Slam Dunk – Perchè l’anime non è un capolavoro?

Slam Dunk – Perchè l’anime non è un capolavoro?

Il Basket in Giappone non è mai stato considerato uno sport di prima categoria, almeno fino a quando nel 1992, il Dream Team Americano proveniente dall’NBA vince la medaglia d’oro alle olimpiadi di Barcellona. Ed è proprio in quegli anni che Shonen Jump, una delle riviste di punta per ragazzi, sta pubblicando il manga di Takehiko Inoue che lo renderà famoso in tutto il mondo, il suo vero e proprio cavallo di battaglia: SLAM DUNK.
La serializzazione dura ben sei anni, terminando nel 1996 in concomitanza con la chiusura della serie animata iniziata solo 3 anni dopo la prima pubblicazione del manga nel 93 spinti con tutta probabilità, dalle vendite raggiunte dal cartaceo proprio in corrispondenza delle olimpiadi.

Slam Dunk in Italia, fra edizione cartacea ed animata

In Italia la prima edizione del fumetto vien pubblicata nel 1997 ma la fama ed il successo di questa opera arriva intorno agli anni 2000 con la versione animata passata su MTV e ricordata dai fan per il particolare stile di doppiaggio che rimane una piccola perla in mezzo a prodotti censurati e riadattati. Questo fa dell’anime di SLAM DUNK un prodotto ottimo? A mio avviso no, ma prima di affrontare questo argomento credo sia giusto capire di che cosa parla l’opera originale e perché bisogna mettere a confronto questi due media per capire il mio punto di vista.

Prima di tutto però c’è da dire che Slam Dunk, secondo gli editor di Inoue, non avrebbe mai avuto successo proprio perché negli anni 90 il basket in Giappone era pressoché sconosciuto. Gli proposero quindi un gag manga sui teppisti ed è per questo che inizialmente appare più scanzonato e caciarone andando a diventare uno degli spokon di punta solo proprio nel 1992 dove l’autore comincia a spingere dando davvero il meglio di se.

Piccoli accenni di storia per chi vuole saperne di più


La storia comunque è abbastanza semplice: Hanamichi Sakuragi è il tipico teppista che non ha voglia di impegnarsi ne a scuola ne tanto meno in altri contesti extrascolastici: è un ragazzo con un passato non troppo semplice che viene spesso richiamato a causa di risse con altri gruppi di studenti fin dai tempi delle medie. Con lui è presente la sua fedelissima “armata Sakuragi” composta da amici che dopo le medie si sono iscritti tutti al liceo Shohoku.


Si, Takehiko Inoue decide di ambientare la storia che vuole raccontare ai tempi del liceo. Ed è proprio qui che il nostro protagonista dai capelli rossi conosce Haruko Akagi, ennesima ragazza che fa breccia nel suo cuore e che lo convince ad iscriversi al club di Basket.
Per impressionarla e fare colpo Hanamichi si atteggia anche se non ha mai preso in mano un pallone ed anzi, il basket lo odia proprio perché alle medie viene scaricato da una ragazza perché innamorata di un giocatore della sua scuola.

Ed è già dai primi capitoli che si può vedere la passione per il basket dell’autore perché da una semplice spiegazione di cosa sia un Dunk si può intuire quanto sia legato a questo sport:

“ Sai che cos’è un Dunk?”
“ Slam Dunk vuol dire essere una stella del basket, saper giocare in modo da incitare la folla e quando la paura dell’avversario fa concentrare tutta l’energia in un canestro… quello si chiama Slam Dunk. “

Dalla realtà alle pagine inchiostrate


L’influenza che l’NBA ha avuto sull’autore si può notare chiaramente a partire dalla divisa dello Shohoku e dei licei che fronteggerà nel corso della storia che, di fatto, sono liberamente ispirati alle divise utilizzate nel campionato americano: Lo Shohoku veste i colori dei Chicago Bulls, il Ryonan quelli degli Utah Jazz, lo Shoyo quelli dei Boston Celtics ed il Kainan quelli dei Los Angeles Lakers.


Anche i personaggi presenti nella storia sono ispirati a giocatori realmente esistiti o, addirittura, sono presenti vere e proprie azioni avvenute sul campo dell’NBA, posture, e situazioni similari.; due esempi sono Hanamichi che è in tutto e per tutto Dennis Rodman mentre il tiro di Paxson in gara 6 nel 1993 contro I Phoenix Suns viene ripreso in un momento cruciale ma che non voglio rovinarvi se deciderete di approcciarvi al manga o all’anime.

E’ qui però che arriva il vero e proprio scoglio. Perché la versione animata non è un vero e proprio capolavoro così come lo è la sua controparte originale?

Adattamento e Doppiaggio del tutto inaspettati

Come già accennato, il successo vero e proprio arriva negli anni 2000 quando la serie animata approda su MTV all’interno della fascia “Anime Night” che, a quel tempo vantava già titoli di spicco: Cowboy Bebop, Trigun, Golden Boy o Master Mosquiton.


La fortuna principale che vanta Slam Dunk per quanto riguarda la versione animata è sicuramente il doppiaggio che, a distanza di 20 anni rimane qualcosa di assolutamente indimenticabile per quanto sia stato particolare e fuori dagli schemi del tempo. Molti prodotti venivano censurati, riadattati ed edulcorati per permetterne la visione ad un pubblico più giovane ma l’edizione italiana di Slam Dunk è un eccezione perché addirittura vengono aggiunti termini, parolacce ed espressioni volgari che nella versione giapponese non erano presenti; per colmare i silenzi in alcuni punti degli episodi, come per esempio durante un tiro o successivamente ad una schiacciata, sono state introdotte delle voci pensiero perché la sequenza poteva essere troppo silenziosa.


