la versione animata è sicuramente il doppiaggio che, a distanza di 20 anni rimane qualcosa di assolutamente indimenticabile per quanto sia stato particolare e fuori dagli schemi del tempo. Molti prodotti venivano censurati, riadattati ed edulcorati per permetterne la visione ad un pubblico più giovane ma l’edizione italiana di Slam Dunk è un eccezione perché addirittura vengono aggiunti termini, parolacce ed espressioni volgari che nella versione giapponese non erano presenti; per colmare i silenzi in alcuni punti degli episodi, come per esempio durante un tiro o successivamente ad una schiacciata, sono state introdotte delle voci pensiero perché la sequenza poteva essere troppo silenziosa.
La domanda che sorge spontanea però è com è possibile che nessuno si sia mai lamentato di un adattamento e doppiaggio così grezzo? La risposta è che le puntate venivano presentate ad MTV addirittura poche ore prima della messa in onda, e di conseguenza non era possibile revisionarle o controllarle a dovere. C’è da dire che questa scelta ha reso il prodotto animato in versione italiana una vera e propria perla.
Una serie quasi perfetta, ma perché non lo è?
Il vero problema della versione animata non verte neanche sugli errori di pronuncia di alcuni nomi o cognomi: Sakuraghi al posto di Sakuragi così come lo conosciamo, Akaghi al posto di Akagi o addirittura il fatto che Haruko, ogni volta che deve chiamare in causa il fratello Takenori lo vada a chiamare per cognome, Akagi appunto.
Il problema vero e proprio è che in 101 puntate andate in onda e pur sapendo che fin dai primi volumi lo Shohoku ha come obiettivo il campionato nazionale… beh, Slam Dunk è orfano di finale. La versione animata di quest’opera tradisce, secondo me, il volere dell’autore che è palese fin dall’inizio: la storia racconta del sogno di voler arrivare ai campionati nazionali che avvengono proprio durante la sezione che è stata tagliata di netto. Non voglio darvi false informazioni ma pare che l’anime sia stato tagliato così bruscamente a causa di dissapori fra Takehiko Inoue e la Toei Animation, casa produttrice, che non riteneva valido il finale scelto dal mangaka.
A mio avviso non c’è niente di più sbagliato perché il finale di Slam Dunk è perfetto così com’è stato pensato lasciando quel dolceamaro che ha saputo commuovere, emozionare e sensibilizzare i lettori empatizzando con i ragazzi protagonisti e non, all’interno della storia. Affezionarsi ai giocatori anche di altri licei non è facile così come non è scontato che, vittoria o sconfitta, ci sia una forte empatia verso giocatori come Sendoh, Fujima o Maki.
Disegna dei personaggi realistici e saranno loro a raccontare la tua storia.
Sono pochi i manga che ti fanno immedesimare anche in personaggi che non sono i protagonisti della storia o che, inizialmente, non si comportano come dovrebbero: basti vedere come il personaggio di Mitsui sia uno dei più caratterizzati ed amati avendo un evoluzione incredibile che porta lo spettatore a non capire perché abbia un determinato atteggiamento fino a quando non vediamo il suo flashback e capiamo come deve sentirsi, capiamo quanto sia difficile andare avanti.
E seppur in quel punto della storia, Hisashi Mitsui sia il tipico bulletto stereotipato che vuole solo fare casino, il prepotente di turno… in un attimo diventa una persona colma e carica di sensibilità che ci dimostra quanto la vita possa prendere una piega estremamente diversa a causa di un infortunio, a causa dell’arroganza di non voler ascoltare i consigli. Ed è questo che ci insegna Slam Dunk, la passione per il basket come vettore che permette di crescere, permette di elevarti e diventare qualcuno che non avresti mai pensato di poter essere. Se Sakuragi non avesse mai incontrato Haruko e non si fosse lasciato convincere a diventare un “genio” del basket, probabilmente avrebbe preso una brutta strada, no?
Qual’è il futuro di Slam Dunk? Le mie conclusioni
A conti fatti, dunque, che cosa ci possiamo aspettare per il futuro di Slam Dunk? Sicuramente sappiamo che Takehiko Inoue ha in programma qualcosa per il 2020 e questo qualcosa è un nuovo artbook in tiratura limitata. In quest’epoca di Reboot e remake non vedo neanche così improbabile, se solo lo si volesse, una trasposizione fedele al manga per i 30 anni dell’opera. Del resto anche Hunter x Hunter e Fullmetal Alchemist Brotherhood hanno avuto un nuovo rifacimento anime o sbaglio?
In buona sostanza, per chi volesse affrontare per la prima volta l’avventura di tuffarsi in questo mondo consiglio vivamente di leggere il Manga che è stato ristampato anche quest’anno in una nuova veste grafica con sovra copertina perché se inizialmente potrà sembrarvi un po’ sottotono, vi posso garantire che quando cominciano le partite sarete estremamente curiosi di sapere come vanno a finire. Solo ed esclusivamente dopo aver letto questo capolavoro, e chi mi conosce sa che sono pochi i manga che definisco come tali, vi consiglio la visione della serie animata che sicuramente vi strapperà non poche risate anche se, vi lascerà profondamente delusi nelle sue sezioni finali.
Inoltre, una piccola curiosità che collega il mio nickname, celebre Cyborg Ninja di Metal Gear Solid e Slam Dunk? Beh, solo per vie traverse: La sorella di Inoue ha prestato la voce a Sunny e Rosemary nella versione Giapponese di Metal Gear Solid 4: Guns of The Patriot. E magari, più avanti, avremo modo anche di parlare proprio di questa serie di Hideo Kojima, chi può dirlo.