La domanda che sorge spontanea però è com è possibile che nessuno si sia mai lamentato di un adattamento e doppiaggio così grezzo? La risposta è che le puntate venivano presentate ad MTV addirittura poche ore prima della messa in onda, e di conseguenza non era possibile revisionarle o controllarle a dovere. C’è da dire che questa scelta ha reso il prodotto animato in versione italiana una vera e propria perla.

Una serie quasi perfetta, ma perché non lo è?

Il vero problema della versione animata non verte neanche sugli errori di pronuncia di alcuni nomi o cognomi: Sakuraghi al posto di Sakuragi così come lo conosciamo, Akaghi al posto di Akagi o addirittura il fatto che Haruko, ogni volta che deve chiamare in causa il fratello Takenori lo vada a chiamare per cognome, Akagi appunto.


Il problema vero e proprio è che in 101 puntate andate in onda e pur sapendo che fin dai primi volumi lo Shohoku ha come obiettivo il campionato nazionale… beh, Slam Dunk è orfano di finale. La versione animata di quest’opera tradisce, secondo me, il volere dell’autore che è palese fin dall’inizio: la storia racconta del sogno di voler arrivare ai campionati nazionali che avvengono proprio durante la sezione che è stata tagliata di netto. Non voglio darvi false informazioni ma pare che l’anime sia stato tagliato così bruscamente a causa di dissapori fra Takehiko Inoue e la Toei Animation, casa produttrice, che non riteneva valido il finale scelto dal mangaka.

A mio avviso non c’è niente di più sbagliato perché il finale di Slam Dunk è perfetto così com’è stato pensato lasciando quel dolceamaro che ha saputo commuovere, emozionare e sensibilizzare i lettori empatizzando con i ragazzi protagonisti e non, all’interno della storia. Affezionarsi ai giocatori anche di altri licei non è facile così come non è scontato che, vittoria o sconfitta, ci sia una forte empatia verso giocatori come Sendoh, Fujima o Maki.

Disegna dei personaggi realistici e saranno loro a raccontare la tua storia.

Sono pochi i manga che ti fanno immedesimare anche in personaggi che non sono i protagonisti della storia o che, inizialmente, non si comportano come dovrebbero: basti vedere come il personaggio di Mitsui sia uno dei più caratterizzati ed amati avendo un evoluzione incredibile che porta lo spettatore a non capire perché abbia un determinato atteggiamento fino a quando non vediamo il suo flashback e capiamo come deve sentirsi, capiamo quanto sia difficile andare avanti.


E seppur in quel punto della storia, Hisashi Mitsui sia il tipico bulletto stereotipato che vuole solo fare casino, il prepotente di turno… in un attimo diventa una persona colma e carica di sensibilità che ci dimostra quanto la vita possa prendere una piega estremamente diversa a causa di un infortunio, a causa dell’arroganza di non voler ascoltare i consigli.
Ed è questo che ci insegna Slam Dunk, la passione per il basket come vettore che permette di crescere, permette di elevarti e diventare qualcuno che non avresti mai pensato di poter essere. Se Sakuragi non avesse mai incontrato Haruko e non si fosse lasciato convincere a diventare un “genio” del basket, probabilmente avrebbe preso una brutta strada, no?

Qual’è il futuro di Slam Dunk? Le mie conclusioni

A conti fatti, dunque, che cosa ci possiamo aspettare per il futuro di Slam Dunk? Sicuramente sappiamo che Takehiko Inoue ha in programma qualcosa per il 2020 e questo qualcosa è un nuovo artbook in tiratura limitata. In quest’epoca di Reboot e remake non vedo neanche così improbabile, se solo lo si volesse, una trasposizione fedele al manga per i 30 anni dell’opera. Del resto anche Hunter x Hunter e Fullmetal Alchemist Brotherhood hanno avuto un nuovo rifacimento anime o sbaglio?

In buona sostanza, per chi volesse affrontare per la prima volta l’avventura di tuffarsi in questo mondo consiglio vivamente di leggere il Manga che è stato ristampato anche quest’anno in una nuova veste grafica con sovra copertina perché se inizialmente potrà sembrarvi un po’ sottotono, vi posso garantire che quando cominciano le partite sarete estremamente curiosi di sapere come vanno a finire. Solo ed esclusivamente dopo aver letto questo capolavoro, e chi mi conosce sa che sono pochi i manga che definisco come tali, vi consiglio la visione della serie animata che sicuramente vi strapperà non poche risate anche se, vi lascerà profondamente delusi nelle sue sezioni finali.

Inoltre, una piccola curiosità che collega il mio nickname, celebre Cyborg Ninja di Metal Gear Solid e Slam Dunk? Beh, solo per vie traverse: La sorella di Inoue ha prestato la voce a Sunny e Rosemary nella versione Giapponese di Metal Gear Solid 4: Guns of The Patriot. E magari, più avanti, avremo modo anche di parlare proprio di questa serie di Hideo Kojima, chi può dirlo.

“Siamo ancora qui. Il passato e il presente dei nativi americani”: il saggio di Danielle SeeWalker

L’artista, scrittrice e attivista lakota Danielle SeeWalker presenta il saggio Siamo ancora qui. Il passato e il presente dei nativi americani”, nato dalla collaborazione con la fotografa Carlotta Cardana (con la quale condivide il progetto “The Red Road Project”) e la ricercatrice Lorena Carbonara.

L’opera racconta del genocidio culturale che ha afflitto i nativi americani. Essi però con resilienza combattono per difendere l’identità e la storia delle proprie tribù.

“Questo libro nasce dall’incrocio di tre rette che per un istante hanno formato un triangolo, la cui base poggia sulla certezza che non possiamo più permetterci di non raccontare la storia della depredazione delle culture native […]” afferma l’autrice nella prefazione dell’opera.

Questo triangolo è formato dalla scrittrice del saggio, l’artista e attivista lakota della tribù Sioux di Standing Rock Danielle SeeWalker; dalla fotografa Carlotta Cardana; dall’autrice della prefazione e degli approfondimenti Lorena Carbonara. Si tratta di tre donne diverse che abitano in differenti parti del mondo. Hanno deciso di unire le loro esperienze per dare voce ai nativi americani. La linea ideologica seguita tende chiaramente a evitare il cancellarsi del prezioso e diversificato patrimonio di credenze, spiritualità e lingue dei nativi americani.

Siamo ancora qui. Il passato e il presente dei nativi americani

“Ho voluto scrivere un libro snello e di facile lettura che trattasse molti di questi argomenti e che offrisse una panoramica sulla storia e la cultura dei nativi americani negli Stati Uniti” continua l’autrice.

Nell’opera infatti si parla anche e soprattutto del presente dei nativi americani. Si parla di coloro che sentono forte il dovere di proteggere la terra a cui appartengono. Questo intento unisce tutte le tribù, anche le più lontane.

Non avrebbero dovuto essere qui e invece ci sono. Sono più decisi che mai ad affermare la propria identità. Hanno mantenuto saldo il legame con la terra, con gli antenati e con il mondo degli spiriti. Stanno combattendo affinché non sia stato vano il sacrificio di chi è venuto prima di loro.

Instagram: Danielle SeeWalker

Fonte: Ufficio Stampa Il Taccuino Bologna

Prima di andare, leggi l’intervista all’autore Alessandro Bruni!

Beatles: musica e pop art

Il gruppo più famoso della storia, un miliardo di copie vendute, un vero e proprio fenomeno di massa: i Beatles hanno rivoluzionato un’epoca segnandola profondamente. Dal ’57 ad oggi sono ancora numerosissimi i fan dalla band che, nonostante lo scioglimento e la perdita di due dei quattro componenti, continua ad avere un successo globale!

the beatles

Le origini: Quarrymen

La storia del quartetto di Liverpool comincia il 6 luglio 1957 quando, nella chiesa di St. Peter, i Quarrymen guidati da un giovanissimo John Lennon si esibiscono durante una festa.
Tuttavia bisogna fare un passo indietro, all’epoca della prima formazione del gruppo. Fondatore dei Quarryman, insieme a Lennon, è Peter Shotton: compagni di scuola, i due decidono di cominciare a comporre musica con una chitarra ritmica e un washboard, dando vita ad un sound skiffle dalle sonorità anni ’50. Reclutati Bill Smith (basso), Rod Davis (banjo), Eric Griffiths (chitarra) e Colin Hanton alla batteria, la band era pronta a partire.

Agli inizi di luglio del ’57, i Quarrymen bazzicavano i concerti già da un po’, ma fu proprio quel 6 luglio che le radici dei futuri Beatles cominciarono a crescere: entra in scena Paul McCarteny che si presenta al gruppo suonando Long Tall Sally di Little Richard e Twenty Flight Rock di Eddie Cochran. Colpito dalla sua abilità alla chitarra, Lennon non esitò a concedergli un posto nella band, anche se questo avrebbe significato condividere la leadership.
Pochi mesi dall’entrata di McCarteny nel gruppo, fu proprio lui a contattare George Harrison per un’audizione – che sarebbero poi diventate due- al fine di inserirlo nei Quarrymen.

I beatles boots

La notte del 16 agosto 1960 è il punto di svolta: un nome che sarà leggenda. Passati per Johnny and The Moondogs, Beatals, Silver Beetles e Silver Beatles, finalmente la scelta definitiva ricade su The Beatles: un gioco di parole al limite tra beetlescoleotteri, prendendo spunto dal gruppo dei Crickets, i grilli- e beat.

Da quel momento in poi comincia la discesa: i Beatles acquistano sempre più successo. Arrivati ad Amburgo grazie al loro primo manager, è nella città tedesca la loro musica diventa consapevole: costretti a suonare ad un volume altissimo e per molto tempo, il gruppo prende coscienza delle proprie doti ed è proprio in queste circostanze che nasce lo stile e il repertorio che li caratterizzerà per sempre. Sempre ad Amburgo, nel ’62, va via via formandosi quello che sarà il nucleo definitivo della band e anche il loro look cambia: capelli in avanti con la frangia, giacche di pelle e Beatles boots!

Ascesa e maturità

I compositori inglesi più straordinari del 1963 sono, a tutti gli effetti, John Lennon e Paul McCartney… Le settime maggiori e le none si integrano così bene nelle loro canzoni da far pensare che armonia e melodia nascano insieme.
William Mann, dal quotidiano The Times, 1963

Il 1962 è l’anno decisivo: dopo l’incontro con Ringo Starr (Richard Starkey) e il successivo ingresso dello stesso nella band come batterista, il gruppo può definitivamente decollare. Brian Epstein, manager del gruppo, si accorge del loro incredibile talento e comincia a presentarli a numerose case discografiche finché la Parlophone firma il primo contratto: il quartetto di Liverpool incide il primo 45 giri Love me do che raggiunge da subito la vetta delle classifiche. Nello Studio Tre di Abbey Road furono registrati quattro pezzi, tra cui una versione di Bésame mucho e tre brani originali: Love Me DoP.S. I Love You e Ask Me Why.

Due mesi dopo l’uscita di Please Please Me esce l’album omonimo che vende 500.000 copie e raggiunge il primo posto nella classifica britannica degli LP. Tournée, apparizioni televisive, successi musicali: la popolarità cresce al punto che la regina Elisabetta II conferisce loro il titolo di baronetti il 26 Ottobre 1965, nel corso di una cerimonia a Buckingham Palace. Altro grande successo per l’album seguente With the Beatles, che riscosse consensi in pochissimo tempo!

Il biennio 66-67 è considerato il periodo di massimo splendore per i Big Four. Con l’uscita di Revolver, picco creativo del gruppo, le sonorità dei Beatles evolvono e maturano definitivamente segnando un periodo di lunghe sessioni in studio per registrare suoni perfetti e riconoscibili ancora a distanza di anni.
Grandi conferme musicali arrivano anche con premi e riconoscimenti: Grammy per la canzone dell’anno conferito a Drive My Car, un singolo per Norwegian Wood.

Beatles fenomeno globale

Il successo dei Beatles non si arresta e a distanza di anni restano uno dei gruppi storici della musica globale. La loro influenza si conferma anche in numerose citazioni dal mondo del cinema, dell’arte, ma non solo. Nel film Sister Act- Una svitata in abito da suora una bambina dichiara che i quattro apostoli si chiamino John, Paul, George e Ringo.
In Trainspotting, invece, Renton, Sick Boy, Spud e Begbie attraversano la strada in fila indiana proprio come la copertina dell’album Abbey Road.

Per quanto riguarda il mondo della TV, ai Beatles è stata dedicata una serie dal nome The Beatles in cui sono raccontate le disavventure dei componenti del quartetto. Allo stesso modo, nei Simpson e più precisamente nell’episodio Il quartetto vocale di Homer Homer, Skinner, Apu e Winchester divengono un gruppo vocale nominato “The Be-Sharps” che è molto simile al quartetto britannico.

Sicuramente, in cima alla classifica si colloca la leggenda della morte di Paul McCarteny secondo la quale sarebbe deceduto il 9 novembre del ’66 in seguito ad un incidente d’auto e sostituito con un sosia…

Canzoni Per: “Scopare” è il primo disco

Dal 17 Giugno possiamo ascoltare il primo disco del collettivo Canzoni PerScopare”. No, non è come sembra: le canzoni sono “più o meno serie”, come afferma il gruppo. Si tratta di un esperimento in cui pop e cantautorato sono gli ingredienti. Il tutto accompagnato da un buon gin tonic che “non è un cocktail, è uno stato d’animo” (dal brano “Nel vento d’Ottobre”).

Ma vediamo come i ragazzi di Canzoni Per hanno risposte alle domande di Indielife!

 Iniziamo con una domanda legata al nome “Canzoni per”: ci raccontate di più riguardo questa scelta “sospesa”?

Diciamo che è una scelta aperta più che sospesa. Ci piaceva l’idea di poter dare un’identità diversa al progetto da album in album. In questo modo mettiamo al centro della nostra produzione le canzoni e non la personalità degli artisti che ci sono dietro e quindi siamo più liberi di variare e di essere coerenti solo con quello che ci va di fare.

“Scopare” è il vostro primo disco ed è piuttosto sfacciato. Avete in mente un target definito da poter intercettare?

In realtà no. Diciamo che “Scopare” è un album apparentemente sfacciato perché, titolo a parte, le canzoni che lo compongono sono più o meno serie. In questo senso l’unico target che tendiamo a escludere è quello di chi giudica i libri dalla copertina: se ti scandalizzi e non ascolti un album perché ha un nome irriverente noi sei parte del nostro target.

I vostri brani parlano principalmente di sentimenti. Che ne pensate delle relazioni umani nell’era dei social?
Che sono difficili. Ma che lo erano anche prima dei social. Sicuramente ora ci sono componenti di morbosità nuova ma ci sono anche molti più mezzi per rimanere in contatto con le persone che amiamo. Diciamo che, nel bene e nel male, è finito il tempo in cui in una fredda mattina d’inverno, solo sulla banchina, guardi la nave salpare e pensi che quella sia l’ultima volta che vedi la persona che ami.

Le vostre “Canzoni per” sono piuttosto brevi. A cosa si deve questa scelta?

L’idea originaria dell’album “Scopare” era fare tutte canzoni della durata di un minuto. Ci piaceva provare a portare all’estremo il discorso sulla brevità della forma canzone. Non sempre siamo riusciti a restare entro il limite di un minuto, ma come primo esperimento è piuttosto soddisfacente: 10 brani in 17 minuti.

Dove sarete fra un anno (ipoteticamente)?

Come disse Madame de Brionne, al buon Principe di Périgord che, all’inizio della rivoluzione, le consigliava di stabilirsi in città: “sarò contadina, se devo, ma borghese… mai!”

Grazie!

Canzoni Per: Scopare

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Fonte: Ufficio stampa Astarte Agency

Coma Berenices : “Archetype” è un nuovo inizio – intervista

Archetype” è il nuovo disco della band Coma Berenices, composta da Antonella Bianco (chitarra elettrica, tastiere), Daniela Capalbo (chitarra elettrica, chitarra acustica), Andrea De Fazio (batteria) e Gabriele Cernagora (clarinetto).

I sei brani che compongono il nuovo album sono differenti per ritmiche e melodie, ma sono accomunati da atmosfere eteree e un po’ sospese. Di certo vanno ascoltati in maniera consequenziale, possibilmente in una giornata piovosa, ma non troppo. Insomma, da ascoltare e basta.

Coma Berenices, Archetype

Ma per saperne di più noi di Indielife abbiamo intervistato la band.

Ciao! Iniziamo dal nome del vostro progetto “Coma Berenices”. Ha un retrogusto mitologico, da dove deriva questa scelta?

In realtà il nome della band è stato scelto quasi per scherzo. Al rientro a casa dopo un concerto di St. Vincent a Roma, nel tentativo di azzeccare quello giusto, un’amica ci propose Coma Berenices ironizzando sulle nostre capigliature a fine serata: fu per noi una folgorazione! Nella mitologia c’è però un richiamo indiretto al nostro modo di concepire la musica, una dichiarazione d’amore, una costellazione atipica, a tratti timida e introversa, visibile quando il cielo non è inquinato. Ci riconosciamo in questa semplicità e sincerità.

La prima traccia dell’Album “Archè” è un po’ un ossimoro: si tratta di una melodia incombente ma delicata. Com’è andato il processo di composizione di questo brano?

Archè nasce dal nulla, incombente, una melodia eterna, e al nulla ritorna, per rinascere, e rinascere ancora, in punta di piedi, per non svegliare” E. Di Tommaso
Un amico, poeta e critico musicale così ha interpretato questo brano. Archè nasce da un forte bisogno di rigenerazione. Il brano è stato composto in un periodo burrascoso vissuto da Dani. In studio è stato ben accolto.

“Keep Your Feet On The Stars pt.1” potrebbe richiamare all’atmosfera di quando piove ma dalle nuvole traspare qualche raggio di sole. Cosa racconta questa traccia così evocativa?

Il brano è composto da due parti speculari. La prima potrebbe essere rappresentata dalla domanda: Dove si cade quando sogniamo? E nella caduta cosa troviamo?  C’è libertà nel lasciarsi andare, ma anche scoperta: come ad esempio quella di un raggio di sole tra un insieme di nuvole.

Il brano “Silent Days” è un brano parlante. È un brano che pone interrogativi, legati anche alla solitudine. Allora nasce prima la melodia o il mood che si vuole esprimere?

“Silent Days” nasce come mood tradotto in melodia. È un brano d’amore, una dichiarazione di amore in assenza della destinataria, un insieme di parole non dette.

La parola “Archetipo” significa etimologicamente primo esemplare. Allora questo album segna l’inizio di qualcosa di nuovo?

Certamente. “Archetype” è nuovo inizio, ne siamo consapevoli, ma al tempo stesso ci auguriamo che il nostro percorso possa essere sempre in costante evoluzione di bisogni e scelte espressive. In questo modo, potranno esserci molti “nuovi inizi” e una spinta costante a fermarsi per guardare indietro la strada percorsa.

Domanda tecnica: qual è il tempo musicale più pertinente al vostro mondo?

Dal moderato al…vivace!

Grazie!

Grazie a te e a Indielife!

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“Spazio”: il mondo di Ariete racchiuso in un EP

“Spazio”: il mondo di Ariete racchiuso in un EP

Il 14 maggio 2020 Ariete rilascia il suo primo EP “Spazio”, nel quale racconta tutte le sue fragilità, esorcizza i suoi demoni e culla le sue malinconie, dipingendole in bianco e nero.

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La copertina di “Spazio”, l’EP di Arianna Del Ghiacchio, in arte Ariete

Briciola dopo briciola, pezzo dopo pezzo. Questo è “Spazio”, l’EP di Ariete: un mucchietto di frammenti raccolti dal pavimento della sua stanza. Sei brani, sei schegge di vissuto che raccontano tenere complicazioni rielaborate in un luogo al sicuro dal mondo esterno, a bassa voce. Una chitarra esitante, synth smussati, timidi beat, un riverbero avvolgente: l’arrangiamento di “Spazio” è minimale e garbato, sembra quasi scusarsi, si ripiega su se stesso. È un esercizio di introversione maturo ed emozionale nel quale è facile rivedersi anche quando si ha superato i vent’anni da un po’.

Originaria di Anzio, Ariete fa capolino dalla scuola romana di Calcutta e Gazelle, dai quali prende gran parte della sua ispirazione. Ma in lei c’è anche tanto cantautorato folk americano da cui attinge i suoi accordi, e non manca nemmeno qualche accenno alla tradizione di De André e Guccini.
In realtà, ha davvero poca rilevanza andare a ripescare a ritroso tra le sue influenze; Arianna Del Ghiaccio (questo il suo nome), classe ’02, ha un sound tanto personale da aver già lasciato intendere perfettamente quale sia il suo marchio di fabbrica in 18 minuti di EP.

Ariete non è nuova al mondo della musica: nel 2019 partecipa a X Factor, pur non riuscendo a superare il Bootcamp. Lo stesso anno rilascia il suo primo singolo “Quel Bar”, seguito a ruota da “01/12”, il quale non passa inosservato agli occhi attenti di Bomba Dischi, che accoglie la giovane cantautrice sotto la sua ala protettrice.
Ad affiancarla nella produzione dell’EP “Spazio”, Drast del duo Psicologi – sempre proveniente dal roster di Bomba Dischi e appartenente all’ondata post-indie che sta scombinando le carte sul tavolo delle tendenze musicali italiane. Drast mixa, masterizza e duetta con lei nel brano “Riposa in Pace”, sicuramente il più radiofonico tra i pezzi della raccolta.

Chiunque ascolti “Spazio” entra in punta di piedi in luogo intimo. Fa la conoscenza dei demoni, degli amori distorti, delle insicurezze proprie di una generazione che sta rapidamente conquistando il suo posto nel panorama musicale.

“Parte di me”, il singolo d’esordio di Adduci

Si intitola “Parte di me” il singolo d’esordio del cantautore Adduci. Di origini napoletane, Adduci è anche chitarrista e produttore. Il brano vede la produzione di Lele Battista e Yuri Beretta e anticipa l’album di inediti in prossima uscita.

Ma lasciatemi spiegare di che si tratta!

“Parte di me” parla della scoperta di sé, di quegli aspetti del proprio io con cui non tanto si va d’accordo. Eppure sono sempre lì fino a quando non si risolve il dissidio interiore. E perché no, fino a quando non si trova un personale equilibrio.

Il brano inoltre racconta come ci si possa ritrovare disorientati anche quando si crede di avere tutto sotto controllo.

So perfettamente che ore sono, ma non ricordo più che giorno è

“Parte di me” dà voce a quelle parole che facciamo finta di non sentire, seppur avvolti dalla consapevolezza che c’è qualcosa che sta urlando per essere considerata.

E così tra sonorità sospese e riflessioni speculari, il brano anticipa un album “che sarà un po’ diverso a livello di suoni”, come afferma l’artista.

Infatti noi di Indielife abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Adduci per scoprire di più riguardo il suo progetto solista.

Guarda il video dell’intervista!

Fonte: Ufficio Stampa Parole & Dintorni

Adduci. Foto di Stefano Venosta

Ascolta Adduci su Spotify e segui Adduci su Instagram!

Prima di andare però, guarda il video dell’intervista alla cantautrice Miglio!

Hansa Studios: da David Bowie agli U2 – il rock tra Monaco e Berlino

Hansa Studios: da David Bowie agli U2 – il rock tra Monaco e Berlino

Se è vero che la musica non ha confini, ci sono delle città dove la musica ci lascia un pezzo di cuore per legarsi inevitabilmente. Può essere certamente il caso di Berlino, che negli anni ‘70 – ‘80 e inizio degli anni ‘90, divenne il quartier generale degli Hansa Studios, uno degli studi di registrazione più iconici non solo della Germania, ma anche d’Europa. Parliamo naturalmente degli Hansa Tonstudios situati nella Potsdamer Platz a Berlino Ovest a pochi passi dal muro che la divideva dalla Berlino Est. 

A prima vista, gli Hansa studios, non hanno nulla di particolare. Anzi, più che uno studio di registrazione sembrano un grosso palazzo dell’800, di quelli dove un tempo abitavano ricchi e nobili. In effetti. l’edificio dove si trova lo studio di registrazione nel 1913, era sede della società edilizia della città. 

Nel primo dopoguerra, l’edificio distrutto, venne completamente rimesso a nuovo e acquistato dai fratelli Peter e Thomas Meisel che lo resero lo studio di registrazione che conosciamo oggi. 

Hansa Studios – da Monaco a Berlino : perché la Germania fu musicalmente d’avanguardia 

Quale fu il fattore che rese città come Monaco e Berlino musicalmente innovative? A quell’epoca, Berlino Ovest cominciava a fiorire di nuove menti provenienti da tutto il mondo. Anche tantissimi musicisti e artisti italiani, tra gli anni ‘70 e ‘80 si recarono a Berlino in cerca di nuovi stimoli. Pensiamo ad esempio a Giovanni Lindo Ferretti dei mitici CCCP che proprio nella capitale tedesca, sviluppo la sua idea di punk rock italiano. L’ esempio però più celebre, è sicuramente quello del compositore e produttore altoatesino Giorgio Moroder, che alla fine degli anni ‘60, decise di produrre a Berlino la musica del futuro. 

All’inizio degli anni ‘70, il mondo si stava preparando per quello che sarebbe stata la rivoluzione della disco music. Una svolta musicale alla quale Moroder non si fece trovare impreparato. Fondò a Monaco, lo studio di registrazione Musicland, che oltre a produrre i lavori di vere leggende della disco come Donna Summer e Amanda Lear, collaborò anche con pietre miliari della musica rock come i Queen, Elton John, Led Zeppelin e gli Scorpions

Clima Cosmopolita dunque quello di Berlino, ma anche pieno di creatività e voglia di farcela in quei coloratissimi anni ‘80, resero esperienze come quelle di Monaco e Berlino uniche nel loro genere. 

David Bowie – la trilogia di Berlino (1977 – 1979)

Uno dei capolavori memorabili che fu prodotto negli Hansa Studios, fu sicuramente la mitica trilogia di Berlino, composta dagli album Low, Heroes e Lodger. 

Berlino, ha un significato quasi mistico per il duca bianco. Nel 1975, David Bowie era completamente distrutto dalla tossicodipendenza ed era in cerca di un città nella quale vivere in modo completamente indisturbato. Berlino, oltre che economica, gli permetteva di immergersi nella scena musicale tedesca in modo indisturbato. 

Nel 1976, Bowie “riprese in mano” la sua vita producendo l’album di Iggy Pop “The Idiot”. Ascoltò inoltre in quel periodo alcune opere di Brian Eno come Discreet Music. Nacque così una collaborazione proficua tra i due artisti che li portò a comporre la mitica trilogia. Questi tre anni furono un periodo di grande sperimentazione. Grazie alle Strategie Oblique, le carte inventate da Brian Eno e Peter Schmidt per superare il blocco creativo dell’artista, Bowie sperimentò in modo totale il sound musicale, rendendolo al contempo accessibile al pubblico.

Un amore contrastato al di là del muro di Berlino – Heroes

La storia che narra Heroes è degna di Romeo e Giulietta. Due amanti vivono i loro pochi momenti di felicità proprio sotto il muro di Berlino. L’assolo di chitarra è Robert Fripp che fece l’incredibile miracolo di registrare la sua parte in un solo giorno. 

Ad ogni modo Heroes divenne una canzone da leggenda. Si dice che persino il grande John Lennon, quando fu sul punto di registrare “Double Fantasy”, espresse il desiderio di realizzare un disco all’altezza di Heroes. 

U2: gli anni di Achtung Baby

Siamo nella Berlino degli anni ‘90. La caduta del muro di Berlino, ha portato nuovo rinnovamento nel mondo occidentale che inizia finalmente ad assaporare il clima dell’Europa unificata. Anche gli U2, dopo aver prodotto dei capolavori come War e The Joshua Tree, stanno affrontando numerosi cambiamenti. Gli umori tra la band non sono buoni a causa di divergenze di tipo artistico. 

Berlino rappresenta per gli U2, il giusto compromesso che porta i membri della band a realizzare Achtung Baby, un album corale prodotto ancora una volta dal maestro della musica sperimentale Brian Eno. Questo album iconico, si mostra nel suo insieme un incontro tra vecchio e nuovo, presente e futuro. La sintesi perfetta di Achtung Baby, è “One”, un inno universale che richiama pace e fratellanza. Un brano che non smette di essere attuale nonostante siano passati più di 20 anni.  In definitiva, possiamo dire che nella storia degli U2, c’è un prima e un dopo Achtung Baby. Un nuovo inizio che li ha portati ad essere la grande band che tutti noi abbiamo imparato ad apprezzare. 

Gli Hansa Studios – si continua ad innovare 

Ad oggi gli Hansa tonstudios, non hanno smesso di stupire, continuando ad essere innovativi sulla scena musicale. Quale sarà il prossimo capolavoro prodotto da questo studio di registrazione da leggenda?

L’ULTIMO PASTO CON MIO PADRE

Sapevo sarebbe stato difficile, ma non pensavo così tanto. Maledizione!

Ho appena aperto la porta e già ho voglia di scappare, ci metterò una vita. Abbiamo seppellito papà appena due giorni fa, l’ho rivisto disteso in quella bara dopo vent’anni. Ho ascoltato il mio cuore, ho seguito la mia strada battendo la porta ed insultandolo quando la giovinezza e la stupidità regnava sovrana nella mia mente.

A ricordarmi tutto questo c’è la mia foto, con la maglietta della squadra e il pallone a spicchi su una mano. Appena entrato e già il mio povero papà mi prende a pugni. Non ha mai approvato la mia passione per il basket, mi voleva nell’arma proprio come lui e mio nonno, ed ora trovo la mia immagine sul mobile in corridoio. Ricordo quando mi è stata fatta.

Era l’ultima partita, avevamo vinto il titolo dopo una serie estenuante a Los Angeles, vincemmo per due punti con un tiro da tre del sottoscritto proprio sulla sirena. Un classico in questo sport. Un fotografo italiano mi chiese se poteva immortalare il primo connazionale che aveva vinto il titolo NBA. Due secondi dopo lo scatto, quell’omone di due metri e venti che risponde al nome di Sloan, mi faceva il bagno con lo champagne e mi prendeva in braccio. Quella foto fece il giro del mondo, ma credo che il video del gavettone con lo champagne superò i confini terresti. Ero in America già da un paio d’anni e mi stavo facendo il mazzo per farmi apprezzare e dimostrare il mio valore in mezzo a quelle stelle. Il livello di gioco è altissimo e per chi viene dall’Europa, l’impatto è tremendo.

Ricordo che pensai proprio a mio padre quando vincemmo quel titolo per merito mio, pensai a lui e come mi ero vendicato delle sue parole e delle sue errate previsioni.

il basket non ti darà mai un futuro, in America sono dei campioni non prenderanno mai sul serio un giocatore italiano come te”.

Quelle furono le ultime parole di mio padre, nell’ultima litigata. Avevo appena accettato il provino per la squadra di Treviso. Avevo comunicato quella che per me era la notizia che attendevo da una vita, durante un pranzo domenicale. Non mi aspettavo i salti di gioia da parte sua, non l’aveva mai fatto, ma almeno una pacca sulla spalla.

Quel provino mi avrebbe, come poi è successo, permesso di approdare nel fantastico mondo del basket professionistico. Certo non era l’NBA, ma da qualche parte dovevo iniziare. Niente di tutto questo accadde, mio padre si limitò a poggiare il bicchiere di un vino rosso siciliano che stava bevendo e mi disse semplicemente che stavo perdendo tempo come al solito. Avevo passato tutta la vita con mio padre, mia madre era morta quando avevo solo tre anni e lui era diventato tutto il mio mondo.

Ora capisco il suo atteggiamento, voleva solamente il meglio per me e nella sua mentalità, il basket non lo era. Non dava fiducia a quello che non capiva e la pallacanestro era una di quelle cose. Ma il quel momento, in preda all’euforia e pieno di anni di discorsi sulle cose importarti, mi alzai di scatto e gli scaricai tutta la mia rabbia condita di insulti che adesso riecheggiano nella mia testa come spiriti maligni che vogliono divorare la mia anima.

Sbattei la porta e me andai per sempre, il giorno dopo presi il treno per Treviso dove giocai per cinque anni. Dopo fui scelto per la squadra dei Toronto ed approdai nella mia personale versione di paradiso. Covai per anni il rancore e la rabbia per mio padre, non cercai mai di ricontattarlo.

Sono stato sempre un tipo testardo ed orgoglioso, proprio come mia madre. Ora mi chiedo come ha passato tutti questi anni da solo in questa piccola e solitaria casa. I miei cugini si sono goduti mio padre, molto più di me. Ovviamente il resto della famiglia mi odiava, ero lo stronzo che aveva fatto i soldi e si era scordato della famiglia. A pensarci bene ora, forse avevano ragione. Ormai è troppo tardi, loro continuano ad odiarmi e mio padre è sotto un paio di metri di terra.

Al funerale ero seduto da solo in prima fila davanti alla bara, tutti gli altri si erano allontanati e gli unici che mi rivolgevano la parola erano il prete e i ragazzini fuori dalla chiesa che volevano un mio autografo. Chiudo la porta e mi dirigo verso la camera da letto, dentro al cassetto del comodino ho trovato due gagliardetti, quello della mia vecchia squadra e quello della squadra attuale. Un altro pugno allo stomaco. Grazie papà!

Il letto è perfettamente in ordine, come il resto della casa. Nonostante l’età non era cambiato di una virgola, il classico pignolo ossessionato dall’ordine e dalla pulizia. Inizio a costruire con il nastro adesivo, i pacchi che mi sono portato. Faccio un lungo respiro e comincio a mettere dentro tutto quello che resta di mio padre. Nonostante gli anni passati ad odiarmi, i miei cugini non hanno obbiettato e mi hanno lasciato da solo a fare questo struggente compito. Dal loro punto di vista, questa è la giusta punizione che il loro amorevole zio vuole infliggermi.

I loro calcoli sono giusti, faccio fatica e probabilmente mio padre si starà divertendo, ovunque sia in questo momento. Ogni oggetto mi riporta indietro nel tempo, mi ricorda una vita che avevo completamente scordato. In America è tutto così bello, moderno e grande che è facile dimenticarsi delle piccole cose che abbiamo qui in Italia. Il calore di un esile appartamento per esempio, sono cose che nelle grandi metropoli oltreoceano raramente si possono sentire. Ho già messo via tutti i suoi vestiti, li porterò alla chiesa. Ora devo mettere via tutte le foto che sono sparse dentro i cassetti e suoi mobili. Ma devo riprendere fiato, ogni foto è una parte del mio passato che torna ed a me serve una dose massiccia di coraggio.

Guardo l’ora sul mio orologio costato diecimila dollari, è l’ora di pranzo e il mio stomaco lo conferma. Entro in cucina in fondo al corridoio, anche qui non è cambiato nulla. Un piccolo tavolo in legno di castagno attaccato alla parte di destra, il frigorifero alto e bianco con tante calamite attaccate ed un televisore di appena venti pollici, vicino alla porta. Decido che le calamite le porterò tutte a Chicago, sono perfette per il mio grande e grosso frigo ultramoderno.

Rappresentano tutte le città, italiane e straniere, che ha visitato mio padre e mi miei cugini. La parete sinistra è coperta dal lungo mobile che ospita il lavandino, i fuochi e molti cassetti che mio padre ha riempito con gli oggetti più disparati. Mi guardo intorno, sul tavolo vicino alla frutta messa al centro, trovo il telecomando. Decido di accendere la tv, il telegiornale di metà giornata inizia a snocciolare le notizie più importanti. Ascolto distratto mentre guardo nel frigo e nei mobili sopra il lavandino alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Sembra che mio padre abbia voluto, a sua insaputa, lasciarmi un gran bel regalo.

Nel frigo trovo un pezzo di guanciale, una confezione di uova ed una bustina di pecorino romano. Fanno la loro comparsa, davanti ai miei occhi, anche un pacco di spaghetti e un barattolo di pepe tritato. La carbonara era il suo piatto preferito e lui era un fenomeno a cucinarla. Dove vivo io, nonostante la grande maggioranza di connazionali che hanno aperto tanti ristoranti, non si trova una carbonara decente neanche a pagarla oro. Un dolce sorriso si disegna sul viso mentre prendo la pentola, la riempio d’acqua e la metto sul fuoco. Apro il frigo e inizio a tagliare il guanciale, lo faccio a piccoli cubetti proprio come mi ha insegnato lui. Poi è la volta delle uova, ne spacco un paio e le iniziò a sbattere con vigore. Uno dei piatti più buoni che c’è nella cucina italiana e anche uno dei più veloci nella preparazione.

Il telegiornale è concluso e a breve inizierà la quello sportivo. Inizio a fare un po’ di zapping, non mi va di sentire le notizie sportive, tanto meno quelle che mi riguardano. Trovo il canale scientifico, e inizio a vedere un documentario mentre dei gustosi spaghetti fumanti mi chiamano dal piatto. Il documentario naturalistico finisce e lascia il posto ad uno storico sulla seconda guerra mondiale.

Erano i preferiti di mio padre. Decido di alzarmi e di prendere la sua foto che si trova sul mobile in corridoio. Quell’immagine lo ritrae in alta uniforme, quel giorno d’estate aveva ricevuto un importante encomio dal Presidente della Repubblica in persona. Faceva molto caldo, mio padre sudava dentro la sua pesante divisa ed io avevo appena undici anni. Quello stesso pomeriggio, nel piazzale del ristorante, riuscì a rovinare il vestito nuovo giocando a pallone con i miei cugini. All’epoca c’era ancora tanta innocenza e ci volevamo bene come fratelli. Mentre la voce calda del narratore inizia a spiegare come la resistenza cercava di contrastare i nazifascisti, prendo la forchetta e la giro tra i spaghetti prima di portarla alla mia bocca.

<<Alla tua papà, ovunque tu sia. Grazie di tutto!>>

Immagini prese da Google immagini

Clementi Simone